Abbazia Santa Maria di Pulsano, Lectio Domenica “del giubilo messianico”
XIV Domenica del Tempo Ordinario, Anno A
Mt 11,25-30; Zc 9,9-10; Sal 144; Rm 8,9.11-13
L’Evangelo è un testo molto denso per la tematica sapienziale. Ma soprattutto perché è uno dei rari
squarci che permettono di contemplare, con sorpresa e anche senza possibilità di indiscreto scrutare, i sentimenti personali del Signore in rapporto al Padre suo. Dove appare insieme l'eternità che si fa temporalità, e questa rinvia all'eternità, ma investe la storia degli uomini. Gesù ci fa comprendere che lo sguardo del cuore, cosi acuto nei piccoli, è quello che meglio ci permette di scoprire i segreti del suo cuore, per la via dell'infinitamente piccolo. Infatti la somiglianza delle persone divine non è impressa in primo luogo nella nostra intelligenza e nella nostra ragione, ma nel nostro cuore.
Antifona d’Ingresso Sal 47,10-11
Ricordiamo, o Dio, la tua misericordia
in mezzo al tuo tempio.
Come il tuo nome, o Dio, così la tua lode
si estende ai confini della terra;
di giustizia è piena la tua destra.
L’antifona d’ingresso è dal Sal 47,10-11, CS. Sion, la Città del Grande Re, la Sposa eletta del Signore, esprime il suo immenso giubilo festoso, poiché dal santuario divino ricevette l’abbondanza della divina Misericordia (39,12), sotto la forma delle delizie divine del convito. E di questo fa anche contemplazione (v. 10). Come è immenso il Nome di Lui (112,3; Mal 1,11), così sono estese le sue lodi ai confini della terra (v. 11ab). E la lode investe anche la generosità dei Signore, la cui Destra è sempre ricolma di quelle delizie per i suoi fedeli radunati alla sua Presenza (v. 11c).
Canto all’Evangelo Cf Mt 11,25
Alleluia, alleluia.
Ti rendo lode, Padre,
Signore del cielo e della terra,
perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno.
Alleluia.
L’alleluia all’Evangelo è Mt 11,25, adattato. È la benedizione del Figlio al Padre per aver rivelato i Misteri del Regno solo ai piccoli. Il testo ovviamente va riletto nel contesto della pericope evangelica.
La predicazione di Gesù ha conosciuto l’insuccesso nelle città della Galilea. Nonostante i miracoli compiuti in esse, Gesù non è stato accolto: i sapienti e gli intelligenti si sono chiusi all’Evangelo. Forse Gesù si è allontanato dalle folle per riprendere in mano il gruppetto dei discepoli scoraggiati. In ogni caso, è nella preghiera che scopre ancora una volta il disegno del Padre, si sente invadere dalla gioia di fronte alla sua bontà e ripete, in un vibrante Magnificat, la beatitudine dei poveri. Attingendo ai tesori delle Scritture, col tono di un profeta ispirato Gesù canta un inno di lode al Padre suo. Con lo sguardo rinnovato dalla preghiera, contempla il paradosso di una salvezza nascosta agli scribi e ai farisei, ma rivelata agli umili che lo seguono. Se Gesù ha un ruolo tutto particolare in questa rivelazione, è perché vive, nel profondo del proprio essere da cui sgorga la lode, un rapporto privilegiato con Dio: è il Figlio eterno del Padre. Soltanto lui può sapere fino a che punto Dio è Padre e soltanto lui può far entrare i suoi discepoli in questo mistero d’amore. Il riposo che Gesù concede loro dopo l’invio in missione è un segno della pace ancora più profonda che troveranno accogliendo il suo insegnamento: egli è il messia «mite e umile di cuore» che porta unicamente la parola di Dio al di là di ogni interpretazione umana e che impone soltanto ciò di cui egli stesso si è fatto carico per tutti gli uomini. Definita dal concilio di Nicea (325), l’identità di natura del Figlio e del Padre trova nella preghiera di Gesù un’espressione in qualche modo tangibile, a cui ogni cristiano è chiamato a partecipare. Pregare con Gesù, significa lasciar cantare in noi il suo Spirito, aprirsi al nome divino che ci rende figli pronti a compiere la volontà del Padre, esultare col Figlio per le meraviglie che continuano a realizzarsi per azione della sua grazia.
I lettura: Zacc 9,9-10
In parte il testo è spiegato nell'Evangelo della processione delle Palme, a cui si rinvia. Esso concorda bene con l'Evangelo di oggi. I vv. 9-17 sono un oracolo sui tempi messianici e sulla venuta del Re, dietro il quale si profila la Presenza divina (vv. 14-16). L'attesa nei tempi calamitosi traversati da Israele era una grande «guerra di liberazione» violenta e vittoriosa, non senza l'istinto della vendetta contro i nemici persecutori da secoli. Sul piano solo umano, questo si può comprendere. Tuttavia nel Disegno divino è escluso. Poiché dal male della guerra non nasce il bene della pace e nel cuore dell'uomo resta sempre l'odio, seme di altre guerre. L'intervento divino avviene con altri mezzi: debbono sorgere tempi nuovi.
