Abbazia Santa Maria di Pulsano, LECTIO «DELLA PARABOLA DEI 10.000 TALENTI»

Domenica
«DELLA PARABOLA DEI 10.000 TALENTI»
XXIV Dom. Tempo Ordinario A

Matteo 18,21-35; Sir 27,30-28,7; Sal 102; Rm 14,7-9

«Volete dunque che vi dica perché e come si deve amare Dio? La mia risposta è molto breve: il
motivo per cui si ama Dio, è Dio stesso; e la misura di questo amore, è di amarlo senza misura» (S. Bernardo, Opere mistiche).

Non si può ascoltare la liturgia della Parola di oggi senza pensare anche alla preghiera domenicale: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. La voce di Gesù di Nazaret e quella di Gesù figlio di Sira, l'autore del Siracide, sembrano confondersi. Non dobbiamo stupirci di ciò, dal momento che Gesù non ha mai presentato la sua predicazione come assoluta originalità, non ha mai rinnegato la legge o i profeti; il Dio che lui ci rivela non è diverso da quello dell'alleanza antica. Eppure, con Gesù tutto acquista un senso nuovo: portando a compimento la prima alleanza, egli la vivifica e la rinnova, attraverso la testimonianza della croce.
Povero Pietro, che meschina figura con i suoi calcoli complicati! Gesù ha appena promesso: «Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo» (Mt 18,18). E il principe degli apostoli, fiero ed impaziente di sperimentare la potenza di questo privilegio divino, si informa: «Quante volte dovrò perdonare al mio fratello? fino a sette volte?». La proposta è generosa: sette è il numero che simboleggia la pienezza divina. Ma Gesù gli risponde: «Fino a settanta volte sette!». Le esigenze del perdono che dobbiamo ai nostri fratelli sono infinite: impossibile cavarsela a buon mercato!
All'origine di tutto, infatti, c'è Dio, raffigurato dal re della parabola, che ha donato gratuitamente a ciascuno il mondo, la vita, la libertà, beni incommensurabili e soprattutto il perdono, la remissione dei peccati. Perché l'uomo, maestro nell'arte di rovinare le cose, si è reso colpevole di un delitto di lesa maestà, commettendo il peccato. Il suo debito è paragonato dalla parabola a diecimila talenti, una somma immensa che non riuscirebbe mai a pagare se Dio non gli venisse incontro. Anzi, Dio fa ben di più: gli perdona, perché è paziente e buono. Ma buono non significa disposto a lasciar passare qualsiasi cosa. Noi non siamo in grado di fare realmente torto a Dio, ma purtroppo siamo in grado di far del male al nostro prossimo e viceversa. Dio non vuole una vita concepita come una giungla, in cui ci si fa avanti a gomitate, non si regala nulla e non si fa che restituire i colpi ricevuti, rendendo male per male. Siccome è buono, Dio vuole che rimettiamo agli altri i debiti che hanno verso di noi: cento denari, una somma veramente da poco... Bruciamo presto i nostri miserabili attestati di credito al fuoco della carità! Rifiutarsi di perdonare, instancabilmente e dal profondo del cuore, significa uscire assolti dal tribunale... per andare subito a sedersi di nuovo al banco degli accusati.

Antifona d'Ingresso Cf Sir 36,18
Da', o Signore, la pace a coloro che sperano in te;
i tuoi profeti siano trovati degni di fede;
ascolta la preghiera dei tuoi fedeli
e del tuo popolo, Israele.

L’antifona d'ingresso è dal Sir 36,18 adattato. L'epiclesi iniziale chiede la pace per quanti sono trovati fedeli al Signore, affinché anzitutto siano fedeli alla loro missione i «profeti», i portaparola di Dio nella comunità e al mondo. L'epiclesi finale sigilla la richiesta, insistendo sull'ascolto da parte del Signore delle preghiere dei servi suoi, e del popolo suo Israele.

