Abbazia Santa Maria di Pulsano,Lectio «DELLA PARABOLA DEI DUE FIGLI E DELLA VIGNA»
Domenica
«DELLA PARABOLA DEI DUE FIGLI E DELLA VIGNA»
XXVI Dom. Tempo Ordinario A
Mt 21,28-32; Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11 (forma breve 2,1-5 da non preferire!)
La parabola parla di due figli che hanno un comportamento molto diverso nei confronti del
padre: il primo dice «sì», ma non fa nulla; il secondo dice «no», poi si pente e obbedisce. Bisogna che ci guardiamo in questo specchio noi battezzati di vecchia data. I pubblicani e i peccatori rischiano ancora di precederci nel regno. Non si sottolineerà mai abbastanza la misteriosa simpatia di Gesù per i caratteri forti, poco inclini a sottomettersi immediatamente all'obbedienza della fede. Forse intuiva le ricchezze segrete dei cuori ribelli e le loro possibilità di autentica conversione; o forse si ricordava di Giobbe e provava disgusto, come dice l'Apocalisse, per gli uomini tiepidi, né freddi né caldi (Ap 3,16). La parabola dei due figli è significativa a questo proposito. Non è possibile ingannarsi: dietro all'invito a lavorare nella vigna del padre, c'è la chiamata di tutti gli uomini al regno di Dio. «Il secondo ha compiuto la volontà del padre», costatano gli ascoltatori di Gesù. Dunque hanno capito. E anche noi dovremmo aver capito, di fronte a una parabola in cui si specchia con terribile chiarezza la nostra vita: i nostri sì che assomigliano tanto a dei no, i nostri buoni motivi per non fare troppo, il nostro disimpegno, la nostra pigrizia. L'obbedienza si esprime attraverso gesti concreti, e non semplicemente attraverso un «sì» a parole. «Fare la volontà del Padre» non significa stare fermi, ben installati nella propria buona coscienza, ma significa piuttosto pentirsi del proprio rifiuto e lavorare alla realizzazione del Regno.
Bisogna davvero dunque che ci guardiamo in questo specchio, noi battezzati di vecchia data, e bisogna che si guardi in questo specchio la nostra chiesa antica di venti secoli, la nostra chiesa d'occidente così ricca di denaro, di tradizioni e di cultura. I pubblicani e i peccatori rischiano ancora di precederci nel regno, perché c'erano più promesse e più futuro nel figlio che diceva «no» e poi, convertito, andava a lavorare nella vigna, che in quello che diceva «sì» fin dall'inizio, e poi si fermava alle parole.
Antifona d’Ingresso Dn 3,31.29.30.43.42
Signore, tutto ciò che hai fatto ricadere su di noi
l’hai fatto con retto giudizio;
abbiamo peccato contro di te,
non abbiamo dato ascolto ai tuoi precetti;
ma ora glorifica il tuo nome e opera con noi
secondo la grandezza della tua misericordia.
L’antifona d’ingresso, una composizione di versetti dal libro di Dan 3,31.29a.30a.43b.42b, è desunta dalla grande «confessione d’Azaria» (Dan 3,26-46). Il giovane, nella fornace con Anania e Misael per avere rifiutato di adorare la statua di Nabucodònosor, rivolge la confessione al suo Signore. Egli Lo riconosce come giusto quando punisce, e confessa anche il peccato di tutto il popolo, da cui non si desolidarizza, in specie per non avere obbedito ai precetti divini salvifici (vv. 31.29a.30a), che sono ordinati alla sola felicità di questo popolo (v. 30b). Nonostante il fatto, con umile sincerità, adesso l’orante chiede al Signore che proprio in questo momento di prova Egli glorifichi il Nome suo, manifestandolo con opere potenti (v. 43b), secondo l’operazione della sua immensa Misericordia, a cui si impegnò con l’alleanza. Si ha qui un’alta supplica epicletica (v. 42b), che oggi i fedeli nella celebrazione fanno propria, come sempre.
Canto all’Evangelo (Gv 10,27)
Alleluia, alleluia.
Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore,
io le conosco ed esse mi seguono.
Alleluia.
Il versetto dell’alleluia all’evangelo ci dà come chiave interpretativa della nostra pericope la vita del Pastore Buono con le sue pecore; vita di unità e reciproca perfetta sensibilità. Le pecore ascoltano, ovvero accolgono ed obbediscono docilmente alla Parola del loro Pastore. Il Pastore inoltre le conosce, verbo nuziale e della piena unione affettiva e vitale. Il Pastore poi conduce le pecore ed esse Lo seguono, sapendo che le guiderà ai pascoli della vita (cf Sal 22).
Gesù battezzato e trasfigurato ha espletato la prima parte del suo Programma battesimale nello Spirito: annunciare l’Evangelo del Regno e attuare le opere del Regno. Ora è giunto a Gerusalemme, la città del Grande Re, dove si deve consumare il suo destino, la Croce per la gloria della Resurrezione.
Lo schema di Matteo ci aiuta a ricostruire il contesto della pericope. Dopo l’ingresso messianico (21,1-11), Gesù si era qualificato come riformatore definitivo della vita cultuale del nuovo popolo di Dio, rivendicando al tempio la sua funzione di luogo di preghiera (cfr. 21,12-17).
Ma la città resta incredula (21,10) e i capi del popolo si mostrano ostili (21,15); la loro presenza di increduli e avversari sarà infatti un motivo costante nei brani successivi.
Con il dibattito circa l’autorità di Giovanni (21,23-32) Matteo presenta la prima di cinque controversie tra Gesù e i suoi avversari a Gerusalemme. Lo sfondo di questi due testi (21,23-27.28-32) è l’entusiasmo popolare suscitato da Giovanni il Battista. G. Flavio (vedi Aut. 18,118) lo descrive così: «Quando altri si unirono alla folla che lo seguiva, perché erano presi dall’entusiasmo al massimo grado per le sue prediche, Erode ne fu allarmato. Un’eloquenza che aveva un così grande effetto sulla gente poteva portare a qualche sorta di sedizione, perché sembrava che si facessero guidare da Giovanni in tutto quello che facevano».
I capi dei sacerdoti e gli anziani erano quelli che rappresentavano la dirigenza giudaica a Gerusalemme, con il Tempio per suo centro simbolico. Questi affiancavano i funzionari romani ed Erode Antipa nel mantenere la pace e la sicurezza della popolazione. Il movimento di Giovanni per loro costituiva non solo una minaccia religiosa (perché non era incentrato attorno al Tempio) ma anche una minaccia politica (perché rischiava di sfuggire a ogni controllo). Per questo si mostravano riluttanti ad ammettere che il battesimo di Giovanni «veniva dal cielo» (perché avrebbe guastato i loro rapporti con i Romani e con Erode Antipa). D’altra parte non potevano liquidarlo in pubblico come una pura invenzione umana (perché evidentemente godeva grande stima tra la popolazione).
