dom Luigi Gioia "L'amore più forte della morte"

L'amore più forte della morte
dom Luigi Gioia  
V Domenica di Quaresima (Anno A) (02/04/2017)
Vangelo: Ez 37,12-14; Sal 130; Rm 8,8-11; Gv 11,1-45 
Nel mezzo del Vangelo di oggi risuona una frase terribile, che forse più di ogni altra esprime l'essenza
di ogni incredulità, di ogni nostra chiusura del cuore nei confronti del Signore. Irrompe in un momento di grande dolore per Gesù. Il suo amico Lazzaro è morto. Gesù è nel dolore, piange, ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva far sì che costui non morisse?». Sembra di sentire in queste parole l'eco di quelle di Satana nel deserto: Se sei il figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane. O ancora quella degli scherni di coloro che assistettero all'agonia di Gesù sulla croce: Ha salvato altri, salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio.
Anche di fronte a Gesù che viene incontro al nostro dolore, che non lo guarda dal di fuori, ma lo condivide, che si commuove, che è turbato e piange con noi, anche in presenza della rivelazione del vero volto di Dio come di un Dio che geme con noi, non crediamo che faccia sul serio, dubitiamo del suo amore per noi, abbiamo l'ardire di muovergli dei rimproveri. Non vediamo quello che Dio fa con noi in Gesù - vediamo solo quello che non fa o che crediamo non faccia per noi.
Questa frase mostra fino a che punto è compromessa la nostra concezione di Dio e dell'amore. È a basso prezzo, crede cioè che si possa aiutare senza scomodarsi, si confonde con l'assistenzialismo, ma non sa diventare autentica "com-passione", "patire insieme", "patire con amore". Qui capiamo il nostro bisogno di conversione, scopriamo fino a che punto siamo prigionieri dei sepolcri della nostra incredulità, della nostra durezza di cuore, della nostra incapacità di riconoscere il Signore. Dio viene ad aprire i sepolcri della nostra durezza di cuore. Ci viene incontro non imponendosi a noi con delle prove di forza, non seducendoci con gesti strabilianti di magia o miracoli che lo metterebbero al di sopra di noi. Viene a noi come Dio in Gesù forte solo della sua totale condivisione della nostra esperienza della morte.
Gesù ha voluto sperimentare tutta la realtà della morte fino al punto da accettare di soffrire per la morte di un amico, di condividere le sofferenze, le lacrime e il tormentato cammino verso la speranza di Marta e di Maria. Ha voluto essere esposto al cattivo odore della morte, al disgregamento, all'ineluttabile disfacimento che essa comporta: Signore, non possiamo rotolare via la pietra del sepolcro, perché già la morte ha fatto il suo lavoro. Gesù, coraggiosamente, si espone alla morte in tutte le sue dimensioni, va incontro a tutto il suo orrore e alla fine l'abbraccia lui stesso, muore anche lui, è anche lui rinchiuso in un sepolcro.
Si realizza in questo modo la profezia della prima lettura: Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri». Mai però il profeta Ezechiele si sarebbe aspettato che il Signore non sarebbe venuto ad aprire i sepolcri dal di fuori, ma dal di dentro. Non sarebbe venuto ad aprirli con una prova di forza, ma con un gesto di condivisione e di compassione. Questo dobbiamo ricordare nel momento del dolore, del lutto, della prova, quando diciamo: "Signore, dove sei?". Il Signore sta piangendo con me, è nel dolore con me, muore con chi amo e soffre con me che resto nel lutto da solo. Attraverso questa sua compassione, il Signore semina in me i germi della fede e della speranza che sono, appunto, la resurrezione e la vita.
Infatti, la fede e la speranza sono già resurrezione e vita.
Il sepolcro, in realtà, si apre nell'istante nel quale Gesù conduce Marta a confessare: "Sì, o Signore, io credo. Io credo che tu sei il Cristo. Io credo che tu sei il figlio di Dio, colui che viene nel mondo". Cosa è infatti la resurrezione? Cosa è la vita? Cosa è l'apertura dei sepolcri? Non sono una cosa, ma una persona: Io -dice Gesù- sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà.
Ecco la nostra resurrezione. Ecco l'istante nel quale i sepolcri si spalancano, nel quale la vita, lo Spirito discende nei nostri cuori per abitarvi. È l'istante nel quale diciamo con il cuore e con la vita: "Credo in te, Signore". Questo atto di fede si erge contro ogni evidenza contraria, non vacilla anche di fronte all'ineluttabilità e alla brutalità della morte, anche nella prova, anche nel dolore, anche nella confusione. Questo "Credo in te, Signore" vuol dire che lo riconosco con me nel mio dolore; riconosco che mi ama non perché mi risparmia il dolore e la morte, ma perché viene a portarli con me; lo riconosco, credo in lui perché viene a trasformare questo dolore, questa morte in via di ritorno al Padre, viene a trasformarli in un amore che non muore, in un amore che è più forte della morte.
Ecco dunque la nostra resurrezione: "Credo in te, o Signore".

Fonte:http://www.qumran2.net/

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