E, anzitutto, deve avvenire come un incontro nuziale tra lo Sposo divino e la Sposa umana, che lo attende da quando esiste. La Sposa è chiamata «Figlia di Sion e Figlia di Gerusalemme», principessa maestosa e preziosa, anche se è assalita dai nemici da ogni parte. Della principessa, lo Sposo non può essere che Re. La Sposa è invitata perciò a esultare e a giubilare (v. 9a; Sof 3,14) quando le giunge l'annuncio solenne portato dagli araldi: «Ecco il Re tuo!» (Ger 23,5; Mich 5,2). Egli viene, come tutti i grandi re, a visitare la sua Città, per recarle i doni nuziali. Questi consistono nel fatto che il Re, autentico e veridico, svolge tutte le sue funzioni vere: giustizia e salvezza, come il buon re deve operare per il suo popolo. Ma al contrario della boria inguaribile dei monarchi della terra, il Re messianico ha una qualità che lo rende unico: è povero, è umile, è solo, non viene con eserciti e provviste, né conta sul saccheggio. E lo dimostra con la sua tenuta, in quanto viene incontro alla Sposa cavalcando un asino docile e lento e mansueto, non scalpitanti e soffianti cavalli da guerra. Raggiunge a suo tempo la Sposa, e a suo tempo comincia la sua missione regale, che apre la via alle nozze con lei (v. 9b). Anzitutto, proprio dalla Sposa, da questo popolo che si illude ancora di guerreggiare contro nemici soverchianti, farà sparire per sempre i carri e i cavalli e in questo segnerà anche l'unità di questo popolo diviso tra due gruppi alienati, Efraim (le tribù settentrionali) e Gerusalemme (Os 2,18; Mich 5,10). Si realizzerà l'antico oracolo, che è anche l'antico sospiro degli uomini, l'arco da guerra sarà frantumato per sempre (Sal 36,15; 45,10; 75,4; 1 Sam 2,4).
Il Re parlerà, poiché tutto viene dalla potenza della sua Parola. Darà l'annuncio della pace alle nazioni della terra (Mich 5,5), e la pace regnerà nel suo nuovo regno. I confini del quale indicano il suo dominio (Es 23,31; Sal 71,8), e comprenderanno il territorio da mare a mare, e dal Fiume ai confini ultimi (Sal 88,26; 79,9-12). Per sé, geograficamente, si tratta solo dal Mediterraneo al Mar Morto, e dall'Eufrate all'Egitto. Ma adesso l'estensione è idealizzata, fino ad abbracciare l'intera terra (v. 10).
I versetti successivi parlano della guerra che combatterà il Signore stesso, fino all'instaurazione dei tempi messianici.
Il Salmo responsoriale: 144,l-2.8-9,10-11.13cd-14 I col versetto responsorio, (v. 1 adattato): «Benedirò il tuo nome per sempre, Signore» canta la benedizione eterna che i fedeli tributano a Dio, il Re dell'alleanza.
Come già spiegato alla Domenica IV di questo Tempo, il Sal 144 apre l’«Hallel mattutino», ossia il gruppo di Inni di lode 144-150, che prendono nome dall'Alleluia di apertura e di chiusura, Hallelù-Iah, lodate il Signore!. Essi erano e sono usati dagli Ebrei per l'ufficiatura della lode mattutina. La caratteristica del Sal 144, uno splendido canto, è di contenere come in sintesi i contenuti tematici che poi svilupperanno i Sal 145-149 che lo seguono. E tali contenuti sono accentrati nella lode al Signore, in direzione tripolare: la sua Presenza, i suoi titoli e le sue opere grandi.
L'Orante esordisce manifestando la sua volontà di esaltare il Signore (98,5.9), il Re della sua alleanza (97,6) e di benedire il Nome suo in eterno. Si tratta di verbi del «parlare», che si susseguono per tutto il Salmo, che così è un inno dossologico (v. 1). Tale volontà è riaffermata come fatto quotidiano: benedire il Signore e lodarne il Nome (145,2) e questo ancora in eterno. Si noti l'inversione dei verbi, dal Signore al Nome divino (v. 2). Tra i titoli lodati stanno quelli che il Signore stesso rivelò a Mosè nella Teofania del Sinai (Es 34,5-7), di cui si è trattato nella Domenica della SS. Trinità a cui si rinvia (v. 8).
