MONASTERO DI RUVIANO," IL FIGLIO DELL’UOMO ALLA SUA VENUTA TROVERA’ ANCORA LA FEDE SULLA TERRA?"

VENTINOVESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
IL FIGLIO DELL’UOMO ALLA SUA VENUTA TROVERA’ ANCORA LA FEDE SULLA TERRA?
Es 17, 8-13; Sal 120; 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8
La necessità della preghiera.
            Una necessità che è tale sempre. Una parola, come si comprende, molto “fuori moda”, una
parola che contraddice l’idea diffusa nel mondo (ma purtroppo anche in certi ambienti ecclesiali, pure se detto “tra i denti” e a volte solo con sorrisetti ironici!) che la preghiera sia evasione “in-utile” per i bisogni molteplici e concreti dell’uomo. La mentalità mondana, e ripeto penetrata anche all’interno della Chiesa, guarda alla preghiera come una sindrome da disadattati che vilmente fuggono le responsabilità; a volte in certi ambienti ecclesiali la preghiera è quella cosa che purtroppo “si deve fare” ma che di deve fare presto per non togliere tempo alle “cose importanti”, “fattive”, “concrete”, “utili” che invece meritano tutto il nostro tempo e le nostre fatiche. E’ la grande “eresia” di oggi che toglie alla Chiesa il suo vero volto, e toglie anche all’azione concreta della Chiesa il sapore di opera di Dio, il profumo di azione evangelica…toglie alle “opere” quel nerbo di forza evangelica e le fa diventare opere tra le opere e fa diventare la Chiesa stessa un’organizzazione benefica tra le altre.

            Gesù, invece, nel testo odierno, sottolineato anche dal passo del Libro dell’Esodo in cui la preghiera di Mosè è la vera azione liberatoria dalla violenza schiacciante di Amalek, dice con chiarezza che c’è un “sempre” per la preghiera. Il perseverare nella preghiera non è ripetizione meccanica e stucchevole (da “coroncina” tanto di moda in questi nostri strani tempi ecclesiali!); anche perché, se Dio è sempre Colui che ascolta le preghiere (bellissimo il “nome” di Dio che si dice frequentemente nell’officiatura sinagogale: “Adonai shomea tefillim” ,  “Signore ascoltante le preghiere”), è vero pure che ascolta come Lui vuole; e così è anche chiaro che perseverare non è l’ossessiva ripetizione delle stesse domande ma è la disponibilità a cambiare le domande. Perseverare nella preghiera è fidarsi sempre di Dio e quando ci esaudisce e quando pare che taccia; per questo Luca scrive non solo che si deve pregare sempre ma anche senza stancarsi e così sottintende che il credente potrebbe essere “deluso” nella preghiera; in
questo caso deve essere fedele e continuare a consegnarsi a Dio. Ci si deve ricordare che a volte Dio si mostra come uno che viene meno alle sue promesse (ricordiamo la vicenda di Abramo!).

            Certamente la parabola della vedova e del giudice iniquo va collocata all’interno del contesto in cui l’evangelista Luca la pone perché solo così ne comprenderemo la portata e la libereremo dalle facili interpretazioni banali ed utilitaristiche.

            Il contesto è la cosiddetta piccola apocalisse di Luca che è al capitolo 17 dopo la guarigione dei dieci lebbrosi ed il riconoscimento da parte dell’unico che ritorna che Gesù è il Tempio di Dio, luogo della presenza di Dio. Ai farisei che chiedono il “quando” della venuta del Regno Gesù risponde che il Regno è già presente (perché Lui è presente!) ma seguiranno giorni in cui il Figlio dell’uomo verrà sottratto al mondo, giorni in cui si desidererà uno solo dei suoi giorni. Quando tornerà ci sarà il discernimento nel mondo: si separeranno quelli del Regno da quelli che non hanno accolto il Regno. Il suo ritorno è imprevedibile e non bisogna dar credito ai falsi profeti. Una cosa però è certa: il Figlio dell’uomo verrà. E intanto? E qui c’è la parabola della vedova e del giudice iniquo.