Matteo vuol presentare il definitivo regolamento di conti tra Gesù e il giudaismo rappresentato dai suoi responsabili più qualificati. Scendono in campo un pò tutti: gli alti funzionari del tempio (21,15.23.45), i maestri della legge (21,15), l’aristocrazia laica, cioè i notabili del popolo (21,23), i farisei (21.45: 22,15.34.41), gli erodiani (22,16), i sadducei (22,23).
La gente invece lo ritiene un profeta (21,46; cfr. 21,11) ed è entusiasta del suo insegnamento (22,33). Dal punto di vista strutturale si impone all’attenzione la serie di cinque controversie, che oppongono Cristo ai capi del popolo sul terreno religioso e politico. In particolare la discussione si accende intorno all’autorità da lui rivendicata nella cacciata dei mercanti dal tempio (21,23-27), la legittimità dell’imposta da pagare all’imperatore romano (22,15-22), la resurrezione dei morti (22,23-33), il più importante comandamento (22,34-40) e infine la questione sul figlio di Davide (22,41-46). Gesù ne esce sempre vittorioso perché: «Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno, da quel giorno in poi, osò interrogarlo» (22,46).
All’incredulità e al rifiuto delle autorità gerosolimitane risponde il giudizio di Dio che pende, come definitiva condanna, sulla città e i suoi responsabili. La sequenza di tre parabole, la prima è letta questa domenica, la seconda e la terza verranno proclamate nelle prossime domeniche, sviluppa questo motivo polemico: i capi increduli vengono paragonati al figlio disobbediente al padre (21,28-32), ai vignaioli omicidi (21,33-46), agli invitati d’obbligo che, rifiutando di partecipare al festino di nozze, ne sono definitivamente esclusi (22,1-14). In tal contesto il brano della maledizione del fico sterile (21,18-22), inserito tra la purificazione del tempio e la prima controversia, conserva l’originario significato simbolico di immagine del popolo incredulo e perciò condannato alla rovina.
I giudei hanno rifiutato il loro messia e perciò si sono allontanati da Dio; il loro posto è stato preso ancora (cf libri profetici) da coloro che credono, qui rappresentati dai discepoli di Gesù. Gesù prosegue poi ad insegnare (sino a tutto il cap. 25) con gli ultimi due grandi discorsi: le invettive contro i farisei (5°) e il "discorso escatologico" (6°). Volutamente è stato ampliato il contesto del brano in considerazione del fatto che è il terreno su cui cammineremo sino alla conclusione dell’anno liturgico.
I lettura: Ez 18,25-28
Liberi e responsabili - Quante volte, di fronte all'ingiustizia e alla cattiveria presenti nel mondo, ci siamo rivoltati contro Dio! Quante volte abbiamo esclamato: Se Dio fosse giusto, non dovrebbe permetterlo! Noi mettiamo Dio sotto accusa, ma egli rimanda a noi il rimprovero: «Voi siete responsabili, perché liberi». Attraverso esperienze drammatiche, il popolo di Dio a poco a poco ha preso coscienza dell'importanza della libertà e del rischio che essa comporta. Tale scoperta della responsabilità ci permette di non cadere nel fatalismo o nell'infantilismo, così spesso rimproverati ai credenti.
Il Signore aveva manifestato al Profeta, affinché la dichiarasse al popolo prevaricatore, la sua Volontà di salvezza, non di morte, in favore dell'empio: «che si converta e viva» (v. 23). Ma guai al giusto che seguisse le vie dell'empio, egli morirà (v. 24).
Questo è l’avviso del Signore che mette tutti in guardia! Allora, come contestare ancora al Signore che le «Vie sue», il suo modo di agire, non sono rette (v. 29; 33,17.20)? Il Signore reagisce con violenza e controcontesta, instaurando così il giudizio che, se fu intentato a Lui, adesso si rovescia. E così investe tutto il suo popolo, la «casa d'Israele», con la sentenza finale: «Ascolta adesso!» Non è retta la via sua, o quella del popolo? (v. 25). Ma se il giusto diventa peccatore impenitente e muore, di chi è la colpa, se non sua propria, egli che conosceva la fine che lo attendeva? (v. 26; v. 24). Al contrario, l'iniquo che si converte e diventa giusto e osservante della divina Volontà, vive ormai secondo questa Volontà di vita che così decreta (vv. 5.21; 33,14.19; Is 1,16-18; 55,7; Ger 18,18), e che è stata annunciata prima, così che nessuno possa ignorarla (v. 27). Poiché l'iniquo nel suo ravvedimento ha meditato sul proprio stato mortale, si è spaventato, non vuole morire, ha scartato la sua via dalle colpe passate che non farà più, si è convertito alla Vita divina (v. 14). E allora, come non vivrà di questa Vita che ormai ha accettato? (v. 28; vv. 9.17). Il giusto che cade nell'empietà non terrà più presente la proclamazione suprema, che il Signore non gode della morte di chi muore. Anzi, Egli con Parola solenne chiama alla Vita: «Convertitevi, e vivrete!» (v. 32, v. 23).
Il Salmo responsoriale: 24,4be-5.6-7.8-9, Supplica individuale (SI)
Il Versetto responsorio: «Ricòrdati, Signore, della tua misericordia » (v. 6a), insiste nel chiedere epicleticamente che il Signore faccia memoriale delle sue infinite misericordie. L'Orante si è posto sulle Vie del Signore e le accetta. Però vuole che Lui si ponga quale unico divino Maestro, in permanenza, per seguitare a insegnargliele (5,9; 26,11; 85,11; 118,12.33; 142,8), per timore che possa smarrirle (v. 4). Anzi, gli chiede con epiclesi che Egli stesso venga a lui per essere il suo Condottiero sicuro nella Fedeltà divina, e nella sapienza della dottrina divina (85,11; Sir 37,19). La fede così espressa riposa sulla sua esperienza, che ha sperimentato la salvezza offerta di continuo dal Signore, e adesso può anche ricordargli che Lo ha tenuto presente nella sua esistenza, «tutto il giorno», sempre (v. 5).
Nel tumulto dei pensieri dell'Orante si inseguono gli interventi quasi senza un ordine coerente, la supplica epicletica si riaffaccia con insistenza; adesso egli chiede al Signore di ricordarsi, ossia di tenere presenti per attuarle la sua pietà e la sua misericordia, che sono concesse in eterno (88,50; 102,17). Su questo spera l'Orante (v. 6), per chiedere che al contrario il Signore «si dimentichi», ossia ponga in non essere i suoi peccati trascorsi, ieri, quando era ancora nella immaturità quanto al senso di Dio (Gb 13,26; 20,11; Ger 3,35), nell'ignavia dell'ignoranza (Sir 23,3), come adesso non avverrebbe più (v. 7a). Invece spera che il Signore, la cui Bontà è perenne, faccia memoriale di lui, gli doni un'esistenza propizia conforme alla divina Misericordia (v. 7bc).
