don Marco Pedron"Le relazioni o cambiano o muoiono"


Le relazioni o cambiano o muoiono
don Marco Pedron
XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Vangelo: Lc 15,1-32 
Questo è un vangelo nel vangelo. Dietro a queste righe c'è veramente un universo per tutti noi.

Questo brano è la storia di Dio che accoglie ogni figlio smarrito, che lo aspetta a braccia aperte.
E' la storia di Gesù Cristo che ha dovuto lasciare la sua casa (Dio) per discendere sulla terra, finire nel più basso della terra (porci) per ritornare alla casa del Padre.
E' la storia di tutti gli adolescenti del mondo che, per vivere, devono rompere con la casa e con il padre, per poter trovare se stessi, la propria vita, la propria missione e il proprio posto in questo mondo.
E' la storia di come, a volte, si hanno le cose ma non ce ne rendiamo conto: per questo è fondamentale fare esperienza, capire, percepire, la ricchezza che si ha. E finché la si ha non ce se ne rende conto! Ci sono cose che non possono essere imparate nei libri ma solo "uscendo", facendo esperienza, vivendo, sbagliando e provando. E se ci si vuole proteggere dalla possibilità di perdersi e di sbagliare non le si imparerà.
E' la storia di come si possono fare tante "cazzate" nella vita, ma non è mai troppo tardi. Si può finire con i porci o si può condurre una vita depravata (prostitute) ma c'è sempre la possibilità di redimersi, di recuperare la propria vita e soprattutto la propria dignità.
E' la storia dell'amore che rimane: quel padre rimane al di là di tutto, al di là dell'evidenza, al di là del dolore, al di là del rifiuto che ha ricevuto da suo figlio.
E' la storia del rifiuto per amore: amare è dire di no, è slegarsi, è andarsene, è rifiutare certi rapporti non perché non siano buoni, non perché non si voglia l'altro, ma perché per vivere, per fare il proprio viaggio bisogna fare così, bisogna rifiutare il papà e la mamma per ritrovare il padre e la madre.
E' la storia di chi ha paura di crescere, di cambiare: se ne sta in casa, con le sue solite idee, con il suo solito lavoro, nel suo solito mondo e muore. Muore perché la vita è andare, crescere, cambiare. Così il figlio maggiore che crede morto, depravato, l'altro fratello, non si accorge che sta parlando di sé. E' lui che è un morto in casa, è lui che è corroso e paralizzato dalla paura. E cosa fa? Giudica! Giudica perché non riesce a vivere la sua vita e lo infastidisce da morire che suo fratello invece lo faccia. Il giudizio è sempre la voce della morte: attacco te perché io non sono capace di vivere.
E' la storia di come non sia possibile nessun viaggio se non si rientra in sé (15,17): se tu non ti ascolti, se tu non ti guardi dentro, se tu continui a vivere proiettato fuori, pensando che siano le cose a farti felice (soldi) o le persone che devono farti felice (padre, donne) tu deleghi la tua felicità agli altri. E' solo quando accetti l'impegnativo e responsabilizzante compito (ma anche affascinante e inebriante) che nessuno può fare questo per te, se non che te, che diventi adulto e che puoi accedere alla felicità della vita.
Sono tutte possibili letture di questo vangelo.
Questo vangelo è la storia, descrive, mostra come le relazioni cambiano nella vita. Guardate cosa succede.
C'è un padre con due figli. Essendoci tre persone ci sono tre relazioni: il padre e il minore; il padre e il maggiore, e i due fratelli, il minore e il maggiore.
Per entrambi i figli il padre è colui che dà. Il figlio minore infatti gli dice: "Dammi la parte di eredità che mi spetta" (15,12). Sentite!? "Dammi": è chiaro come lui vede suo padre. Suo padre è colui che gli dà.