Canto all’Evangelo (Gv 13,34)
Alleluia, alleluia.
Vi do un comandamento nuovo, dice il Signore:
come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Alleluia.
Dalla correzione del fratello al perdono e all’amore, quell’amore che è proprio di Dio. Termina infatti con l’invito al “perdono di cuore” la parabola dei 10.000 talenti che chiude il 4° grande discorso del Signore riportato dall'Evangelo di Matteo, il "discorso ecclesiastico'' (18,1-35), la cui lettura era iniziata con la Dom. XXIII, o «Domenica della correzione fraterna».
Il ministero messianico (annunciare l'Evangelo del Regno, compiere le opere della Carità del Regno, riportare tutti al culto salvifico da tributare al Padre) con il quale il Padre invia il Figlio con lo Spirito Santo continua con l'insegnamento di alcune regole per la convivenza della comunità.
Dopo aver parlato della correzione fraterna, del «legare e sciogliere» e della presenza continua del Signore nella comunità orante, Gesù ora proclama la necessità del perdono «sempre e comunque» (cf 70 volte 7) e del perdono di cuore”.
Questo è l'esempio e lo stile di Dio; così è nel Regno dei cieli, per questo «dia toùto» (cf v. 23), così deve essere il comportamento dei discepoli.
Alle parole di risposta a Pietro (vv, 21-22) seguono quelle sulla necessità assoluta del perdono a partire «dal cuore» (v. 35). È la spontaneità del cuore, che non esclude la correzione, la quale esige sempre e comunque il perdono.
Il perdono nell'ordine della salvezza ha la priorità su tutto, anche sulla verità. Il fratello vale più della verità. Il testo elaborato da Matteo rivela questo tema centrale nell’inclusione ottenuta ponendo il verbo perdonare (aphìemi) e il sostantivo fratello (adelphòs) all’inizio (v. 21) e alla fine (v. 35) della nostra pericope.
La parabola, propria solo a Matteo, si colloca tra questi due detti di Gesù sul perdono. Nel racconto parabolico si riconoscono facilmente tre scene:
prima scena: nei vv. 23-27 conosciamo un re che vuole fare i conti e si trova innanzi un servo che ha un debito immenso;
seconda scena: nei vv. 28-30 il servo della prima scena incontra un altro servo debitore verso di lui di una somma esigua;
terza scena: nei vv. 31-34 altri servi «molto addolorati» riferiscono al re quanto è accaduto e questi ristabilisce quella giustizia che è la misericordia divina che non abbandona nessuno, anche il peccatore più incallito.
La capacità di perdonare è ben oltre le forze dell'uomo; ci è molto più facile giustificarci, trovare mille attenuanti. Il chiedere perdono risulta essere così un primo passo di Dio nei nostri confronti: è Lui che, dopo aver atteso che toccassimo il fondo, ci sollecita a chiedergli perdono. È Dio che nella sua infinita misericordia attiva in noi la richiesta di perdono. Solo il perdono, accolto e offerto, apre la strada verso la pace; il perdono è il fondamento su cui costruire l'educazione reciproca. Solo chi ha ricevuto l'abbraccio della misericordia da parte di Dio, può poi riservare lo stesso gesto al fratello.