Il pensiero va dalla sua condizione attuale al suo Signore. L'Orante proclama che il Signore è tanto soave nel tratto, quanto giusto nel comportarsi (99,4), e per questo si degna perfino di insegnare ai peccatori le vie della sua Legge santa (v. 12; 31,8; 72,24; Pr 4,11), senza cui essi sarebbero perduti (v. 8). Non solo, ma viene a farsi Condottiero sicuro dei mansueti, e insegna anche ai miti le sue sante Vie, così che questi si lascino condurre fino a Lui (v. 9).
Ritorniamo alla parabola dei due figli, ossia: precedenza dei pubblicani e delle meretrici nel regno dei cieli. É la prima delle «parabole di rottura» ed è propria del primo evangelista. II racconto parabolico, privo di colore e di particolari, è incentrato sulla contrapposizione dei due figli: contrapposizione di risposte e di comportamenti. Di fatto essi rappresentano emblematicamente due tipi di risposta, cioè l’assenso puramente verbale che non passa all’azione e l’adesione operativa preceduta dal diniego verbale.
Non è possibile ingannarsi: dietro all’invito a lavorare nella vigna del padre, c’è la chiamata di tutti gli uomini al regno di Dio. «Il primo ha compiuto la volontà del padre», costatano gli ascoltatori di Gesù. Dunque hanno capito. E anche noi dovremmo aver capito, di fronte a una parabola in cui si specchia con terribile chiarezza la nostra vita: i nostri sì che assomigliano tanto a dei no, i nostri buoni motivi per non fare troppo, il nostro disimpegno, la nostra pigrizia. L’obbedienza si esprime attraverso gesti concreti, e non semplicemente attraverso un «sì» o un «amen». «Fare la volontà del Padre» non significa stare fermi, ben installati nella propria buona coscienza, ma significa piuttosto pentirsi del proprio rifiuto e lavorare alla realizzazione del Regno.
Bisogna che ci guardiamo in questo specchio, noi battezzati di vecchia data, e bisogna che si guardi in questo specchio la nostra chiesa antica di venti secoli, la nostra chiesa d’occidente così ricca di denaro, di tradizioni e di cultura. I pubblicani e i peccatori rischiano ancora di precederci nel regno, perché c’erano più promesse e più futuro nel figlio che diceva «no» e poi, convertito, andava a lavorare nella vigna, che in quello che diceva «sì» fin dall’inizio, e poi si fermava alle parole.
Esaminiamo il brano
21,23 «In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo»: Il brano liturgico inizia con una frase redazionale che non c’è nel testo evangelico. Giustamente il Lezionario include nella pericope proclamata il v. 23 che ci ricorda come Gesù stia parlando ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo. Sono questi i rappresentanti ufficiali del popolo e i maestri della fede; sono coloro che dovevano vigilare come sentinelle sul popolo in attesa del messia.
I capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo rimproverano il giovane maestro di Galilea e gli chiedono conto del suo gesto di cacciare i mercanti dal tempio, compiuto senza alcuna autorità. In sostanza gli chiedono: «Perché fai queste cose, come se avessi il potere di comandare e riformare la struttura religiosa? Chi ti credi di essere? Chi ti ha dato questa autorità?».
Abilmente Gesù non risponde direttamente, ma pone un’altra questione relativa al battesimo amministrato da Giovanni: chiede la loro opinione riguardo all’origine di quella predicazione e li invita ad esprimere chiaramente la loro opinione prò o contro il Battista. I capi si accorgono che la domanda è imbarazzante: comunque rispondano, finiscono per compromettersi. Se ammettono che la provenienza del battesimo di Giovanni era il cielo, cioè Dio stesso, finiscono per riconoscersi peccatori dal momento che non gli hanno creduto; se invece sconfessano il Battista e lo proclamano un impostore che si è inventato tutto, si mettono contro il popolo che invece lo stimava come un profeta di Dio. Non vogliono compromettersi e quindi gli dicono di non saperlo, cioè gli negano una risposta.
A gente simile, che non vuole esporsi e non ha il coraggio di prendere posizione Gesù nega qualunque precisazione sulla propria autorità: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose» (21,27).
v. 28 «Che ve ne pare?»: Subito dopo, senza soluzione di continuità si trovano le tre parabole, introdotte da una nuova domanda: «Che ve ne pare?». Per l’esegesi di questi testi ribadiamo ancora che è opportuno considerare bene il contesto polemico in cui sono inseriti, perché aiuta a comprendere l’intenzione di Gesù nei confronti dei primi destinatari, i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo.
La domanda di Gesù è dunque una formula introduttiva, propria di Matteo che fa da nesso con quanto precede; Gesù comincia con il chiedere il parere dei presenti, tra i quali abbiamo ricordato stanno sacerdoti ed anziani (cfr. v. 23).
Altre volte Gesù ha chiesto il parere di Pietro (17,25) e dei discepoli (18,12).
Tutti e tre i Sinottici mettono al centro di questi discorsi polemici la parabola dei vignaioli omicidi. Solo l’evangelista Matteo ne aggiunge altre due, una prima e una dopo, cosicché nel suo racconto troviamo tre parabole di seguito: tali aggiunte servono per ampliare la riflessione sul rifiuto. Sono tre storie di fallimento, di ribellione e di rinuncia. È possibile riconoscere nella redazione di Matteo l’intento di distinguere tre sfumature di rifiuto secondo varie fasi storiche:
1. la parabola dei due figli (21,28-32) fa piuttosto riferimento alla preparazione del tempo di Gesù con l’esplicita menzione di Giovanni Battista;
2. la parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46 // Mc 12,1-12 // Lc 20,9-19), incentrata sulla sorte del figlio gettato fuori dalla vigna e ucciso, parla proprio della vicenda di Gesù;
3. la parabola degli invitati (22,1-14) sembra alludere alle vicende degli apostoli nel tempo dopo Cristo, giacché narra come quelli mandati a invitare alle nozze siano stati disprezzati, bastonati e uccisi.