            I due protagonisti di questa parabola sono funzionali al racconto ma anche ulteriori rispetto al racconto stesso; rimandano ad altre realtà. La vedova adombra la Chiesa che è privata dello Sposo che nella sua passione (pure annunciata nella piccola apocalisse da Luca; cfr 17,25) le è strappato; è povera perché non ha più identità: una sposa senza lo sposo; nulla può colmare il suo vuoto. Ha solo una ricchezza: il desiderio e l’invocazione; due cose preziosissime perché la rendono capace di accogliere Colui che desidera. E il giudice ingiusto? Certamente è funzionale al racconto ma adombra non una realtà ma una proiezione, forse potremmo dire una tentazione. Quel giudice è quello che ci appare essere Dio: sordo, insensibile, incapace di fare giustizia. Quella del giudice iniquo è una delle maschere perverse che noi mettiamo sul volto di Dio…il suo ritardo ci pare iniquità e a volte intendiamo perfino il suo esaudirci come frutto delle nostre suppliche sgradevoli più che frutto del suo amore. Se ci riflettiamo è davvero tremendo. La vedova, in verità, davvero lotta con Dio che vuole quella lotta a costo d’essere scambiato per un giudice ingiusto; la vuole perché solo in quella lotta, come Giacobbe (cfr Gen 32,23ss), possiamo scoprire chi è Lui e scoprire anche il nostro vero nome. La lotta, il desiderio incessantisono lo spazio che permette che la venuta sia desiderata, accolta, riconosciuta. Il ritardo di Dio, come scriverà anche Pietro (2Pt 3,8ss), è luogo della sua “macrothimìa”, della sua pazienza che guarda in grande l’uomo e le sue possibilità; Dio ritarda perché la vedova possa crescere nel desiderio di deporre gli abiti del lutto dinanzi al volto del Veniente.

            La parabola, a questo punto, si dilata nei suoi orizzonti; non si tratta solo del problema della preghiera e della sua efficacia ma introduce a un problema grande e spinoso: la giustizia di Dio che pare spesso messa in dubbio dalla storia. Nella preghiera insistente della vedova c’è il dolore dei buoni, degli onesti che hanno l’impressione, in tanti giorni della storia, di essere abbandonati nelle mani dei malvagi e dei violenti. Se Dio è giusto, si possono chiedere i buoni, perché l’ingiustizia trionfa nel mondo? Perché la Parola di Dio, che è verità, non sconfigge la menzogna e le sue forze? A queste domande Gesù risponde – con la sua parabola – che è necessario continuare a pregare con insistenza; l’avverbio greco che usa Luca “pántote” sottende, infatti, a due significati: “in ogni momento” e “in qualsiasi necessità”; l’intervento di Dio, aggiunge Gesù, non solo è certo ma anche pronto. Per Gesù il problema non è l’intervento di Dio perché questo intervento a fare giustizia nella storia è certo, il vero problema è la fede dell’uomo! E torniamo così ad un tema forte in tutta questa sezione di Luca.

            La parabola strana si chiude, dunque, con un’assicurazione ed un monito drammatico. L’assicurazione è la certezza della risposta di Dio dinanzi al desiderio dell’uomo che grida a Lui il suo bisogno di Lui; il monito è quella domanda che resta aperta (e come potrebbe essere chiusa?): Il Figlio dell’uomo quando verrà troverà ancora la fede sulla terra? Ecco il vero problema!

            L’attesa di Dio ed il tempo della lotta non hanno un esito automatico. Lui certo tornerà ma l’esito è affidato al consenso dei discepoli, alla loro fede. L’esito è affidato a ciò di cui i discepoli riempiranno il tempo dell’attesa. Se questo tempo è riempito dalla preghiera, e la preghiera vive solo nell’atmosfera della fede, tutta la vita della Chiesa si animerà di desiderio di Dio e del Suo Cristo e in questa luce essa verrà contagiata dall’amore crocifisso del Figlio di Dio. Nel grembo caldo della preghiera sarà possibile fidarsi di una venuta che tarda ma che certo brillerà all’orizzonte della storia perché la storia si versi nell’eterno.

Fonte:http://www.monasterodiruviano.it/

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