I Lettura: Sir 27,33 - 28,9
Era ben facile vivere prima di Gesù, quando ci si poteva ancora vendicare dell'offesa subita! La pagina sublime dal Siracide o Ecclesiastico è come un anticipo della parabola evangelica adesso ascoltata e del «Padre nostro» che ne deve essere il segno sacramentale. Il sapiente insegna che davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini, l'ira e il furore, che animano i cuori malati degli uomini, sono abominevoli e chi se ne fa vincere conservandoli e non liberandosene è considerato come peccatore e reo. E peccatore grave (27,33). Chi desidera giustizia, la troverà nella giusta vendetta punitiva del Signore contro gli iniqui; e d'altra parte chi si vendica, ne renderà stretto conto. La vendetta, non nel senso odioso che assume nel linguaggio comune, ma come ristabilimento della giustizia, compete infatti unicamente a Dio (Dt 32,35, citato in Rom 12,9; Ebr 10,30), che è il solo che possa applicarla con misura e considerando tutto (anche Sal 93,1). La vendetta già nell'A. T. era proibita dalla Legge (Lv 19,18), dai Profeti (Is 1,24; 59,18; Na 1,2 da leggere con attenzione!), dai libri sapienziali (Pr 20,22; 24,29) (v. 28,1).
L'esortazione è perciò a perdonare chi reca danno e solo allora la preghiera sarà accolta (Mt 6,14; Lc 6,37; Mc 11,26; Rom 12,19), poiché il Signore accoglie solo le anime innocenti (v. 2). Infatti, uno conserva l'ira contro il fratello e come osa chiedere al Signore la propria guarigione? (Mt 18,25-35; Giac 2,13). Dio non accetta le assurdità inique del cuore dell'uomo (v. 3). Il quale nega il perdono al suo simile, consustanziale, in quanto «immagine e somiglianza di Dio», con ogni altro fratello e poi prega che gli siano perdonati i propri peccati (Mt 6,12), creando la situazione paradossale di non avere rimesso piccoli debiti, e di chiedere insieme la remissione dei debiti suoi che sono maggiori, gravati dalla malvagità (v. 4). E così, essendo fragile "carne", bisognosa di tutto, conserva l'ira, tuttavia osa chiedere a Dio di essergli propizio. Ma allora, chi deve, e del resto chi può, pregare per le sue colpe vere? (v. 5).
Giunge severo l'ammonimento supremo. Ogni uomo occorre che tenga bene presente davanti a sé la fine ultima, in quanto egli è "carne" destinata alla morte (7,40; 38,21), e che faccia cessare l'odio, l'ira, la vendetta, l'inimicizia (v. 6). Nella consapevolezza della corruzione e della morte che non tarderanno, occorre invece osservare i divini comandamenti (v. 7). Tra essi, principio di essi, va tenuto presente il santo timore di Dio (Es 23, 4-5; Lv 19,18; e il successivo v. 19, amare il prossimo come se stesso). Questo deve portare a sopportare e trascurare l'ignoranza con cui il prossimo può aver peccato. Poiché è possibile peccare volontariamente (Nm 15,30) e allora il Signore non perdona. Ma più di frequente si manca per colpa lieve, per inavvertenza, per trascuranza, per inabilità, per insipienza (23,3; in Lv 4,2.22; 5,17, sono stabiliti appositi sacrifici per la colpa lieve; Nm 15,22; Gb 14,4; Sal 24,7). E Cristo stesso sulla Croce pregò per l'ignoranza dei suoi omicidi, che il Padre per amore del Figlio deve perdonare (Lc 23,34). Il fedele deve passare sopra a queste colpe (v. 8).
Ma va tenuta presente, per base e per conforto, l'alleanza del Dio Altissimo, che si cura dei buoni come dei malvagi e vuole tutti portare alla sua salvezza. In Lui sta la forza e la fiducia. A Lui ci si deve rimettere per tutto (v. 9).

Il Salmo responsoriale: 102,1-2.3-4.9-10.11-12,1
Per i vv. 1-2.3-4.10.12 e per il Versetto responsorio: «Il Signore è buono e grande nell'amore» (v. 8) si rinvia alla Domenica VII per l'Anno e per i titoli divini della carità che contiene si rinvia anche all'A.T. della Domenica della SS. Trinità.
Il v. 9 sviluppa il v. 8 e lo traduce nella pratica. Il Signore «tardo all'ira e longanime» non incombe sui peccatori aggredendoli con rampogne che umiliano e deprimono e non mantiene il rancore per fare vendetta e per loro fortuna non adegua la misura della sua retribuzione all'imponenza delle loro colpe (v. 10). Infatti la sua magnanimità allontana e distrugge le colpe (vedi Ger 31,34!), nel modo così radicale e incomponibile, come la distanza per definizione non ravvicinabile che separa in eterno il cielo dalla terra. Tanto è sconfinata la sua Misericordia verso i suoi tementi (v. 11).
Il v. 12 ricorda che il Signore perdona le iniquità, le allontana per sempre, come lontani e inavvicinabili sono l'oriente e l'occidente.