Tutti i figli vedono così il loro padre e la loro madre: il latte, il cibo, i vestiti, una casa, i soldi per i libri, la possibilità di mangiare la pizza, di uscire con gli amici. I genitori sono coloro che danno ai figli. Guai se non fosse così: se il genitore non desse sostentamento e nutrimento, il piccolo morirebbe. E' la funzione del genitore nei primi anni di vita: dare (nutrire, proteggere, difendere dai pericoli, far crescere, sostenere, iniziare alla vita, ecc). E' lì per quello.
Anche il figlio maggiore lo vede così; infatti gli dice: "E tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con gli amici" (15,29). Anche per lui il padre è colui che dà.
E i due fratelli? Osservate i due fratelli non si rivolgono mai la parola. Non si diranno mai niente. I due fratelli non s'incontreranno mai! E perché non s'incontreranno mai? E' semplice: perché non vogliono incontrarsi, perché c'è un conflitto che li divide. Sono in conflitto per il padre: vince il maggiore (il prescelto), perde il minore che se ne deve andare.
Capiamo allora perché il minore si rivolga in maniera così dura e perentoria al padre: "Dammi la parte del patrimonio che mi spetta" (15,12). Si rivolge così non a caso, non perché ha un caratteraccio, non perché è un depravato. Si rivolge così perché il padre ha scelto il maggiore (com'era normale e ovvio a quel tempo e in ogni tempo, per certi aspetti) e lui si sente rifiutato (ma lo è per davvero). Lui non è il preferito, il padre ha scelto l'altro e quanto fa male non essere scelti, non essere i primi!
Questo vuol dire che non c'è relazione fra i fratelli? No, no, la relazione c'è eccome. Infatti si dice che è il figlio minore che chiede di andarsene. E' una relazione di odio, di competizione, di conflitto. Non si dicono niente ma si odiano "a sangue" (ed esploderà più avanti quando il maggiore gli dirà: "Ma ora che questi tuo figlio - non dice neppure "mio fratello", non lo riconosce neanche; per lui è un estraneo, uno solo da odiare - che ha divorato i tuoi averi con le prostitute..." 15,30).
A quel tempo il figlio maggiore ereditava il patrimonio (i 2/3) alla morte del padre. Al minore spettava, invece (1/3). In genere, però, riceveva molto meno.Il figlio maggiore, come normale a quel tempo, è il preferito del padre, il prescelto, colui al quale passerà il suo patrimonio. Ecco perché vi erano quattro milioni di ebrei che vivevano fuori dalla Palestina (solo mezzo milione in Palestina). Ai minori non rimaneva altro che andarsene. Il patrimonio non era solamente una questione economica (il maggiore ha di più) ma una questione affettiva: io (maggiore) sono di più. Le persone, i fratelli, non si fanno mai la guerra per i soldi, ma per l'amore! Avere più soldi rispetto all'altro vuol dire simbolicamente essere amati di più!
Il maggiore si sente forte: è l'erede legittimo e il minore, geloso di questo legame speciale fra i due ma sconfitto nella competizione con il fratello, non può che andarsene. Quello che fa non è cattivo, è semplicemente normale.
I due fratelli non sono alla pari, non sono uguali. Mai i fratelli sono uguali. E' un romanticismo della nostra mente pensare che i fratelli siano uguali, sullo stesso piano. Non è così. Pensateci un attimo.
Il primogenito è il primo figlio, quello aspettato (quando è aspettato ovviamente!), quello desiderato, quello cercato e voluto. Ha tutto l'amore e la sollecitudine dei genitori. Li ha tutti per lui. Il secondo non sarà più il primo perché mancherà quella parte di novità e di investimento del primo. Il primo, poi, rispetto al secondo, è sempre più avanti. Tu che sei secondo hai uno che è più bravo a correre, a scrivere, a leggere, a fare le cose; ha più responsabilità da parte della mamma che gli da qualche piccolo incarico e lo ritiene più bravo di te (ed è vero che è più bravo di te: per forza!, è più grande di te!). A volte deve badare anche a te.