Prosegue la lode, contemplando il Signore e Re soave verso tutti, senza preferenza di persone, anzi neppure di sfere dell'esistenza, poiché è tale anche verso gli animali e l'universo creato (99,5). Tanto che tra tutte le sue opere magnifiche, si effonde come primaria la sua eccezionale Misericordia (v. 9; Sir 18,l2; Sap 6,8). E così il Salmista può rivolgere il duplice iussivo innico (imperativo della terza persona), a un immenso coro formato dalle stesse opere del Signore, che si fanno inno di lode gioioso (Sal 18,2; 102, 22; 148,1-10; Dan 3,57-81), e dai "santi" del Signore, i suoi fedeli raccolti in assemblea sacra nel santuario per celebrarlo degnamente (v. 10; 139,9.16; 133,1-3).
Tutti questi debbono parlare, ossia proclamare la gloria del Regno divino, Regno di pace e di salvezza, e seguitare a parlare e a narrare e ad annunciare la Potenza del Signore che tutto crea, tutto regge e a tutto provvede (v. 11).
Il Salmista interviene da parte sua a lodare il Signore, l'unico Fedele quando ha parlato la sua Parola di promessa (v. 17) e l'unico Santo quando opera in modo irreprensibile i contenuti dell'alleanza fedele; e questo avviene sempre e anche al presente (v. 13cd). Ma in specie il Signore è tenero verso quanti sono caduti sotto il peso della tribolazione (36,17.24) e si fa presente per risollevarli. Inoltre, verso quanti restano oppressi dalle catastrofi della vita, e anche questi viene a rialzare. E dona a tutti questi una sede regale tra i principi del popolo (112,7-8; 106,40-41). Non li abbandona mai alla sventura (v. 14; 145,8).
Evangelo
La pericope odierna per le risonanze che si ritrovano nell’Evangelo di Giovanni è detto anche «comma giovanneo»; il linguaggio, del tutto inusuale in Matteo e nei sinottici in genere, mostra strette affinità con il quarto Evangelo, da cui la denominazione del brano di «meteorite» giovannea.
Questo brano può essere considerato a buon diritto come un ponte fra la tradizione sinottica e quella giovannea. Comunque ad un esame letterario più accurato si rilevano facilmente tracce della letteratura sapienziale (cfr. in modo particolare Sir 51), come anche di quella apocalittica (cfr Dn 2) e profetica in genere. Secondo alcuni esegeti questo brano proviene dalla fonte Q, come testimonia il passo parallelo di Luca che qualifica la preghiera di Gesù come sussulto di gioia ispirato dallo Spirito Santo.
La corrispondenza verbale tra i due evangeli è quasi perfetta, eccetto l’omissione di Matteo di una frase nel v. 25 e una variazione meramente grammaticale nel v. 27. La prima parte (Mt 11,25-27) ha un suo corrispondente in Luca 10,21-22, per cui possiamo supporre che entrambi gli evangelisti l’abbiano attinta da Q. In entrambi gli Evangeli è posta subito dopo le minacce di Gesù contro le città impenitenti (Mt 11,20-24; Lc 10,12-15) e perciò possiamo supporre che i due testi fossero già uniti in Q.
Al terzo Evangelo si deve anche la collocazione del canto nel contesto del ritorno dei discepoli dalla missione (Lc 10,17-20) e questo ha tutte le probabilità di essere originario.
Matteo lo inserisce invece in una sezione che evidenzia l’incomprensione e il rifiuto opposti a Gesù, quasi a controbilanciare l’incredulità delle città che furono testimoni dei prodigi di Cristo. La seconda parte (Mt 11,28-30) non ha nessun parallelo in Luca (né in Marco).
Terminato il discorso missionario del cap. 10, viene raccontata l’ambasciata del Battista che offre a Gesù l’occasione di mostrare nelle opere da lui compiute la prova della sua messianicità (11,2-6); tuttavia sia le sue opere sia la missione del Battista sono da molti contemporanei fraintese e rifiutate: «questa generazione» è simile a bambini capricciosi ai quali non va bene niente, né Giovanni né Gesù (11,7-19). Le città che hanno visto i suoi grandi prodigi sono dunque aspramente rimproverate da Gesù, perché non si sono convertite, non hanno cioè riconosciuto in lui la presenza del Messia (11,20-24).
Nel bel mezzo di una sezione (Matteo 11-13) dedicata in gran parte al rifiuto di Gesù e del suo messaggio, Matteo presenta dunque un gruppo di detti che fanno risaltare la rivelazione portata da Gesù e il genere di persone che l’accolgono. La rivelazione riguarda Gesù e il Padre suo, e quelli che l’accolgono sono i «bambini piccoli» (nepioi) anziché i professionalmente saggi.
Tutti e tre i detti (Mt 11,25-26.27.28-30) si possono classificare tra i «detti di rivelazione», ma si presentano in forme alquanto diverse:
1. il primo detto (11,25-26) è una confessione pubblica di lode e di ringraziamento a Dio per aver rivelato «queste cose» ai «piccoli».