Esaminiamo il brano

vv. 21-22 - «quante volte dovrò perdonare?»: Pietro chiede al Signore quante volte si debba esercitare il perdono. I vv. 21-22 fanno parte della struttura del testo di Dom. scorsa essendo la conclusione logica e naturale in quanto si occupa del perdono fraterno. Correzione e perdono sono atteggiamenti che non si contraddicono, anzi se il perdono non esclude la correzione, questa esige sempre e comunque il perdono. Gesù sa bene quel che dice [lo abbiamo ascoltato parlare di amore verso i nemici (Mt 5,38-48) che supera la «legge del taglione»] e già l’A.T. è pieno della legge del perdono:
1. Mose che perdona il popolo ribelle e mormoratore (Es 16; 32,11-14; ecc.);
2. Davide che perdona Saul che lo perseguita (1 Sam 24 e 26);
3. il salmista perseguitato e percosso che si rimette alla divina misericordia (Sal 7; 16 (17); ecc.);
4. il servo sofferente (Is 53,7-8);
5. la dottrina sapienziale (cf I lettura)
«sette volte»: i rabbini insegnavano che Dio perdona solo due volte, alla terza punisce. Pietro va ben oltre l'insegnamento ufficiale ma Gesù sorpassa ogni pur ottimistica prospettiva umana; il canto della spada di Lamech è rovesciato (Gen 4,24). Il simbolismo dei numeri è da intendere che il perdono è per ogni mancanza e qualunque ne sia il numero. Il sette indica la pienezza e i suoi multipli indicano la pienezza di pienezza: non sono più i numeri (77 o 70x7=490 che sia), che pur grandi sono sempre limitati, ma sempre e per sempre!
Come potremmo altrimenti pregare il Padre: «Tu rimetti a noi ì debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» ogni giorno della nostra esistenza?
«Fino a settanta volte sette»: Un numero esagerato, che va al di là della perfezione stessa. È chiaro che i numeri che si trovano in questo brano evangelico non sottolineano semplicemente il passaggio da un perdono meno perfetto a un perdono più perfetto. E neppure si tratta del perdono perfetto. Si tratta di un perdono che trascende e fa esplodere ogni perfezione. È noto il significato semitico del numero sette, simbolo della perfezione, della pienezza. Si trattava di qualcosa di definitivo, in qualche modo insuperabile. Ma Gesù sconvolge questo schema. Quando Pietro suggerisce un perdono rinnovato fino a sette volte, entra generosamente nello spirito del Maestro, indicando un perdono perfetto. Ma nella prospettiva di Gesù non c'è una perfezione misurabile, non c'è una pienezza statica e chiusa, non c'è un limite massimo alla generosità. Questa affermazione va al di là del caso dei perdono. Dichiarando la necessità di superare ogni misura, Gesù fa un discorso di portata più generale. Settanta volte sette, significa moltiplicare la pienezza per la pienezza. Significa scartare — non senza una certa ironia — qualsiasi idea di una pienezza misurabile. Gesù non predica «la perfezione», ma una perfezione sempre più grande, che gli uomini non raggiungeranno mai, ma che sarà costantemente aperta davanti a loro. La sua parola ci apre ad ogni passo le dimensioni dell'infinito. (un monaco della chiesa orientale)
v. 23 - «A proposito»: in gr. dia toùto = per questo. Come in cielo così in terra (sia fatta la tua volontà).
«fare i conti»: lett. in gr. “portare a galla insieme”, i conti, come dice il verbo synáirô, che noi traduciamo con “regolare i conti”. Il re dunque regola i suoi conti, il senso è come in 25,19, la parabola dei talenti; in Lc 16,6 la parabola del fattore disonesto; Lc 19,15, la parabola delle mine, Mt 24,46-47, la parabola del servo fedele e sapiente. Il rendiconto finale è conosciuto ed è per tutti; ciascuno è chiamato ad assumersi personalmente le sue responsabilità.
v. 24 - «debitore di 10.000 talenti: ecco un servo (doùlon = schiavo) che ha un debito immenso: 10.000 talenti. Il testo non precisa di che materia, essendo il talento una misura di peso di circa 40 Kg. Se fosse oro fino avremmo oggi circa 400.000 Kg per un valore (1 g = 38,33 euro ) di circa 15.332 miliardi di euro. Il «talento» era un taglio di denaro molto grosso, tra seimila e diecimila denari, quando un denaro rappresentava il salario di una giornata lavorativa (vedi 20,2). Perciò migliaia o diecimila talenti rappresentava una somma astronomica, un debito che il servo non avrebbe mai potuto ripagare. Una somma favolosa non solo ai tempi di Gesù ma notevole anche oggi, da far impallidire anche il deficit italiano...