E' ovvio che lui - pensa il bambino - è il preferito; è ovvio che lui è più bravo di me (lo è per davvero ai suoi occhi!). Vedere uno che è sempre "più" di te fa certamente arrabbiare. D'altra parte il primo non può essere che infuriato con l'ultimo arrivato: è venuto a sottrargli una parte della torta (l'amore). Prima era tutta sua (l'amore della mamma e del papà) e adesso deve condividerla. Vi siete mai chiesti perché, ad es., i secondi vanno sempre a "rompere" ai più grandi finché leggono, fanno i compiti, guardano la tv? E la mamma deve sempre intervenire: "Ma lascialo studiare; ma perché fai così, non ti fa nulla di male!; cos'ha fatto a te?". E' il suo modo per manifestare quanto lo odi, non lo sopporti e gli stia antipatico.
Quando mio fratello, che ha sette anni meno di me, è arrivato in casa mia madre mi ha detto: "Ti piace il fratellino?". "Sì, sì", ho detto (per compiacere lei). Dopo trenta secondi però ho aggiunto: "Se non lo butti fuori tu dalla finestra, lo butto io".
Vi siete mai chiesti perché accadono gli incidenti tra fratelli? "Oh, scusa mamma, per sbaglio l'ho spinto e si è fatto male!". ("Per sbaglio?: no, no, lo volevo proprio e sono anche contento!").
Il secondo ha uno che è sempre più di lui, per cui deve sempre dimostrare qualcosa perché l'altro sa di più, è capace di più, è meglio in, ecc. D'altra parte nella mente dei genitori, nessuno è come il primo. Ma perché è così! Il primo è il primo. Il primo grande amore non si scorda mai. Tutte le prime volte hanno un'emozione che le altre (pur belle e intense) non hanno avuto. Pensate al primo amore, al primo appuntamento, al primo bacio, al primo giorno di scuola (magari è stato tremendo, ma lo si ricorda), alla "prima volta", ecc.
Quello che il vangelo riporta è nient'altro che questo. Il maggiore sa di essere il primo e il minore sa di essere il secondo.
Questo era all'inizio ma poi c'è stato un distacco, una lontananza.
Il minore si è dovuto staccare dal padre, cioè dall'immagine che lui aveva di suo padre (la sua immagine era: "il padre è colui che dà il patrimonio. Se è così, mio padre allora preferisce mio fratello a me") e per questo ha dovuto andarsene. Finché stava lì non poteva cambiare quest'immagine. Per questo ha dovuto fare un viaggio, che è chiaramente un viaggio dentro di sé (15,17: "Rientrò in se stesso").
Anche il padre ha dovuto fare il suo viaggio, e infatti al ritorno del figlio minore lo troviamo fuori di casa ad aspettarlo. Si è dovuto distaccare dall'immagine: "Mio figlio ce l'ha con me. Cosa gli ho fatto io? Con tutto quello che fai per i figli, questa è poi la ricompensa! Manco ti telefonano! Ti usano solo!". E' l'idea di un padre che ha delle rivendicazione verso suo figlio: io ti do qualcosa (soldi, nome, ti ho dato la vita) e tu mi devi qualcosa (telefonare, seguirmi, prenderti cura di me, farmi felice, non lasciarmi, ecc).
Il maggiore, invece, non ha fatto nessun viaggio. Suo padre è sempre quello che dà (dirà alla fine: "Non mi hai mai dato...", 15,29) e suo fratello è sempre quello inferiore e depravato; è il "porco" che è andato con le prostitute, cosa che sappiamo tra l'altro proprio e solo da lui perché prima non si era assolutamente detto (con il dubbio che sia una proiezione più che un dato di realtà).
Vedete perché giudica: gli fa rabbia che suo fratello, quello minore, quello meno di lui, sia accolto in casa con la stessa dignità sua, al suo pari. Per questo ha bisogno di distruggere la sua immagine, di infangarla, di screditarla. Gli fa rabbia aver perso la sua superiorità.
Il problema del maggiore è che è sempre rimasto in casa; non è mai uscito. Quanta gente sempre "in casa", con le sue solite quattro ideucce, i soliti pensieri, la solita gente, il solito modo di pensare, le stesse cose e tradizioni da sempre. Uscire è conoscere; uscire è mettersi in discussione; uscire è scoprire cose incredibili; uscire è rendersi conto che il mondo e la vita sono infinitamente più grandi della nostra piccola e sclerotizzata testa. Ma uscire fa paura: per questo è meglio rimanere in casa.