2. Il secondo detto è una dichiarazione di Gesù sul suo speciale rapporto con il Padre e sulla sua disponibilità, come Figlio, di condividere questo rapporto con altri.
3. Il terzo detto (11,28-30) è un invito a coloro che si trovano fuori della cerchia dei discepoli di Gesù ad accogliere il suo insegnamento sapienziale.
In sostanza la preghiera esprime il sì gioioso di Gesù al disegno del Padre, confessato come Signore dell’universo.
Gesù sta facendo un’esperienza decisiva; la sua parola di annuncio del regno viene rifiutata dai capi spirituali del popolo, ma accolta dalla gente semplice e ignorante. Egli non può non domandarsi il perché di tutto questo (cf. ascolto ed entusiasmo della Parola nelle assemblee e rifiuto degli addetti ai lavori!).
Un testo dell’A.T. ha già anticipato questa riflessione; nel libro di Daniele si legge il ringraziamento del profeta a Dio, perché a lui e non ai sapienti di Babilonia ha rivelato il significato dei sogni del re Nabucodònosor (2,22). A Gesù non sfugge la profonda analogia e le sue parole di lode sono prese dalla bocca dei tre fanciulli nella fornace (Dn 3,52) quando la loro umiltà è chiaramente contrapposta ai saggi babilonesi. Egli giudica con questa parole certi dottori della legge che guidavano gli ignoranti senza pietà (cfr Is 29,13-14) affermando che per entrare nelle cose di Dio non è necessaria la sapienza, anzi spesso è di ostacolo (cfr 1 Cor 1,19-26).
Come struttura il testo può essere distinto in 3 paragrafi connessi, che riguardano 3 aspetti diversi ma convergenti:
a) vv. 25-26;
b) v. 27;
c) vv. 28-30.
Il brano liturgico, pur essendo composto da tre elementi letterariamente diversi fra di loro, ha dunque una chiara unità di pensiero. Nella prima parte Gesù si rivolge al Padre con il tono confidente della preghiera di lode; nell’ultima si rivolge invece ai discepoli con un invito e una promessa; al centro si pone una affermazione solenne, senza indicazione dei destinatari, ma in¬dispensabile per compiere il passaggio dalle parole rivolte al Padre a quelle dette ai discepoli.
Esaminiamo il brano
vv. 25-26 «In quel tempo»: Il tono del discorso è stato fin qui molto duro, eppure cambia improvvisamente al v. 25 dove inizia la nostra pericope e le parole di Gesù lasciano trasparire gioia ed intima commozione. Il cambiamento è determinato proprio dal fatto che l’attenzione passa da coloro che rifiutano il Cristo a coloro che lo accolgono. L’evangelista per sottolineare questa circostanza introduce le nuove parole di Gesù con la formula «in quel tempo»: in un clima cioè di ostilità e di rifiuto la presenza dei discepoli che credono in lui provoca in Gesù questa intima gioia che sfocia nella preghiera di ringraziamento al Padre. L’inizio della pericope liturgica è annotato come una temporalità solenne: «En ekeínōi tō̂i kairō̂i», non quella inventata spesso nei lezionari ma è: il «kairós», il tempo dato da Dio per le scelte importanti, il tempo della salvezza che si distingue dal cronos e dall’aion proprio per la qualità superiore. È il tempo di Dio per l’uomo, è la vita donataci per accogliere la sua salvezza. La stessa espressione è ripetuta in Mt 12,1 e 14,1. Qui lega Mt 11,25-30 con ciò che precede in Mt 11,1-24. Al contrario del materiale precedente che ha per tema il rifiuto di Gesù, questa pericope vuole enfatizzare la positiva dignità di Gesù. La cornice narrativa sia in Mt 11,25 che in Lc 10,21 («In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse») può essere attribuita agli evangelisti (notare con quanta leggerezza il nostro testo sia stato reso monco solo per ottenere una traduzione più fluida. Gli evangelisti erano certamente ispirati (i semplici), ma i “sapienti” traduttori moderni...illusi!).
«Ti benedico»: in gr il verbo exomologéō (ti ringrazio, mi compiaccio) traduce spesso nell’A. T. l’ebraico ‘ódeh, ed esprime una nota volontaria: io voglio confessare, nel senso di celebrare, lodare, magnificare. La benedizione indirizzata a Dio è nel linguaggio biblico esaltare, celebrare la divina sapienza e onnipotenza spiegata nelle opere mirabili della creazione o nella storia della salvezza, (cfr. Sal 111,1; 138,1; ecc.).