v. 25 - «ordinò che fosse venduto...»: Anche se alcuni testi biblici ammettono che i figli potevano essere venduti come schiavi per saldare i debiti del padre (2 Re 4,1; Is 50,1; Ne 5,5), ai tempi di Gesù questo non era ammesso. Secondo la legge ebraica, la moglie non poteva essere venduta per nessun motivo. Dobbiamo quindi supporre che il re fosse un pagano. Poiché il ricavo dalla vendita non bastava a ripagare il debito, l'azione del re doveva essere intesa più che altro come una punizione. Le leggi antiche in materia di debiti erano dunque terribilmente dure: il creditore insoddisfatto poteva ''colpire" non solo la persona fisica del debitore, ma anche la moglie e i figli, vendendoli come schiavi oltre al sequestro dei beni qualora vi fossero.
Inutile scandalizzarsi, perchè se appena verso la metà del 1800 i cosiddetti stati "civili" hanno abolito la prigione per debiti, la schiavitù è invece rimasta anche se sotto forme diverse e meno appariscenti. Sono ancora resi schiavi:
1. chi non può ottenere un prestito per migliorare la propria condizione sociale;
2. l'immigrato che non può pagarsi il viaggio verso una speranza di vita migliore;
3. le nazioni rese incapaci di competere con gli stati industrializzati;
4. chi è affamato, assetato, malato, analfabeta...
Il re segue la legge e tenta di recuperare qualcosa.
v. 26 - «abbi pazienza con me»: in gr. makrothuméò = sii longanime con me. Il tempo imperativo aoristo sottolinea l'invito a compiere un'azione nuova, mai fatta prima.
v. 27 - «Impietositosi»: in gr. splagchnìzomai = ebbe viscere di misericordia, un verbo proprio di Dio (cf Mt 9,35-38 Dom. XI). Splàgchna sono le viscere materne, modo figurato per indicare la divina Misericordia.
Come una madre è intimamente legata al figlio che le sue viscere hanno generato così Dio è legato all'uomo anzi «egli ti amerà più di tua madre» (cfr. Sir 4,10); «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (cfr. Is 49,15).
Nel N.T. il verbo si trova solo nei sinottici, quasi sempre riferito a Gesù, per indicare il moto divino di pietà per i sofferenti.
Usato per sottolineare una caratteristica saliente della personalità di Gesù è interessante esaminare come Gesù reagisce al sentimento di compassione che prova. Possiamo distinguere i brani dove Gesù ha compassione delle folle e quelli dove ha compassione di un singolo: alla compassione per le folle «disperse e senza pastore», nel brano di Matteo lega la missione dei dodici, che, come quella di Gesù non si limita a predicare, ma a guarire e scacciare i demòni; in Mc 6,34 (vedi sinossi) alla compassione per la stessa motivazione Gesù risponde «insegnando» e moltiplicando i pani e i pesci per dare loro da mangiare, quando sono sfinite; la moltiplicazione dei pani è la risposta anche di Mt 15,32; Mc 8,2; in Mt 14,14 Gesù guarisce i loro malati.
Quando Gesù ha compassione per un singolo opera un miracolo di guarigione (cfr. Mt 20,34 e Mc 1,41) o di risurrezione (cfr. Lc 7,13).
Gesù è sempre attento al dolore, alla sofferenza, allo smarrimento dei singoli e delle folle con le quali viene a contatto e si prende cura concretamente di loro.
«gli condonò il debito»: Il Signore del servo è «longanime e misericordioso (cf Sal 7,11; 85,15; 102,8; 144,8; Es 34,6) compie il giubileo biblico della totale remissione dei debiti (Lv 25,8-22). Il verbo aphìèmi = rimettere, lasciare con l'indicativo all'aoristo dice che l’azione si compie una volta per tutte.
E' un abbuono di grazia, non meritato e non meritabile dal servo. L'Alto ha compassione della pochezza del basso, lo restituisce alla sua dignità e lo reintegra alla sua famiglia. Un gesto regale, munifico e magnifico.
«il debito»: Il greco, unico caso nel NT, usa il termine daneion, che trasforma il «debito» in un «prestito». In risposta alla supplica del servo di avere pazienza (18,26) il padrone non solo gli condona il debito ma mostra anche una squisita sensibilità e generosità chiamandolo eufemisticamente un «prestito».
v. 28 - «uscito trovò un altro servo»: la legge del giubileo biblico (Lv 25,8-22) chiede, pena il decadimento, che esso sia applicato in modo interreciproco tra i fratelli. Il servo beneficato trova un collega, «syn-doulon» =un con-servo del re debitore nei suoi riguardi di appena 100 denari. La somma era l'equivalente di circa 100 giornate lavorative di un operaio (cf Mt 20,2 parabola degli operai mandati nella vigna); una somma irrisoria se confrontata con il debito precedente.