La storia del rifiuto precede Gesù, riguarda Gesù in persona, continua anche dopo Gesù. Di questo rifiuto sono responsabili proprio i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo; a loro Gesù sta parlando col metodo parabolico, che mira a creare dialogo e indurre un interlocutore a prendere posizione, esprimendo un proprio giudizio. L’abilità del narratore consiste nel fare in modo che l’ascoltatore non si renda conto di essere coinvolto nella storia, così da giudicare il fatto come se gli fosse estraneo, mentre alla fine viene indotto a formulare una sentenza proprio su di sé. Gesù adopera questo genere letterario per portare i suoi avversari a riconoscere il dramma del loro rifiuto, fatto che difficilmente avrebbero accettato solo con discussioni teoriche. Ecco perché inizia domandando: «Che ve ne pare?». Gesù narra una breve scenetta di vita familiare che, in apparenza, non c’entra nulla con le questioni teologiche che stanno trattando: perciò chiede ai suoi interlocutori di formulare un loro giudizio su una simile vicenda.
«Un uomo…»: L’inizio (Un uomo aveva due figli...) è molto simile alla parabola del figlio prodigo che è riportata da Luca: probabilmente ci troviamo di fronte ad un medesimo racconto di Gesù, ripetuto più volte e con differenti sfumature. L’idea di fondo è la stessa: due figli si comportano in modo diverso nei confronti del padre; quello disobbediente si pente e cambia, mentre quello che sembra obbediente, di fatto non lo è.
«due figli»: Un uomo che è un ricco proprietario, ha due figli. Al primo si rivolge con il dolce nome di «figlio» (téknon) e l’invita a recarsi «oggi» (sémeron) nella «vigna». La parola che il padre rivolge al primo rappresenta la vocazione di ogni persona umana: «Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna». All’inizio di tutto c’è l’esperienza di figliolanza e di paternità divina; dalla consapevolezza di essere profondamente legati da affetto e da natura nasce la missione. Dopo il vocativo c’è l’imperativo: «Va’». Mette in moto, chiede una dinamica, un impegno. E lo chiede adesso, non domani!
La vigna è l’immagine usuale con cui la letteratura profetica presenta la casa d’Israele (cfr. Sal 80,9ss; Is 5,1, che sono il salmo e la I lett. della Dom. XXVII per annum A. Non dice «mia», poiché è anche dei figli, è dunque interesse loro prestarvi opera; essi lo sanno bene.
«lavorare nella vigna»: L’espressione è figura significativa, che va al di là delle operazioni pratiche dei viticultori. Tale espressione nel linguaggio biblico indica una relazione di affetto e di amore: infatti la vocazione fondamentale dell’uomo è essere in buona relazione con Dio, coltivare l’amicizia e far crescere la somiglianza.
VV. 29-30 A questo punto dobbiamo ricordare una importante variazione testuale: la nuova traduzione CEI (2008), rispettando il testo greco del codice Sinaitico, propone per primo il figlio che dice di "no" e per secondo quello che dice di "sì". Molti però ricorderanno che la precedente versione CEI (1971), seguendo il testo del codice Vaticano, adoperava l’ordine inverso. Non è facile stabilire quale delle due versioni sia quella originale, ma è possibile che quest’ultimo ordine sia frutto di una correzione ad opera di qualche copista che ha voluto farlo coincidere con la sequenza di Luca nella sua parabola dei due figli.
La risposta del primo figlio è lapidaria: «Non voglio». È un rifiuto esplicito e netto. Ma non definitivo. In seguito infatti avviene un cambiamento; è il figlio stesso che muta («essendo cambiato») e va a fare quello che prima non voleva.
Pentitosi poi per la comprensione dell’affronto arrecato alla bontà del padre, andò nella vigna (cfr. v. 32; 12,41 ), affronta quindi il suo dovere, si carica del «peso e calore» della giornata, come il buon operaio. Determinante è proprio questo evento, “il pentimento”, che segna una trasformazione e una novità di atteggiamento.
Tutto si ripete per il secondo figlio, che risponde in modo analogamente lapidario, ma contrario. Traducendo letteralmente il testo greco, egli dice: «Io, signore». Anziché adoperare la particella "sì", impiega un enfatico pronome personale e mette il proprio "io" in bella mostra, chiamando il padre "signore" con una specie di stereotipo liturgico. Ma - annota il narratore - di fatto non andò.
«pentitosi»: in gr. metamélomai ; ricorda la predicazione del Battista (cfr. v. 31-32 ma anche 3,2) e la prima predicazione di Gesù, iniziata proprio con un appello alla conversione (cf 3,17; Mc 1,14-15).
Ancora riguardo al «figlio finto-obbediente» notiamo che mentre il padre l`ha chiamato: Figlio, lui ha risposto chiamandolo: "Signore"; non lo ha chiamato: Padre, e non ha adempiuto la sua parola (cf Efrem, Diatessaron, XVI, 18). Come non ricordare ancora la parabola di Luca del Padre misericordioso e prodigo d’amore (15,11-32) dove il figlio “disobbediente”e scapestrato rinuncia alla paternità e vuole essere schiavo per la pagnotta e il “figlio obbediente e rispettoso” che non lo ha mai riconosciuto come Padre ma ha sempre visto un padrone vive da schiavo.
v. 31 «Chi dei due ha fatto la volontà del padre?» La parabola è finita; si tratta ora di giudicare e valutare. La storia brevissima è finita, si tratta di tirarne le conseguenze. Gesù aveva già chiesto in partenza «Che ve ne pare?»; adesso formula in modo più preciso la domanda: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Gli interlocutori senza esitazione riconoscono che contano le azioni concrete piuttosto che le dichiarazioni di intenti. Anche in questa risposta si ripropone lo stesso problema testuale: il codice Sinaitico (seguito dalla traduzione del 2008) legge «il primo», mentre il codice Vaticano (scelto dalla versione del 1971) riporta «l’ultimo». Nell’insieme il senso non cambia.
É la stessa parabola che spinge a compromettere gli ascoltatori perché prendano posizione in merito; sono posti di fronte all’alternativa e danno una risposta (quella risposta che non avevano voluto dare sul battesimo di Giovanni). Non vi è dubbio. L’obbedienza non è fatta di parole sterili e disimpegnate ma di fatti concreti e precisi (ricorda il fico sterile, 21,18-22). Tutta la tradizione ebraica lo stava a dimostrare; gli ascoltatori non hanno difficoltà a dare la risposta esatta. Una risposta compromettente; Gesù è riuscito a metterli con le spalle al muro, strappando ad essi un giudizio di condanna.
La risposta delle autorità giudaiche coincide con l’insegnamento di Gesù: «Non chi dice "Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio» (Mt 7,21). Giudicando dall’esterno una vicenda che non li riguarda, dimostrano di capire che è necessario fare la volontà del Padre e non accontentarsi delle parole. Quello che non hanno capito è di essere parte della storia, perché il giudizio corretto da loro formulato si ritorce contro la loro ostilità a Gesù.