«Ti benedico» è il verbo essenziale di questa preghiera. Il verbo greco “exomologéō” usato è tipico dei salmi di lode, tradotto in latino con confiteor, cosicché possiamo parlare secondo l’accezione agostiniana di «confessione»; il verbo greco significa infatti «proclamare, riconoscere pubblicamente», sempre con una sfumatura di benevolenza, gratitudine e lode. Gesù pertanto manifesta la propria gioia nel vedere attuarsi il piano divino, proclama pubblicamente e con riconoscenza l’agire mirabile del Padre. E tale agire consiste nell’aver nascosto «queste cose» ai sapienti e agli intelligenti e nell’averle rivelate ai piccoli. Il contesto è indispensabile per comprendere correttamente un simile lóghion, infatti l’oggetto principale, rimasto nascosto ad alcuni e rivelato ad altri, non è esplicitato.
«O Padre»: ogni preghiera di Gesù ha inizio con l’invocazione del Padre celeste (cfr. 6,9, la preghiera del Padre nostro). È questa una rara testimonianza sinottica della preghiera di Gesù, caratterizzata dal termine confidenziale «Padre» con cui si rivolge a Dio, Signore del cielo e della terra. L’invocazione combina un titolo che comporta l’intimità speciale di Gesù con Dio («Padre») con il riconoscimento che questo Dio è signore e padrone del cielo e della terra. Prelude inoltre al detto nel quale viene espresso il rapporto particolare esistente tra Padre e Figlio.
«Signore del cielo e della terra»: l’espressione che conferisce all’esclamazione di Gesù un certo tono di solennità, titolo già dell’A.T., è attestata largamente nell’uso giudaico, specialmente nelle preghiere (come titolo: Dt 10,14; 3,24; 4,39; Gios 2,11; Esr 5,11; come creatore del cielo e della terra: Gen 1,1; Es 20,11; 31,17; Is 45,18; 51,13; ecc.; sovrano di essi: Sal 49,4; 88,12; 134,6; e come colui che riempie cielo e terra, Ger 23,24). Il titolo è entrato anche nel «Credo» il simbolo battesimale.
«hai tenuto nascoste»: nascondere, come rivelare sono termini propri del genere apocalittico. La volontà positiva di Dio non è quella di escludere i sapienti e i saggi di questo mondo (cfr 1 Cor 1,20-21) dalla rivelazione evangelica, ma si vuol solo indicare qual è l’unica via per raggiungere i misteri del regno: la semplicità, la piccolezza. Il motivo vero del compiacimento di Gesù sta nel fatto positivo del dono della rivelazione elargito (e accettato) a quanti si sono trovati o si sono messi in questa via della semplicità. Non sono pertanto gli uomini con la loro umana sapienza che arrivano a comprendere Dio, ma è il Signore stesso che si rivela e svela (in greco si usa il verbo apokalýpto) la propria vita.
«queste cose»: (meglio "queste realtà") possono essere identificate solo nell’ambito del capitolo, ove appunto si tratta della corretta interpretazione delle opere messianiche di Gesù. Nel linguaggio apocalittico designano l’oggetto della rivelazione (cfr Dn 2,29; Mt 24,3); qui indicano tutto il contenuto della predicazione di Gesù, in modo particolare i misteri del regno (cfr. Mt 13,11).
«ai sapienti e ai dotti»: Sempre il contesto serve ancora ad individuare anche le due categorie di persone a cui si fa riferimento: da una parte i sapienti, i rappresentanti ufficiali della scienza religiosa ebraica, scribi e farisei, dall’altra i piccoli (in greco nḗpios, come in latino infans, indica colui che non sa ancora parlare o non ne è capace), cioè i discepoli, gente semplice, senza alcuna autorità sulla dottrina religiosa. L’espressione si riferisce dunque molto chiaramente agli scribi e ai farisei che rifiutano Gesù ma, dato il contesto (Matteo 11-13) nel quale il rifiuto di Gesù costituisce il tema principale, potrebbe includere anche altri, come, ad esempio, gli abitanti delle città impenitenti di Mt 11,20-24. Ciò che Dio ha tenuto nascosto a questa gente è l’importanza delle opere di Gesù e la presenza del Regno di Dio nel suo ministero (11,1-19).
Il Padre rivela dunque le Realtà sue ai nèpioi, «i piccoli» Questi sono gli umili, i poveri, quelli senza linguaggio che si faccia rispettare dagli uomini “grandi”, E invece avviene proprio che «la Sapienza aprì la bocca ai muti, e rese eloquenti le lingue dei piccoli» (Sap 10,21). Allora, occorre farsi trovare in queste condizioni, come avverte il sapiente d’Israele:
Quanto più tu sei grande, tanto più umiliati,
e troverai grazia presso il Signore,
poiché grande è la Potenza del Signore,
e ai piccoli Egli rivela i suoi Misteri (Sir 3,18-19).
E il fatto che rovescia la piccola boria umana, e la dottrina sapienziale diffusa nell’A.T. ne riporta molti tratti:
La Legge del Signore è perfetta, ricrea il cuore.
La Dottrina del Signore è certa, istruisce i piccoli (Sal 13,8).
L’enunciato delle Parole tue illumina
e dona l’intelligenza ai piccoli (Sal 118,130).
