padre Raniero Cantalamessa,"Dio non è Dio dei morti,

XXXII Domenica del Tempo Ordinario
2 Maccabei 7, 1-2.9-14; 2 Tessalonicesi 2,15-3,5; Luca 20, 27-38
Si chiude oggi la settimana in cui abbiamo commemorato i nostri cari defunti e la parola di Dio ha da
dirci qualcosa di molto importante proprio a questo riguardo.
Un giorno si presentano a Gesù alcuni sadducei con l’intenzione di mettere in ridicolo la dottrina della risurrezione dei morti. (A differenza degli altri gruppi religiosi del tempo, i sadducei non credevano negli angeli e nella risurrezione dei morti). A questo scopo, gli raccontano una storia, non sappiamo se vera o inventata. Una donna ha sposato un uomo che muore senza lasciare figli. In ossequio alla Legge mosaica del levirato, gli subentra come marito il fratello, che ha, però, la stessa sorte, e così gli altri cinque, finché alla fine muore anche la donna. Ed eccoci alla domanda-trabocchetto: nella risurrezione, di quale dei sette fratelli sarà moglie quella donna?
Nella sua risposta Gesù riafferma anzitutto il fatto della risurrezione, correggendo, nello stesso tempo, la rappresentazione materialistica e caricaturale dei sadducei:
“I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio”.
Gesù ci dà qui una rappresentazione dell’aldilà cristiano ben diversa da quelle che hanno caratterizzato certe religioni. La beatitudine eterna non è semplicemente un potenziamento e prolungamento delle gioie terrene, con piaceri della carne e della tavola a sazietà. L’altra vita è davvero un’altra vita, una vita di qualità diversa. È, sì, il compimento di tutte le attese che l’uomo ha sulla terra (e infinitamente di più), ma su un piano diverso. È un tuffarsi, beati, nell’oceano senza rive e senza fondo dell’amore e della felicità di Dio.
Ciò non significa che i vincoli terreni (tra coniugi, tra genitori e figli, tra amici) saranno dimenticati e non esisteranno più. Esisteranno e con una intensità e purezza sconosciute quaggiù, ma sublimati su un piano spirituale. Il rapporto di coppia e ogni altra esperienza umana di comunione e di amore erano scalini per arrivare a quella sommità. Non ha più ragione di esistere il “simbolo”, là dove ormai c’è la “realtà”. La nave che prende il mare dopo il varo, non ha certo bisogno di portarsi dietro l’armatura che è servita a costruirla. San Paolo illustra tutto ciò con l’esempio della semente:
“Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere….Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale” (1 Corinzi 15, 35. 42-44).
Tutte le parole del Vangelo rispondono a domande e bisogni profondi dell’uomo, ma questa, sulla risurrezione e la vita eterna, forse più di tutte le altre. Nessuno, credo, neppure l’ateo, dinanzi alla perdita di una persona cara, può evitare di porsi la domanda: “È davvero tutto finito, o c’è qualcosa dopo la morte?”.
Nella parte finale del Vangelo, Gesù spiega il motivo perché ci deve essere vita dopo la morte.
“Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”.
Se Dio si definisce “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” ed è un Dio dei vivi, non dei morti, allora vuol dire che Abramo, Isacco e Giacobbe vivono da qualche parte, anche se, al momento in cui Dio parla a Mosè, essi sono morti da secoli. Se esiste Dio, esiste anche la vita nell’oltretomba. Una cosa non può stare senza l’altra. Sarebbe assurdo chiamare Dio “Dio dei viventi”, se alla fine si ritrovasse a regnare su un immenso cimitero di morti. Non capisco le persone (pare che ve ne siano) che dicono di credere in Dio, ma non in una vita ultraterrena.
Non bisogna, però, pensare che la vita oltre la morte cominci solo con la risurrezione finale. Quello sarà il momento in cui Dio ridarà vita anche ai nostri corpi mortali. Ma, secondo la fede cattolica comune, l’elemento spirituale che c’è in noi, il nostro “io” profondo che chiamiamo “anima”, già al momento della morte, va a ricongiungersi a Cristo in una vita glorificata e felice. Cosa ciò significhi in concreto, rimane un mistero per noi, finché siamo in questo mondo, ma la parola di Cristo ci assicura che è così. “Oggi, sarai con me in paradiso” (Luca 23, 43), disse Gesù al buon ladrone. “Oggi”, non “alla fine del mondo”! È questa fede che ci permette di intrattenere un dialogo e di sperimentare una certa comunione con i nostri cari defunti, soprattutto attraverso la preghiera.