«In verità ...» (amèn) Gesù incalza. Parla parole solenni, con la formula solita. Il contenuto è duro: gli ascoltatori saranno preceduti nel Regno dalle due categorie di «peccatori» per eccellenza, i pubblicani e le prostitute (cfr. 9,9; 11,19; 19,30; 20,16).
Discorso paradossale in apparenza (cfr. I lett.) ma che si fonda su due motivi inderogabili:
1) il Padre vuole che nessuno si perda;
2) avere fede nella «via della giustizia».
Come esempi si possono leggere la vocazione di Matteo (9,9) e la prostituta che unge i piedi del maestro (Lc 7,36-50). Invece i presenti né credettero alla «via della giustizia», né, vedutala in atto in Cristo, pentiti alla fine, adesso, hanno fede.
Il brano profetico, connesso con questa parabola evangelica, è tratto da un importante capitolo di Ezechiele (Ez 18,25-28), che affronta il problema della responsabilità collettiva e personale. Sacerdote esiliato in Babilonia, Ezechiele fu chiamato ad essere profeta per guidare il gruppo degli esuli e risvegliare la loro coscienza. Di fronte alla catastrofe della distruzione di Gerusalemme e la deportazione del popolo, fra i pochi superstiti serpeggiava disperazione e sfiducia nel Signore, ma anche atteggiamenti polemici che recriminavano contro di lui, affermando che il suo modo di agire non era retto.
Il profeta dunque ritorce contro la casa d’Israele l’accusa di seguire una condotta non retta e di sbagliarsi gravemente nel giudizio; perciò spiega la via del Signore, cioè il suo modo di agire. Sostiene anzitutto che non è Dio ad aver provocato i castighi quale punizione per le colpe commesse dal popolo, mentre ribadisce che il peccato stesso è una scelta che conduce al fallimento e alla morte: la rovina è intrinseca al rifiuto di Dio. Così Ezechiele, sostenendo che ciascuno è responsabile delle proprie azioni e non di quelle di suo padre o di suo figlio, prospetta pure una retribuzione strettamente personale, legata alle scelte di ciascuno.
Il contesto liturgico in cui è inserito questo breve passo del testo profetico ci orienta a insistere su quest’ultimo aspetto: se un peccatore riflette sul proprio stato, lo riconosce errato e cambia, allontanandosi dalle proprie colpe e impegnandosi a fare il bene, certamente vivrà e non morirà. Gesù intende dire che i grandi peccatori entrano nel regno prima delle autorità religiose: non perché sono peccatori, ma perché sono cambiati e possono così accogliere il regno. Coloro che aspettavano il Messia, proprio i capi religiosi, che sembravano naturalmente portati ad accogliere la sua venuta, si sono irrigiditi nel rifiuto; al contrario, quelli che sembravano lontani, perché peccatori, hanno accolto la buona notizia e sono cambiati. Per entrare nel regno di Dio bisogna cambiare! Ecco l’applicazione del particolare decisivo: bisogna pentirsi, è necessario rendersi conto di essere sulla strada sbagliata e cambiare. I pubblicani e le prostitute, proprio perché si sono pentiti e hanno creduto alla predicazione di Giovanni, possono entrare nel Regno di Dio.
v. 32 «Venne infatti a voi Giovanni...»: Gesù applica questo principio generale alla situazione di Giovanni Battista che lo ha preceduto, mettendo in evidenza due diversi atteggiamenti nei suoi confronti: in tal modo diventa chiaro il collegamento con la precedente questione che i capi non avevano voluto affrontare con un giudizio esplicito.
Molti autori concordano nell’attribuire questo versetto alla redazione di Matteo che intende così collegare la parabola sia a Gesù che a Giovanni Battista di cui si è parlato poco prima: il rifiuto di Giovanni è altresì il rifiuto di Gesù.
La parabola originaria di Gesù doveva concludersi al v. 31.
«via della giustizia»: tutto il messaggio biblico può definirsi come l’accorato invito di Dio all’uomo peccatore perché si allontani dal male e ricerchi il bene.
La conversione secondo la Bibbia è infatti un vero e proprio cambiamento di direzione [cfr. ad es. la preghiera di Salomone all’inaugurazione del tempio di Gerusalemme (1 Re 8,33); Salomone invoca il perdono per il popolo «se ritornerà» a Lui].
Altro esempio tratto dalla predicazione profetica è di Amos: «Cercate il bene e non il male, sicché possiate trovare la vita. Odiate il male, amate il bene... Forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe» (Am 5,14-15).
Tale il senso della predicazione del Battista: «Preparate le sue vie...»; per questo l’appello di Giovanni alla conversione lasciò un’eco profonda negli animi, tanto che le «folle» accorsero a lui a ricevere il battesimo di «penitenza» e, in mezzo ad essi, non mancarono pubblicani e soldati (cfr. Lc 3,12.14).
Non diversa fu la missione di Cristo: come già il suo precursore, fin dall’inizio del suo ministero egli fece udire dappertutto il suo invito alla conversione (4,17).
Egli è «venuto a chiamare i peccatori a penitenza» (Lc 5,32).
Ma perché il messaggio di conversione non rimanga senza risposta, ha bisogno di trovare un terreno ben preparato (cfr. 13,8).
É necessario che cada in cuori che, profondamente consapevoli della propria colpevolezza, ricercando la giustizia, cerchino sinceramente Dio (cfr. Is 51,1) e in novità di spirito vogliano «far ritorno» a lui (cfr. Ger 24,7).
Tali si mostrarono i pubblicani e le prostitute.
II Colletta
O Padre,
sempre pronto ad accogliere
pubblicani e peccatori
appena si dispongono a pentirsi di cuore,
tu prometti vita e salvezza
a ogni uomo che desiste dall’ingiustizia:
il tuo Spirito ci renda docili alla tua parola
e ci doni gli stessi sentimenti
che sono in Cristo Gesù.
Egli è Dio...
Fonte:http://www.catechistaduepuntozero.it
«DELLA PARABOLA DEI DUE FIGLI E DELLA VIGNA»
XXVI Dom. Tempo Ordinario A
Mt 21,28-32; Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11 (forma breve 2,1-5 da non preferire!)