Se il minore è un uomo che ha trovato la vita perché è uscito, ha fatto esperienza, si è giocato in prima persona, il maggiore è un uomo morto, trincerato nei suoi vecchi schemi e pregiudizi. Il vangelo non dice come finirà, ma noi sappiamo come finirà il maggiore. E' un uomo morto e, se non cambierà, lo rimarrà per sempre.
Quando il minore ritorna sia il minore che il padre sono diversi. Il padre non è più colui che dà e il minore non è più colui che prende. Hanno fatto la loro strada.
Il padre prima aveva dato ma adesso esce fuori e va a ricevere (gli va incontro, gli si getta al collo e lo fa entrare in casa). Quel figlio non è più il figlio che prende ma il figlio che dà.
Cosa dà il figlio al padre? Gli dà la paternità: quell'uomo adesso sente che essere padre non è più questione di soldi (patrimonio) ma di amore, affetto, presenza (paternità). Guardate i verbi: vide ancora lontano, commosso, gli corse incontri, gli si gettò al collo e lo baciò (15,20): sono i verbi del cuore, dell'amore. Il padre riceve la paternità. Dal patrimonio (ti do le mie cose, quello che ho) alla paternità (l'amore). Il padre impara e riceve la paternità: essere padri non è dare cose, posizioni, status sociale; paternità è dare qualcosa di sé, è poter essere una casa che rimane ogni volta che si vorrà venire. E il far festa con il vitello grasso non è altro che una conseguenza dell'amore.
Il maggiore invece sarà ancora lì a discutere di capretti, vitelli grassi, soldi risparmiati e soldi scialacquati: non ha ancora capito, non è ancora passato, non ha fatto nessun viaggio, non ha cambiato padre (immagine).
Ma anche per il figlio minore quel padre non è più il padre dell'inizio. All'inizio la funzione di suo padre era prendere, ricevere. Il padre gli doveva delle cose. Ma dopo il viaggio, il padre non gli deve più niente, infatti dentro di sé pensa: "Gli dirò: ‘Trattami come uno dei tuoi garzoni" (15,19), e si sa che ai garzoni non si deve niente, non possono accampare pretese. Suo padre adesso è un uomo al pari suo (infatti lui pensa che abbia il diritto di trattarlo come un servo: "Ho sbagliato, mi prendo le mie responsabilità, è giusto che lui mi tratti così"). Per lui suo padre prima era colui che lo rifiutava ("Me ne vado perché non mi vuoi, perché preferisci mio fratello maggiore!"); ma adesso è colui che lo accoglie.
Per il maggiore, invece il padre è e sarà sempre lo stesso: per questo si sente rifiutato. Per lui il padre è cambiato ("ama mio fratello quanto come me") e si scontra con la sua immagine interna ("io non sono più il suo preferito"). Per questo lo rifiuta e lo attacca.
I rapporti cambiano; se non cambiano muoiono o finiscono (che è la stessa cosa).
Due persone si sposano. Lei lo fa per scappare da casa dove è ipersoffocata da suo madre e ipercontrollata da suo padre. Lui si sposa perché ha qualcuno a cui insegnare. Ciascuno ha una funzione per l'altro: va bene così ad entrambi, non è un a cosa brutta. Ma poi lei cresce e si stanca di essere diretta in tutto da lui; inizia a fare le sue scelte, senza chiedere permesso e quando si discute non pende più dalle sue labbra ma inizia a controbattere e ad essere autonoma nei suoi pensieri. Cambia la funzione del loro rapporto. L'equilibrio di prima andava bene per prima ma adesso non funziona più. Bisogna trovarne un altro. Se non lo si trova la relazione è finita (o vegeta). Non si può giustificarsi dicendo: "Tu non sei più quella che ho sposato". Certo che non è più quella: per fortuna!