E si potrebbe seguitare a lungo. La logica della cultura autonoma e autosufficiente è ridicolizzata. E come un impero finanziario, una consorteria di «teste d’uovo» non affiderebbero la direzione ad un "piccolo", così il Signore dell’universo e delle sue ricchezze, la Sapienza infinita non affida i suoi Misteri indicibili a quei «grandi intelletti» di breve circuito e di pancia piena. Si ha qui la medesima nota del «beati i poveri di spirito» (5,3b).
«così è piaciuto a te»: perché così hai voluto: Il greco eudokia (cf Lc 2,14) è l’equivalente dell’ebraico rashòn, che esprime l’idea della benevola volontà di Dio che guida e indirizza le cose. Il versetto è un commento a Mt 11,25: per Gesù il nascondere e il rivelare le cose da parte del Padre fa parte del gratuito piano di Dio. Questa è la volontà del Padre; il disegno divino che si sta attuando definitivamente, a cominciare dalla nascita del Figlio (Lc 2,14, l’inno angelico; cfr Lc 12,32), al Battesimo (3,17), fino alla vocazione degli Apostoli (Gal 1,15).
v. 27 Questo versetto è talmente singolare nei sinottici che è stato definito «una meteora del cielo giovanneo». Il versetto è uno dei più densi di contenuto dottrinale non solo dell’Evangelo di Matteo ma di tutto il N.T.; in esso sono condensati tre enunciati che riguardano:
1. la «donazione» di ogni potere e di ogni essere al Figlio da parte del Padre;
2. la reciproca esclusiva «conoscenza» del Padre e del Figlio;
3. la necessaria «mediazione» del Figlio per raggiungere la conoscenza del Padre.
«Tutto»: Se «tutto» è retrospettivo e si riferisce a «queste cose» di Mt 11,25 e ai passi precedenti di Matteo 11, allora comprende anche i prodigi di Gesù e il suo ruolo nella presente dimensione del regno. Se invece guarda in avanti a ciò che segue in Mt 11,27, allora si riferisce alla figliolanza di Gesù e all’autorità che ne deriva.
«mi è stato dato»: è la formula che tornerà a sigillare l’Evangelo di Matteo al momento dell’Ascensione (28,18).
«conosce»: la conoscenza nel linguaggio biblico, non è semplicemente un’operazione dell’intelletto; è intima familiarità e, soprattutto, amore sponsale che genera la vita. L’inconoscibilità di Dio («Nessuno può vedere Dio senza morire») è un punto fondamentale della religione d’Israele, che la letteratura sapienziale, in tempi più recenti, ha cercato di illuminare con la personificazione della divina Sapienza che sta «presso» Dio, ne conosce i misteri e li rivela agli uomini (cfr. Sap 8,3-4; Bar 3,29-38; Sir 24,lss).
Queste aspirazioni profonde dei sapienti di Israele trovano la loro attuazione nella discesa, sulla terra, di Cristo, sapienza del Padre (cfr. Gv 1,1-14). Proprio il ruolo di Gesù, “presso il Padre e incarnato tra gli uomini” rende accessibile , rivela la conoscenza del Padre.
«il Figlio... il Padre»: Qui «Padre» e «Figlio» sono usati in senso assoluto: «il Padre» e «il Figlio» (vedi Mt 24,36; 28,19). Non si tratta di una parabola sulla reciproca conoscenza tra un padre e un figlio anche se tale analogia è alla base del detto.
vv. 28-30 Questo detto è proprio dell’evangelista Matteo.
«Venite a me tutti...»: è l’invito che la Sapienza rivolge ai «piccoli» già nell’A.T., per il Convito preparato (Prov 9,5), per quanti la desiderano come Sposa diletta per saziarsi dei suoi ricchi frutti (Sir 24,18-20). È l’invito pressante che la Sapienza divina incarnata rivolge per il Convito finale adesso pronto (Gv 6,35.37.44.65), al fine di ottenere il Dono supremo, lo Spirito Santo, l’Acqua della vita (Gv 7,37-39).
Antifona alla Comunione Sal 33,9
Gustate e vedete quanto è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia.
L’antifona alla comunione dal Sal 33,9, AGC, nella divina liturgia è ancora l’invito della divina Sapienza a venire al suo Convito e suona con tutta la gioia: Gustate, e solo così sperimenterete (Eb 6,5; 1 Pt 2,3) che il Signore è Buono. È soave sempre (Sal 99,4). Ricolma delle Delizie della sua Destra misericordiosa e generosa. Ammette sempre al suo Convito. E fonda la speranza degli uomini, che sono beati se si affidano solo a Lui (2,13; 39,5; 83,13; Ger 17,7; Sir 34,14.19). Come avviene ai suoi fedeli «oggi qui», nutriti del Cibo divino della Parola, ammessi al divino Riposo, accettando in quanto Chiesa guidata dallo Spirito Santo il giogo dell’inesauribile insegnamento che la Sapienza divina dona a essi nella sua prodigalità materna e nuziale.