La parabola parla di due figli che hanno un comportamento molto diverso nei confronti del
padre: il primo dice «sì», ma non fa nulla; il secondo dice «no», poi si pente e obbedisce. Bisogna che ci guardiamo in questo specchio noi battezzati di vecchia data. I pubblicani e i peccatori rischiano ancora di precederci nel regno. Non si sottolineerà mai abbastanza la misteriosa simpatia di Gesù per i caratteri forti, poco inclini a sottomettersi immediatamente all'obbedienza della fede. Forse intuiva le ricchezze segrete dei cuori ribelli e le loro possibilità di autentica conversione; o forse si ricordava di Giobbe e provava disgusto, come dice l'Apocalisse, per gli uomini tiepidi, né freddi né caldi (Ap 3,16). La parabola dei due figli è significativa a questo proposito. Non è possibile ingannarsi: dietro all'invito a lavorare nella vigna del padre, c'è la chiamata di tutti gli uomini al regno di Dio. «Il secondo ha compiuto la volontà del padre», costatano gli ascoltatori di Gesù. Dunque hanno capito. E anche noi dovremmo aver capito, di fronte a una parabola in cui si specchia con terribile chiarezza la nostra vita: i nostri sì che assomigliano tanto a dei no, i nostri buoni motivi per non fare troppo, il nostro disimpegno, la nostra pigrizia. L'obbedienza si esprime attraverso gesti concreti, e non semplicemente attraverso un «sì» a parole. «Fare la volontà del Padre» non significa stare fermi, ben installati nella propria buona coscienza, ma significa piuttosto pentirsi del proprio rifiuto e lavorare alla realizzazione del Regno.
Bisogna davvero dunque che ci guardiamo in questo specchio, noi battezzati di vecchia data, e bisogna che si guardi in questo specchio la nostra chiesa antica di venti secoli, la nostra chiesa d'occidente così ricca di denaro, di tradizioni e di cultura. I pubblicani e i peccatori rischiano ancora di precederci nel regno, perché c'erano più promesse e più futuro nel figlio che diceva «no» e poi, convertito, andava a lavorare nella vigna, che in quello che diceva «sì» fin dall'inizio, e poi si fermava alle parole.
Antifona d’Ingresso Dn 3,31.29.30.43.42
Signore, tutto ciò che hai fatto ricadere su di noi
l’hai fatto con retto giudizio;
abbiamo peccato contro di te,
non abbiamo dato ascolto ai tuoi precetti;
ma ora glorifica il tuo nome e opera con noi
secondo la grandezza della tua misericordia.
L’antifona d’ingresso, una composizione di versetti dal libro di Dan 3,31.29a.30a.43b.42b, è desunta dalla grande «confessione d’Azaria» (Dan 3,26-46). Il giovane, nella fornace con Anania e Misael per avere rifiutato di adorare la statua di Nabucodònosor, rivolge la confessione al suo Signore. Egli Lo riconosce come giusto quando punisce, e confessa anche il peccato di tutto il popolo, da cui non si desolidarizza, in specie per non avere obbedito ai precetti divini salvifici (vv. 31.29a.30a), che sono ordinati alla sola felicità di questo popolo (v. 30b). Nonostante il fatto, con umile sincerità, adesso l’orante chiede al Signore che proprio in questo momento di prova Egli glorifichi il Nome suo, manifestandolo con opere potenti (v. 43b), secondo l’operazione della sua immensa Misericordia, a cui si impegnò con l’alleanza. Si ha qui un’alta supplica epicletica (v. 42b), che oggi i fedeli nella celebrazione fanno propria, come sempre.
Canto all’Evangelo (Gv 10,27)
Alleluia, alleluia.
Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore,
io le conosco ed esse mi seguono.
Alleluia.
Il versetto dell’alleluia all’evangelo ci dà come chiave interpretativa della nostra pericope la vita del Pastore Buono con le sue pecore; vita di unità e reciproca perfetta sensibilità. Le pecore ascoltano, ovvero accolgono ed obbediscono docilmente alla Parola del loro Pastore. Il Pastore inoltre le conosce, verbo nuziale e della piena unione affettiva e vitale. Il Pastore poi conduce le pecore ed esse Lo seguono, sapendo che le guiderà ai pascoli della vita (cf Sal 22).
Gesù battezzato e trasfigurato ha espletato la prima parte del suo Programma battesimale nello Spirito: annunciare l’Evangelo del Regno e attuare le opere del Regno. Ora è giunto a Gerusalemme, la città del Grande Re, dove si deve consumare il suo destino, la Croce per la gloria della Resurrezione.
Lo schema di Matteo ci aiuta a ricostruire il contesto della pericope. Dopo l’ingresso messianico (21,1-11), Gesù si era qualificato come riformatore definitivo della vita cultuale del nuovo popolo di Dio, rivendicando al tempio la sua funzione di luogo di preghiera (cfr. 21,12-17).
Ma la città resta incredula (21,10) e i capi del popolo si mostrano ostili (21,15); la loro presenza di increduli e avversari sarà infatti un motivo costante nei brani successivi.
Con il dibattito circa l’autorità di Giovanni (21,23-32) Matteo presenta la prima di cinque controversie tra Gesù e i suoi avversari a Gerusalemme. Lo sfondo di questi due testi (21,23-27.28-32) è l’entusiasmo popolare suscitato da Giovanni il Battista. G. Flavio (vedi Aut. 18,118) lo descrive così: «Quando altri si unirono alla folla che lo seguiva, perché erano presi dall’entusiasmo al massimo grado per le sue prediche, Erode ne fu allarmato. Un’eloquenza che aveva un così grande effetto sulla gente poteva portare a qualche sorta di sedizione, perché sembrava che si facessero guidare da Giovanni in tutto quello che facevano».
I capi dei sacerdoti e gli anziani erano quelli che rappresentavano la dirigenza giudaica a Gerusalemme, con il Tempio per suo centro simbolico. Questi affiancavano i funzionari romani ed Erode Antipa nel mantenere la pace e la sicurezza della popolazione. Il movimento di Giovanni per loro costituiva non solo una minaccia religiosa (perché non era incentrato attorno al Tempio) ma anche una minaccia politica (perché rischiava di sfuggire a ogni controllo). Per questo si mostravano riluttanti ad ammettere che il battesimo di Giovanni «veniva dal cielo» (perché avrebbe guastato i loro rapporti con i Romani e con Erode Antipa). D’altra parte non potevano liquidarlo in pubblico come una pura invenzione umana (perché evidentemente godeva grande stima tra la popolazione).
Matteo vuol presentare il definitivo regolamento di conti tra Gesù e il giudaismo rappresentato dai suoi responsabili più qualificati. Scendono in campo un pò tutti: gli alti funzionari del tempio (21,15.23.45), i maestri della legge (21,15), l’aristocrazia laica, cioè i notabili del popolo (21,23), i farisei (21.45: 22,15.34.41), gli erodiani (22,16), i sadducei (22,23).
