dom Luigi Gioia, "Con dolcezza e rispetto"

Con dolcezza e rispetto
dom Luigi Gioia  
VI Domenica di Pasqua (Anno A) (21/05/2017)
Vangelo: At 8:5-8.14-17; Sal 66; 1 Pt 3,15-18; Gv 14,15-21
Due volte nel vangelo di oggi Gesù si riferisce ai suoi comandamenti: Se mi amate, osserverete i miei
comandamenti, e Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama.
Per l'evangelista Giovanni la parola ‘comandamenti' si riconduce ad un atteggiamento fondamentale che è quello dell'amore. Se cerchiamo il vero senso della parola ‘comandamento' o ‘comandamenti' la troviamo in queste due frasi: Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri e più avanti Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. È certamente legittimo chiederci perché Gesù parli dell'amore come di un ‘comandamento'. L'amore, come la fede non si comandano. Imporre di amare è un controsenso perché l'amore per definizione è spontaneo e libero.
In realtà il termine ‘comandamento' richiama il decalogo, cioè l'alleanza, la relazione del Signore con il suo popolo. Nell'Antico Testamento i dieci comandamenti erano una serie di regole da osservare ancora valide oggi, ma troppo esteriori a noi per poterci condurre ad aderire ad esse non per dovere, ma per amore. Per questo c'era bisogno di un comandamento nuovo - come dice Gesù: Vi do un comandamento nuovo. Nuovo non perché si aggiunge agli altri, ma perché è diverso dagli altri, porta con sé una novità radicale, non è scritto - come dice il profeta Ezechiele - sulle tavole di pietra, ma nel cuore. Prima di essere un comandamento è un dono. Anzi, può essere un comando perché è prima di tutto portatore di un dono.
Per questo Gesù ripete così spesso Rimanete nel mio amore, cioè "Non perdete il contatto con il dono che vi faccio di me stesso, con la vita, la forza, la possibilità di rinnovarvi ogni giorno che io vi elargisco". Prima di essere un'ingiunzione ad amare, il ‘comandamento' dell'amore è un invito pressante a rimanere nell'amore di Gesù, a farci amare da lui e scoprire sempre di più - come dice Paolo - l'altezza, la profondità, l'ampiezza di questo suo amore per noi.
La qualità della nostra vita di fede riposa su questo fondamento. La fede continuerà ad eluderci, a dimorare esteriore, ad essere incapace di cambiare veramente la nostra vita, fino a che non avremo davvero scoperto, sperimentato l'amore di Dio per noi. A questo amore dobbiamo costantemente ritornare per rigenerare la nostra vita di fede, per trovare le ragioni autentiche di sperare.
Ci invita a farlo la seconda lettura, tratta dalla prima lettera di Pietro, quando dice: Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. C'è una prontezza che deve caratterizzare il cristiano: deve essere sempre preparato a rendere ragione della speranza che è in lui. Quanto alla molla di una tale prontezza, ecco come la identifica Pietro: Adorando il Signore, Cristo, nei vostri cuori. Adorare il Signore nei nostri cuori esprime la stessa verità che in Giovanni è formulata con le parole: Rimanete nel mio amore. Adoriamo il Signore nei nostri cuori se rimaniamo nel suo amore, se ci rinnoviamo costantemente nell'esperienza di questo amore. Solo esso ci darà la speranza sulla quale riposa la nostra libertà.
Uno degli aspetti di questa libertà sottolineato da Pietro è la rinuncia alla tentazione di credere che la fede possa essere imposta: tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto. Non saremo mai tentati di imporre la fede agli altri, sotto qualsiasi forma, se continueremo a fare memoria di quanto non sia stato il timore, ma l'esperienza dell'amore di Cristo ad aver cambiato la nostra vita - questo amore di Cristo che abbiamo toccato con mano nella dolcezza e nel rispetto di coloro che ce lo hanno testimoniato, insegnato e trasmesso.
La più toccante illustrazione di questo atteggiamento che abbia mai incontrato nella mia vita è stato in Cina, visitando delle suore che esercitano il loro ministero in un contesto che non permette loro di testimoniare apertamente della loro fede: non possono evangelizzare, fare catechesi, portare l'abito religioso, nemmeno pregare prima dei pasti. A prima vista, sembra che sia stata compromessa ogni possibilità per loro di testimoniare delle ragioni della loro speranza. Eppure una di queste suore mi spiegò il senso del loro ministero in questo contesto molto difficile, semplicemente con queste parole: "Siamo qui per amare e basta". Questo lo fanno servendo persone affette dalla lebbra con una tale gratuità e generosità che anche le autorità civili hanno cominciato ad apprezzare queste suore, pur restando ideologicamente ostili al cristianesimo. Questo è il potere dell'amore e della speranza che sono in noi. Dolcezza e rispetto sono il volto che assumono un vero amore per Cristo ed una vera speranza in lui quando entriamo in contatto con persone che non credono.
Siamo dunque invitati a ritornare a questa esperienza dell'amore di Cristo per noi. Solo essa rinnoverà le nostre ragioni di sperare, ci arrecherà la consolazione che rasserena le nostre vite. Solo grazie ad essa assumeremo il tono, il modo giusto di testimoniare della nostra fede, con dolcezza e con rispetto, attraverso l'amore che dispenseremo intorno a noi.
Fonte:http://www.qumran2.net

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