«affaticati e stanchi»: L’invito è illimitato, ma rivolto a chi si fa trovare nella condizione ideale, umanamente spiacevole: affaticati e appesantiti dalle vicende infelici della vita, quelli già dichiarati beati (Mt 5,3-11).
«il mio giogo » indica a priori schiavitù e fatica senza fine, come per i bovi che l’hanno dovuto sopportare. L’immagine del "giogo" appartiene in primo luogo, alla relazione schiavo-padrone; più tardi fu applicata alla relazione discepolo-maestro. Le alleanze umane, ed anche quella divina, si esprimevano con le categorie di sottomissione ed ubbidienza. Il testo fa riferimento, in primo luogo, al giogo della Legge di Mose (cfr. Ger 5,5). Questo giogo, imposto ad ogni giudeo pio, era particolarmente duro nell’applicazione che ne facevano gli scribi. San Pietro lo dirà un giogo insopportabile (At 15,10) e Gesù condannerà aspramente gli scribi per aver imposto agli uomini un peso così grande (Mt 23,4).
Il giogo di Gesù è il giogo del regno dei cieli che egli ha annunciato ed imposto ai suoi seguaci: tutto il passo riecheggia Sir 51,34-35,
«il mio giogo è dolce e mio carico leggero»: Appena la Dom. XIII Matteo nel suo Evangelo (Mt 10,37-42) ha parlato ampiamente delle tremende esigenze di Gesù. Come può affermare ora che il suo carico è leggero? Gesù inculca nell’uomo lo spirito della legge, liberandolo dalla sua schiavitù (cfr. 1 Gv 5,3; Dt 30,11-14): ci comanda di pregare il Padre e ci garantisce che saremo ascoltati da lui: promette lo Spirito che viene in aiuto alla nostra debolezza. Il suo giogo non ha nulla a che vedere con l’oppressione perché egli viene all’uomo con umiltà; egli stesso si presenta come mansueto e umile di cuore (cfr. I lett.).
Il giogo che adesso la Sapienza divina viene a proporre, è «buono (chréstós)», è imposto dal Buono e rende buoni (v. 30). In altro contesto è spiegato splendidamente. È la Parola divina, con i suoi comandamenti della carità da osservare sempre, e di Dio «i comandamenti non sono pesanti» (1 Gv 5,3). Come aveva annunciato il Signore, i comandamenti stanno vicini agli uomini che li accettano, e benché giogo obbligante, da cui non ci si libera, sono facili da praticare (Dt 30,11).
Il giogo è lieve. Infatti come Croce di redenzione l’ha portato Cristo stesso. Che aiuta sempre i suoi fedeli a portarlo.
«umile»: parallela alla parola piccoli (v. Dom XIII per annum A) è una qualità che il discepolo deve assimilare dal maestro per avere il regno. Nell’originale greco il termine è tapeinós. dal quale deriva il nostro "tapino", applicato a chi è povero, misero, infelice basso, debole; è un vocabolo di grande rilievo nella spiritualità neotestamentaria. Per tre volte Gesù ripete la frase: «Chi si innalza sarà umiliato (tapeinós) e chi si umilia sarà innalzato» (Mt 23,12; Lv 14,11; 18,14). L’esempio più esplicito è il pubblicano che prega in fondo al tempio, in contrasto all’orgoglio del fariseo. Non solo il fariseo, infatti il modo corrente nostro di pensare non ritiene forse che si è persone realizzate se si è capaci di affermarsi, di fare carriera, di imporre le proprie ragioni? E se per questo bisogna calpestare gli altri, che importa? La vita non è dei perdenti, dei sottomessi, di quelli che rinunciano a farsi valere. Basta osservare la vita di ogni giorno: se siamo in fila ad uno sportello e uno ci passa davanti, sentiamo dentro di noi accendersi il fuoco dell’irritazione; e sentiamo anche levarsi un coro di proteste da tutta la fila, segno che tutti hanno provato lo stesso fuoco. Possiamo moltiplicare questo esempio per molte altre situazioni, quelle semplici e ordinarie della vita quotidiana. Paolo vede in Gesù l’immagine più fulgida di questa umiltà: «pur essendo di natura divina... umiliò se stesso facendosi obbediente sino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-8).
Maria, la madre di Gesù, è consapevole che questa è la vera strada per la gloria e nel suo cantico, il Magnificat, esclama: «il Signore rovescia i potenti dai troni ed innalza gli umili» dopo aver dichiarato che Dio «ha guardato all’umiltà della sua serva».
Facciamo dunque nostro l’invito dell’apostolo Giacomo che nella sua lettera ci invita a seguire Cristo umile di cuore: «Dio, infatti, resiste ai superbi e agli umili invece dà la sua grazia. Umiliatevi, dunque, davanti al Signore ed egli vi esalterà!» (4,6.10).