La gente invece lo ritiene un profeta (21,46; cfr. 21,11) ed è entusiasta del suo insegnamento (22,33). Dal punto di vista strutturale si impone all’attenzione la serie di cinque controversie, che oppongono Cristo ai capi del popolo sul terreno religioso e politico. In particolare la discussione si accende intorno all’autorità da lui rivendicata nella cacciata dei mercanti dal tempio (21,23-27), la legittimità dell’imposta da pagare all’imperatore romano (22,15-22), la resurrezione dei morti (22,23-33), il più importante comandamento (22,34-40) e infine la questione sul figlio di Davide (22,41-46). Gesù ne esce sempre vittorioso perché: «Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno, da quel giorno in poi, osò interrogarlo» (22,46).
All’incredulità e al rifiuto delle autorità gerosolimitane risponde il giudizio di Dio che pende, come definitiva condanna, sulla città e i suoi responsabili. La sequenza di tre parabole, la prima è letta questa domenica, la seconda e la terza verranno proclamate nelle prossime domeniche, sviluppa questo motivo polemico: i capi increduli vengono paragonati al figlio disobbediente al padre (21,28-32), ai vignaioli omicidi (21,33-46), agli invitati d’obbligo che, rifiutando di partecipare al festino di nozze, ne sono definitivamente esclusi (22,1-14). In tal contesto il brano della maledizione del fico sterile (21,18-22), inserito tra la purificazione del tempio e la prima controversia, conserva l’originario significato simbolico di immagine del popolo incredulo e perciò condannato alla rovina.
I giudei hanno rifiutato il loro messia e perciò si sono allontanati da Dio; il loro posto è stato preso ancora (cf libri profetici) da coloro che credono, qui rappresentati dai discepoli di Gesù. Gesù prosegue poi ad insegnare (sino a tutto il cap. 25) con gli ultimi due grandi discorsi: le invettive contro i farisei (5°) e il "discorso escatologico" (6°). Volutamente è stato ampliato il contesto del brano in considerazione del fatto che è il terreno su cui cammineremo sino alla conclusione dell’anno liturgico.
I lettura: Ez 18,25-28
Liberi e responsabili - Quante volte, di fronte all'ingiustizia e alla cattiveria presenti nel mondo, ci siamo rivoltati contro Dio! Quante volte abbiamo esclamato: Se Dio fosse giusto, non dovrebbe permetterlo! Noi mettiamo Dio sotto accusa, ma egli rimanda a noi il rimprovero: «Voi siete responsabili, perché liberi». Attraverso esperienze drammatiche, il popolo di Dio a poco a poco ha preso coscienza dell'importanza della libertà e del rischio che essa comporta. Tale scoperta della responsabilità ci permette di non cadere nel fatalismo o nell'infantilismo, così spesso rimproverati ai credenti.
Il Signore aveva manifestato al Profeta, affinché la dichiarasse al popolo prevaricatore, la sua Volontà di salvezza, non di morte, in favore dell'empio: «che si converta e viva» (v. 23). Ma guai al giusto che seguisse le vie dell'empio, egli morirà (v. 24).
Questo è l’avviso del Signore che mette tutti in guardia! Allora, come contestare ancora al Signore che le «Vie sue», il suo modo di agire, non sono rette (v. 29; 33,17.20)? Il Signore reagisce con violenza e controcontesta, instaurando così il giudizio che, se fu intentato a Lui, adesso si rovescia. E così investe tutto il suo popolo, la «casa d'Israele», con la sentenza finale: «Ascolta adesso!» Non è retta la via sua, o quella del popolo? (v. 25). Ma se il giusto diventa peccatore impenitente e muore, di chi è la colpa, se non sua propria, egli che conosceva la fine che lo attendeva? (v. 26; v. 24). Al contrario, l'iniquo che si converte e diventa giusto e osservante della divina Volontà, vive ormai secondo questa Volontà di vita che così decreta (vv. 5.21; 33,14.19; Is 1,16-18; 55,7; Ger 18,18), e che è stata annunciata prima, così che nessuno possa ignorarla (v. 27). Poiché l'iniquo nel suo ravvedimento ha meditato sul proprio stato mortale, si è spaventato, non vuole morire, ha scartato la sua via dalle colpe passate che non farà più, si è convertito alla Vita divina (v. 14). E allora, come non vivrà di questa Vita che ormai ha accettato? (v. 28; vv. 9.17). Il giusto che cade nell'empietà non terrà più presente la proclamazione suprema, che il Signore non gode della morte di chi muore. Anzi, Egli con Parola solenne chiama alla Vita: «Convertitevi, e vivrete!» (v. 32, v. 23).
Il Salmo responsoriale: 24,4be-5.6-7.8-9, Supplica individuale (SI)
Il Versetto responsorio: «Ricòrdati, Signore, della tua misericordia » (v. 6a), insiste nel chiedere epicleticamente che il Signore faccia memoriale delle sue infinite misericordie. L'Orante si è posto sulle Vie del Signore e le accetta. Però vuole che Lui si ponga quale unico divino Maestro, in permanenza, per seguitare a insegnargliele (5,9; 26,11; 85,11; 118,12.33; 142,8), per timore che possa smarrirle (v. 4). Anzi, gli chiede con epiclesi che Egli stesso venga a lui per essere il suo Condottiero sicuro nella Fedeltà divina, e nella sapienza della dottrina divina (85,11; Sir 37,19). La fede così espressa riposa sulla sua esperienza, che ha sperimentato la salvezza offerta di continuo dal Signore, e adesso può anche ricordargli che Lo ha tenuto presente nella sua esistenza, «tutto il giorno», sempre (v. 5).
Nel tumulto dei pensieri dell'Orante si inseguono gli interventi quasi senza un ordine coerente, la supplica epicletica si riaffaccia con insistenza; adesso egli chiede al Signore di ricordarsi, ossia di tenere presenti per attuarle la sua pietà e la sua misericordia, che sono concesse in eterno (88,50; 102,17). Su questo spera l'Orante (v. 6), per chiedere che al contrario il Signore «si dimentichi», ossia ponga in non essere i suoi peccati trascorsi, ieri, quando era ancora nella immaturità quanto al senso di Dio (Gb 13,26; 20,11; Ger 3,35), nell'ignavia dell'ignoranza (Sir 23,3), come adesso non avverrebbe più (v. 7a). Invece spera che il Signore, la cui Bontà è perenne, faccia memoriale di lui, gli doni un'esistenza propizia conforme alla divina Misericordia (v. 7bc).
Il pensiero va dalla sua condizione attuale al suo Signore. L'Orante proclama che il Signore è tanto soave nel tratto, quanto giusto nel comportarsi (99,4), e per questo si degna perfino di insegnare ai peccatori le vie della sua Legge santa (v. 12; 31,8; 72,24; Pr 4,11), senza cui essi sarebbero perduti (v. 8). Non solo, ma viene a farsi Condottiero sicuro dei mansueti, e insegna anche ai miti le sue sante Vie, così che questi si lascino condurre fino a Lui (v. 9).
