Don Paolo Zamengo, "La vedova e il giudice"

La vedova e il giudice     Lc 18, 1-8
16 ottobre 2016 | 29a Domenica Tempo Ordinario - Anno C 
Ai tempi di Gesù non c’era niente di più esposto e di più fragile che una donna e per di più vedova. In
Palestina, terra assoggettata a Roma, la vedova è l’immagine della precarietà e della debolezza, facilmente vittima dell’aggressività e della prepotenza dei maschi. Questa donna, vedova, però sa tirare fuori le unghie per tutelarsi dal suo avversario e anche dallo stesso magistrato.

Si difende da due abusi: la prepotenza da una parte e la pigrizia dall’altra. La sua pare una battaglia persa in partenza.  Questa donna deve lottare contro la tracotanza di un avversario e contro l’indifferenza dell’uomo di legge.

Davanti alla vedova c’è un giudice spregiudicato. Passa per un duro ma è privo di etica professionale. È difensore del diritto ma fonda la legalità sulla propria persona. È un essere indecifrabile dal quale meglio è starsene lontani.  Non prende ordini dall’alto né ascolta chi gli chiede assistenza. Bada solo a se stesso, impermeabile ad ogni sentimento. Le grida di aiuto della vedova rimbalzano su di lui senza scalfirlo. Dovrebbe essere il paladino dell’imparzialità ma veste soltanto la toga dell’arroganza.

La vedova del vangelo di oggi è come un vaso di creta esposto al passaggio delle ruote di un carro. La sua fine è segnata. Se non fosse per la sua determinazione appassionata. Torna dal giudice una, dieci, venti volte. Non demorde di fronte ai suoi rifiuti e lo incalza fino alla noia. Se non capitolerà per convinzione lo farà per sfinimento.

La vedova in questione aveva intuito il punto debole di quel magistrato: non voleva essere infastidito. Così la sua ostinazione di donna apre una breccia e sconfigge il giudice. La debolezza ha prevalso sulla forza e ha avuto ragione sull’arroganza.

Gesù racconta questa parabola come esempio della preghiera fiduciosa e perseverante. La preghiera insistente è ossigeno per il credente. Non è un obbligo ma una necessità di vita. Pregare non è  dire parole. È lo sviluppo graduale e tenace di un atteggiamento interiore. Di fiducia e di consegna.

Spesso i tempi di Dio non coincidono con quelli dell’uomo e talvolta lo scarto tra la richiesta e la risposta è più ampio del previsto. Può anche succedere che l’assenza di una fede autentica rallenti o freni l’intervento di Dio. Succede anche che la stanchezza umana si trasformi in delusione e il canale della fede si interrompe. La fede spesso è fragile o passeggera. Ma non per quella donna.

Per non indebolirsi o morire, ma per fiorire e vivere, la fede ha bisogno di preghiera come una pianta ha bisogno del sole. Pregare è il respiro della fede. Se smetto di respirare smetto di vivere.


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