Due persone si sposano. Lei vuole un figlio, anche perché gli anni passano. Lui vuole accasarsi. Così si fa il matrimonio. Ma poi arrivato il figlio, lei non sa più che farsene del marito (ha ottenuto ciò che voleva!) e lui si trova in casa ma senza "casa". La relazione cambia. O si trovano altri motivi, altre funzioni, altri scopi, magari più profondi per stare insieme oppure il rapporto è finito (anche se si rimane insieme). I motivi si possono trovare, ma bisogna fare un viaggio fuori dalle proprie sicurezze; bisogna lasciare un'immagine per trovarne un'altra.
Ci si mette insieme e poi ci si sposa. All'inizio del rapporto si è attratti fisicamente e la componente fisica ha un ruolo notevole. Per lui vuol dire: "Sono maschio "; per lei: "Sono desiderabile". Ciascuno ne ha un vantaggio. Ma poi la relazione deve cambiare. Che non vuol dire che questa componente sparisca. Vuol dire che se a questa non se ne aggiungono delle altre, il rapporto finisce. Perché si ha bisogno di comunicare in profondità, di aprirsi, di far entrare l'altro e di entrare nell'altro.
Il tuo migliore amico inizia a frequentare gruppi di spiritualità. Ti inizia a parlare di cose diverse dai soliti discorsi: sport, lavoro e politica. E' un cambio. Tu dici: "Non è più lui", che è un modo per scaricare il problema: "Tu sei sbagliato!". Il rapporto ti chiede di cambiare, di evolvere.
Quando tuo figlio è piccolo, tu comandi e decidi per lui. Poi cresce e non gli comandi più. Il rapporto è cambiato. I genitori dicono: "Quando crescono li perdi!; finché hanno bisogno del papà e della mamma stanno in casa, ma poi...". Se tu non sai "uscire" come quel padre, rimetterti in gioco, non solo non gli comandi più (perché dovresti comandargli visto che lo scopo è quello che si arrangi da solo, poi!) ma perdi anche la sua fiducia. Il rapporto non potrà più essere sul: "Io ti dico, e tu fai", ma sul: "Discutiamone insieme; io penso questo; tu pensi quell'altro; confrontiamoci".
In questo vangelo, come sempre nella vita, chi viaggia vive e chi rimane fermo muore. Padre e figlio minore si possono incontrare a livelli profondi solo perché entrambi sono usciti dalle loro posizioni e hanno viaggiato. Il maggiore è sempre rimasto lì, non è andato da nessuna parte: è morto!
All'inizio il loro discorso verte solo sul patrimonio (figlio) e sul dividere i beni (padre). Ma quando si rincontrano tutto questo non conta assolutamente più: l'unica cosa che fanno è di chiedere perdono (figlio) e di commuoversi, abbracciare e baciare (padre). La relazione, dopo una crisi così forte, è diventata profonda, intima, su di un livello diverso.
Le relazioni non finiscono perché manca l'amore. Le relazioni finiscono perché non vogliamo cambiare.
Conosciamo qualcuno, stiamo con qualcuno e gli attacchiamo un'etichetta: "Tu sei questo". E' un bisogno dell'uomo definire le cose. L'altro è "questo" ma anche molto di più. Così quando l'altro cambia o la relazione chiede di cambiare diciamo: "No, tu non sei questo; non ti riconosco più". E' proprio questo il punto(!): si tratta di vedere cose che prima non si vedevano. Le relazioni cambiano perché noi cambiamo.
Questo vale anche per noi con noi stessi. Se noi non abbiamo il coraggio di cambiare le nostre maschere (le immagini che noi abbiamo di noi) ci condanniamo a vivere una vita mortale.