La caratteristica fondamentale che Gesù attribuisce alla sua persona come modello è dunque la mitezza e l’umiltà di cuore. Questa caratteristica ha determinato la scelta della prima lettura tratta dal libro del profeta Zaccaria. La seconda parte di quest’opera (cc. 9-14), detta Secondo-Zaccaria, è una raccolta antologica di brani profetici originati nella povera comunità giudaica di Gerusalemme, all’epoca della conquista di Alessandro Magno (intorno al 330 a.C). La gloria tanto attesa non è giunta e Gerusalemme è poco più di un paese di provincia; i fedeli vivono di ricordi e di speranza. Di fronte però alla potenza militare macedone che sta occupando tutto l’Oriente, la comunità giudaica sembra proprio tradita nelle sue attese e rischia seriamente di abbandonarsi alla disperazione. A questa comunità si rivolge l’anonimo profeta e, a nome di Dio, la invita con forza all’esultanza e alla gioia. Nonostante tutto, «il re» sta arrivando: a Gerusalemme non comanderanno gli stranieri, ma un re discendente di Davide capace di rinnovare gli splendori dell’antico regno.
Ma il re atteso è ben diverso dal contemporaneo Alessandro e anche dall’antico Salomone che introdusse in Israele l’uso della cavalleria militare: questi potenti della terra confidano nei loro carri e nei loro cavalli, mentre il nuovo re arriverà simbolicamente su un asino, mansueto e inoffensivo puledro. La sua missione sarà di distruzione e di ricostruzione: distruggerà gli strumenti e la logica della guerra per realizzare un regno universale fondato sulla pace. La sua caratteristica principale è l’umiltà: il testo greco della LXX usa lo stesso aggettivo praǘs (mite) adoperato da Matteo nella pericope evangelica di questa domenica. Ma il termine ebraico (‘ani) ci aiuta a coglierne il valore: esso significa primariamente «povero», «oppresso», «umiliato», con tutto quel che comporta una tale realtà. Il re annunciato dal profeta non è uno dei tanti potenti generali, è invece un povero coi poveri, uno che condivide l’opprimente situazione di povertà ed è vittorioso proprio perché umiliato; altrove lo stesso profeta parlerà di un misterioso personaggio «trafitto» che sarà per Gerusalemme fonte di grazia e di consolazione (Zc 12,10).
La comunità cristiana riconoscerà questo «re umile» e «trafitto» in Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, umiliato fino alla morte e divenuto principe della pace. Narrando l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, Matteo cita esplicitamente il testo di Zaccaria e indica come realizzata la sua attesa messianica (21,4-5).
La mitezza appare oggi come l’atteggiamento del perdente, di chi non è capace di farsi valere o di chi rinuncia ad affermare se stesso. E a prima vista potrebbe proprio apparire così: non è una virtù di immediata evidenza, la mitezza. Ha bisogno di magnanimità, di grande forza interiore, di larghezza d’animo, della vera capacità di voler bene. È una virtù, che come ogni vera virtù, deve essere imparata a poco a poco: in fondo è anche quello che dice l’Evangelo di oggi: «imparate...»; cioè «non pensiate che vi venga spontaneo». E Gesù indica anche la strada per questo apprendimento: è lui stesso, il suo modo di guardare agli altri pieno di compassione e di misericordia, è il suo modo di stare davanti al dolore, alla sconfitta, allo scacco. La croce è la cattedra da cui Gesù ci insegna la mitezza che subisce senza rispondere... è la cattedra dell’amore più grande. Dunque la mitezza è la virtù di coloro che sanno voler bene, anche a se stessi, e che sanno che l’arroganza ferisce anche chi la vive, non solo chi la subisce.
E se ci verrà da pensare che la croce è il luogo della sconfitta più grande di Gesù, ricordiamoci che il centurione, proprio vedendo il modo con cui Gesù subiva tutto, ha capito che era il Figlio di Dio. Dunque uno stile di vita mite parla di amore, non di stupidità; di forza, non di arrendevolezza; e in termini così intensamente umani da far intravedere Dio.
«L’Evangelo di oggi ci dice dunque che per capire il valore della mitezza occorre guardare a Gesù e non tanto come ad un modello da imitare quanto piuttosto come ad un amore dal quale lasciarsi affascinare e farsi prendere il cuore. E l’amore, dono di Dio, nel cuore umano genera amore, in tutte le sue espressioni» (Paola Bignardi).
II Colletta
O Dio, che ti riveli ai piccoli
e doni ai miti l’eredità del tuo regno,
rendici poveri, liberi ed esultanti,
a imitazione del Cristo tuo Figlio,
per portare con lui il giogo soave della croce
e annunziare agli uomini
la gioia che viene da te.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Lunedì 3 luglio 2017
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Fonte:http://www.abbaziadipulsano.org
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