Sulla fede nella vita dopo morte è passato, purtroppo, una specie di uragano che l’ha lasciata a terra, come certe pianticelle dopo una tempesta. Si ha quasi paura di parlarne. La vita eterna, è stato detto, non è che la proiezione dei bisogni inappagati dell’uomo, il recipiente immaginario in cui l’uomo raccoglie le “lacrime” versate in questa valle di pianto.
Quando si cerca di stringere e andare al nocciolo delle argomentazioni dei tre autori che hanno divulgato queste idee -Feuerbach, Marx e Freud, i cosiddetti “maestri del sospetto”-, si costata che tutto ciò che resta in piedi di esse non è una prova contro l’esistenza di Dio e dell’aldilà, ma è, appunto, solo un sospetto. Prima che su Dio, il sospetto, del resto, è portato sull’uomo. Freud dice: “Sarebbe davvero molto bello che ci fossero un Dio come creatore dell’universo e benigna Provvidenza, un ordine morale universale e una vita ultraterrena; tuttavia è almeno molto strano che tutto ciò sia esattamente come ognuno di noi desidera che sia” (L’avvenire di una illusione). Affermazione rivelatrice! Una cosa diventa sospetta per il fatto stesso che l’uomo la concepisce e la desidera. Sarebbe come un gettare il sospetto sull’amore e sul matrimonio, solo perché esso corrisponde a un desiderio universale e a un bisogno profondo del cuore umano. Il fatto che la vita ultraterrena corrisponde a ciò che ogni uomo desidera, è piuttosto una prova che essa esiste davvero, non del contrario.
È venuto forse il momento di tirare fuori la fiaccola da sotto il moggio e proclamare con forza la verità della “vita eterna”. Sulla caravella di Colombo in viaggio verso il nuovo mondo, quando ormai si era persa ogni speranza di giungere da alcuna parte e tirava aria di ammutinamento, un mattino, d’improvviso, si udì un grido della vedetta che cambiò tutto: “Terra, terra!”. Se non vogliamo sprofondare in una morta rassegnazione, dobbiamo anche noi ascoltare un grido; non “Terra, terra!”, ma: “Cielo, cielo!”. Questo era il grido che, a suo tempo, faceva risuonare per le vie di Roma san Filippo Neri, gettando in aria, per la gioia, il suo cappello. Io non riesco a immaginare come si possa vivere serenamente questa vita, senza una qualche fede, almeno implicita, in una vita futura. Sarà una deformazione professionale, ma non ci riesco proprio; mi sembra che ci sarebbe da disperarsi ogni momento, vedendo il dolore e l’ingiustizia che regnano in questo mondo.
Questo gioioso annuncio dell’aldilà e della vita eterna non ha nulla a che vedere con gli annunci minacciosi sulla fine del mondo, il tutto condito con l’immancabile richiamo al “terzo segreto di Fatima”. Non lasciatevi minimamente turbare da queste cose; sono tutto frutto di fantasie malate. Non lo dico io, lo dice lo stesso Cristo:
“Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: ‘Sono io’ e: ‘Il tempo è prossimo’; non seguiteli” (Luca 21, 8).
Purtroppo, di catastrofi e disgrazie ce ne sono sempre state e ce ne saranno ancora, ma nessuno è autorizzato ad strumentalizzarle arbitrariamente, facendone il segno di una supposta collera divina. Se le catastrofi naturali fossero segno di punizione divina, bisognerebbe concludere che la povera gente del Bangla Desh siano più grandi peccatori che gli abitanti di New York, Londra, Parigi o Roma. Dobbiamo, semmai, trarre occasione dagli avvenimenti luttuosi per riflettere sulla precarietà della vita umana e non scommettere tutto sui nostri brevi giorni di quaggiù. Gesù ha smentito in anticipo queste predizioni dei falsi profeti dicendo che “quanto a quel giorno, nessuno lo conosce, neppure gli angeli del cielo”. Parliamo dunque di vita eterna, più che di fine del mondo.
Uno dei più famosi canti negro spirituals, intitolato “Dondola piano, dolce carro” (Swing low, sweet chariot), parla del momento in cui Dio verrà a prenderci sul suo carro, per portarci nella sua casa. A un certo punto, il testo dice: “Se arrivate lassù la prima di me, dite a tutti i miei amici che presto arrivo anch’io”. (If you get there before I do, Tell all my friends I’m coming too). Io faccio mie le parole di questo canto e dico a voi: “Se arrivate lassù prima di me, dite a miei amici che presto verrò anch’io”. Se, come è probabile, arriverò prima io, vi prometto che dirò la stessa cosa ai vostri cari che vi aspettano lassù.

Fonte:http://www.cantalamessa.org/

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