vv. 29-30 - «gettatosi a terra, lo supplicava»: Il parallelismo tra le due scene è interrotto sol perché il servo a cui era stato condonato il debito non accoglie la supplica, ma fa gettare il debitore in carcere finché non avesse pagato il dovuto.
Alla pazienza del re segue la cattiveria del primo servo che non ha imparato l'umiltà e la misericordia da quello che gli era accaduto.
«cento denari»: In confronto al debito di diecimila talenti questa era una somma irrisoria (il salario di 100 giorni) che avrebbe potuto facilmente essere restituita se il creditore avesse avuto un po' di pazienza. Il modo in cui tratta il suo debitore («presolo per la gola quasi lo strozzava») è in stridente contrasto con il trattamento avuto dal re.
v. 31 - «altri con-servi furono dispiaciuti»: dobbiamo correggere la trad. CEI con afflitti con veemenza, indignati molto e tristi per l’episodio squallido a cui hanno assistito. Questi servi sono in linea con il loro Re, hanno un cuore e per questo gli raccontano l'accaduto.
v. 32 - «servo malvagio»: (cf. Lc 19,22 parabola delle mine) il Re esigendo che la sua longanimità sia attuata anche dai suoi sudditi, rinfaccia al servo di avergli «condonato» (aphìèmi) tutto intero il debito solo perché era stato «invocato» (parakaléó).
v. 33 - «non dovevi»: (edei) era necessario, bisognava, è il Disegno divino che doveva essere attuato (cf Mt 23,23; Lc 11,42; 15,32; 24,7.26; vedi anche Lc 13,16 guarigione della donna curva, in giorno di sabato).
«aver pietà»: in gr. eleéo (da cui l'invocazione Kyrie eleison) un verbo usato per lo più in riferimento alla misericordia di Dio verso l'uomo e nelle beatitudini (Mt 5,7). Il verbo elèin sottolinea un perdono che supera le leggi della giustizia rigida, degli interessi e del rigore inflessibile.
Tra il Re e i suoi servi deve regnare il medesimo atteggiamento: Dio è l'Archetipo divino unico dell'uomo e l'uomo è a sua «immagine e somiglianza».
v. 34 - «sdegnato lo diede ai torturatori»: al condono munifico segue l’ira e la condanna durissima per il servo spietato; consegnato agli esecutori di giustizia che usano anche pene corporali, i torturatori (solo qui in Mt e in tutto il N. T.), affinché sia punito poichè la restituzione del debito è impossibile!
v. 35 - «Così anche...»: il Padre celeste agirà così anche verso tutti quei suoi servi iniqui che non lo imitano.
L'Evangelo diventa interprete della tradizione biblica che descrive il perdono umano come conseguenza di quello di Dio (cf I Lett. Sir 28,1-7).
Cristo chiede di applicare quel giubileo biblico che Lui è venuto a portare con lo Spirito Santo (cf Lc 4,18-19; Is 61,1-2) e che insegnò con la preghiera «del Padre nostro», con quell'autentico e terribile «rimetti a noi - come noi già rimettemmo» (Mt 6,12). E' qui presente anche l'altro movimento, quello che a partire dal perdono degli uomini chiede il perdono di Dio.
«di cuore»: kardiòn è il Cuore divino, cioè sincero, illimitato, che non cerca strategie di interesse o di buona educazione.
La capacità di perdonare è ben oltre le forze dell'uomo, infatti se si possono dimenticare le disattenzioni nei nostri confronti, non siamo capaci di non tener conto del male che ci è stato fatto.
Il chiedere perdono è il primo passo di Dio nei nostri confronti, il dono che riceviamo quando entra per la porta del nostro cuore (Ap 3,20). E' Lui, dopo che abbiamo toccato il fondo, che ci sollecita a chiedergli perdono; è l'intervento misericordioso del Padre celeste che attiva in noi la richiesta di pietà (eleéó).
Si entra in paradiso se si è perdonati – perdonanti!
Come ci ricorda anche la seconda lettura (Rm 14,7-9) “Siamo del Signore”, apparteniamo a lui. Non dobbiamo vivere avendo come fine noi stessi. Lo Spirito di Dio che è in noi è Spirito di grande giustizia e carità che tiene conto degli altri. Per questo Cristo è morto ed è ritornato in vita.

O Dio di giustizia e di amore,
che perdoni a noi se perdoniamo ai nostri fratelli,
crea in noi un cuore nuovo a immagine del tuo Figlio,
un cuore sempre più grande di ogni offesa,
per ricordare al mondo come tu ci ami.
Per il nostro Signore Gesù Cristo... (Nuova colletta).

Fonte:http://www.catechistaduepuntozero.it

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