Il padre è l'uomo per bene: non fa ingiustizia (per quel tempo), da a ciascuno anche quanto non gli spetta (solo dopo la morte si riceveva il patrimonio!), non protesta e non dice nulla. E' l'uomo perbene quello che non fa male a nessuno, onesto, non alza la voce, va sempre in chiesa ed è rispettato da tutti. Ma quando il figlio tornerà se ne infischierà dell'immagine dell'"uomo dabbene" e farà quello che nessun padre a quel tempo avrebbe fatto in quella società: corre, piange, abbraccia, bacia. Non gli interessa più sostenere l'immagine di bravo uomo: ha fatto un viaggio e ha capito che l'amore è più importante. Ha saputo "perdere" l'immagine di rispettato da tutti e di padre perfetto. Non è più un padre perfetto adesso; adesso è un padre che ama.
Ogni volta che io dico a mio figlio: "Ma sai cosa dice la gente?; che vergogna; mi hai fatto fare brutta figura", io preferisco (tradimento) ciò che si dice a mio figlio, e lo lascio solo. Sono il padre perfetto (che vuole dare quest'immagine) ma non il padre dell'amore.
Il minore è l'uomo: "Con i soldi si fa tutto".
La gente dice che i soldi non sono importanti; ma per i soldi la gente si fa le guerre, si tradiscono i fratelli, si denigra i colleghi, ci si accapiglia anche per tre metri quadrati di terra, si rompono legami forti.
Il minore crede di poter far tutto ma poi scopre che non è così. Se tu impronti la tua vita solo sui soldi non finirai che come dice il vangelo: tra i porci! Il minore deve perdere l'immagine di sé "io posso tutto" e accettare che lui, proprio lui si è sbagliato e ha fallito.
Quanta gente è ostinata: "E' così e non si discute; non ho sbagliato; voglio avere quella cosa". E' il bambino che si impunta e che vuole l'impossibile, vuole quella cosa anche se gli fa male. E' il bambino che non accetta il dolore del fallimento e diventa cocciuto.
Il maggiore è l'uomo: "Io sono in regola". Non beve, non fuma, non va a donne (così almeno si presenta) e non fa feste e baldorie con gli amici (mai un capretto). E' sempre in casa, sempre disponibile, dice sempre di sì e non si è mai rivoltato contro a suo padre. Un figlio, meglio di così!!!
In realtà non ha mai trasgredito per non perdere l'immagine di bravo e perfetto figlio. E quando si accorge che suo padre ama anche i non perfetti, allora il suo odio esplode. Ha bisogno di vedersi perfetto, cioè più di suo fratello e degli altri. Non può non vedersi così. Ma dentro cova odio e risentimento (come tutti i perfetti). E non riesce fare il passaggio dalla perfezione all'umanità; lui non fa nessun viaggio; lui non cambia. Per questo, come tutti i perfetti, è spietato.
Il padre "esce di casa", perde le sue sicurezze e la sua faccia (era disonorevole fare ciò che ha fatto).
Il minore "perde tutto" nella sua uscita. "Quando esci di casa", quando inizi a camminare ti accorgi che Dio (quello che tu chiamavi Dio) non è Dio; che tu non sei tu: pensavi di essere libero e di conoscerti ma dicevi di conoscerti solo perché dormivi. Ti accorgi che stai ancora dormendo o che sei ancora dentro al pancione della mamma: e ti ritenevi libero! Ti accorgi che le cose non stanno come pensavi, che tutto quello a cui credevi prima adesso viene messo in discussione, che non ci si può attaccare più a nulla, che non c'è più niente di certo.
Alternativa: il fratello maggiore che brontola e giudica tutti (sia il padre - "io ti servo, non ho mai trasgredito e tu non mi hai dato mai" - che il fratello - "tuo figlio... con le prostitute") perché ha paura di uscire.
Uscire, rischiare di perdersi e vivere; oppure rimanere per paura, giudicare gli altri e prendersela con il mondo? La gente che ha sempre da dire è perché ha paura di vivere e di uscire, e così, per giustificarsi, brontola.
Ognuno faccia la sua scelta. Ognuno è costretto a scegliere: uscire o rimanere. Ognuno sarà ciò che sceglierà.
Pensiero della Settimana
Per nascere (per vivere) bisogna uscire;
per morire basta non far nulla.

Fonte:http://www.qumran2.net/

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