Ritorniamo alla parabola dei due figli, ossia: precedenza dei pubblicani e delle meretrici nel regno dei cieli. É la prima delle «parabole di rottura» ed è propria del primo evangelista. II racconto parabolico, privo di colore e di particolari, è incentrato sulla contrapposizione dei due figli: contrapposizione di risposte e di comportamenti. Di fatto essi rappresentano emblematicamente due tipi di risposta, cioè l’assenso puramente verbale che non passa all’azione e l’adesione operativa preceduta dal diniego verbale.
Non è possibile ingannarsi: dietro all’invito a lavorare nella vigna del padre, c’è la chiamata di tutti gli uomini al regno di Dio. «Il primo ha compiuto la volontà del padre», costatano gli ascoltatori di Gesù. Dunque hanno capito. E anche noi dovremmo aver capito, di fronte a una parabola in cui si specchia con terribile chiarezza la nostra vita: i nostri sì che assomigliano tanto a dei no, i nostri buoni motivi per non fare troppo, il nostro disimpegno, la nostra pigrizia. L’obbedienza si esprime attraverso gesti concreti, e non semplicemente attraverso un «sì» o un «amen». «Fare la volontà del Padre» non significa stare fermi, ben installati nella propria buona coscienza, ma significa piuttosto pentirsi del proprio rifiuto e lavorare alla realizzazione del Regno.
Bisogna che ci guardiamo in questo specchio, noi battezzati di vecchia data, e bisogna che si guardi in questo specchio la nostra chiesa antica di venti secoli, la nostra chiesa d’occidente così ricca di denaro, di tradizioni e di cultura. I pubblicani e i peccatori rischiano ancora di precederci nel regno, perché c’erano più promesse e più futuro nel figlio che diceva «no» e poi, convertito, andava a lavorare nella vigna, che in quello che diceva «sì» fin dall’inizio, e poi si fermava alle parole.
Esaminiamo il brano
21,23 «In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo»: Il brano liturgico inizia con una frase redazionale che non c’è nel testo evangelico. Giustamente il Lezionario include nella pericope proclamata il v. 23 che ci ricorda come Gesù stia parlando ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo. Sono questi i rappresentanti ufficiali del popolo e i maestri della fede; sono coloro che dovevano vigilare come sentinelle sul popolo in attesa del messia.
I capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo rimproverano il giovane maestro di Galilea e gli chiedono conto del suo gesto di cacciare i mercanti dal tempio, compiuto senza alcuna autorità. In sostanza gli chiedono: «Perché fai queste cose, come se avessi il potere di comandare e riformare la struttura religiosa? Chi ti credi di essere? Chi ti ha dato questa autorità?».
Abilmente Gesù non risponde direttamente, ma pone un’altra questione relativa al battesimo amministrato da Giovanni: chiede la loro opinione riguardo all’origine di quella predicazione e li invita ad esprimere chiaramente la loro opinione prò o contro il Battista. I capi si accorgono che la domanda è imbarazzante: comunque rispondano, finiscono per compromettersi. Se ammettono che la provenienza del battesimo di Giovanni era il cielo, cioè Dio stesso, finiscono per riconoscersi peccatori dal momento che non gli hanno creduto; se invece sconfessano il Battista e lo proclamano un impostore che si è inventato tutto, si mettono contro il popolo che invece lo stimava come un profeta di Dio. Non vogliono compromettersi e quindi gli dicono di non saperlo, cioè gli negano una risposta.
A gente simile, che non vuole esporsi e non ha il coraggio di prendere posizione Gesù nega qualunque precisazione sulla propria autorità: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose» (21,27).
v. 28 «Che ve ne pare?»: Subito dopo, senza soluzione di continuità si trovano le tre parabole, introdotte da una nuova domanda: «Che ve ne pare?». Per l’esegesi di questi testi ribadiamo ancora che è opportuno considerare bene il contesto polemico in cui sono inseriti, perché aiuta a comprendere l’intenzione di Gesù nei confronti dei primi destinatari, i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo.
La domanda di Gesù è dunque una formula introduttiva, propria di Matteo che fa da nesso con quanto precede; Gesù comincia con il chiedere il parere dei presenti, tra i quali abbiamo ricordato stanno sacerdoti ed anziani (cfr. v. 23).
Altre volte Gesù ha chiesto il parere di Pietro (17,25) e dei discepoli (18,12).
Tutti e tre i Sinottici mettono al centro di questi discorsi polemici la parabola dei vignaioli omicidi. Solo l’evangelista Matteo ne aggiunge altre due, una prima e una dopo, cosicché nel suo racconto troviamo tre parabole di seguito: tali aggiunte servono per ampliare la riflessione sul rifiuto. Sono tre storie di fallimento, di ribellione e di rinuncia. È possibile riconoscere nella redazione di Matteo l’intento di distinguere tre sfumature di rifiuto secondo varie fasi storiche:
1. la parabola dei due figli (21,28-32) fa piuttosto riferimento alla preparazione del tempo di Gesù con l’esplicita menzione di Giovanni Battista;
2. la parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46 // Mc 12,1-12 // Lc 20,9-19), incentrata sulla sorte del figlio gettato fuori dalla vigna e ucciso, parla proprio della vicenda di Gesù;
3. la parabola degli invitati (22,1-14) sembra alludere alle vicende degli apostoli nel tempo dopo Cristo, giacché narra come quelli mandati a invitare alle nozze siano stati disprezzati, bastonati e uccisi.
La storia del rifiuto precede Gesù, riguarda Gesù in persona, continua anche dopo Gesù. Di questo rifiuto sono responsabili proprio i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo; a loro Gesù sta parlando col metodo parabolico, che mira a creare dialogo e indurre un interlocutore a prendere posizione, esprimendo un proprio giudizio. L’abilità del narratore consiste nel fare in modo che l’ascoltatore non si renda conto di essere coinvolto nella storia, così da giudicare il fatto come se gli fosse estraneo, mentre alla fine viene indotto a formulare una sentenza proprio su di sé. Gesù adopera questo genere letterario per portare i suoi avversari a riconoscere il dramma del loro rifiuto, fatto che difficilmente avrebbero accettato solo con discussioni teoriche. Ecco perché inizia domandando: «Che ve ne pare?». Gesù narra una breve scenetta di vita familiare che, in apparenza, non c’entra nulla con le questioni teologiche che stanno trattando: perciò chiede ai suoi interlocutori di formulare un loro giudizio su una simile vicenda.
«Un uomo…»: L’inizio (Un uomo aveva due figli...) è molto simile alla parabola del figlio prodigo che è riportata da Luca: probabilmente ci troviamo di fronte ad un medesimo racconto di Gesù, ripetuto più volte e con differenti sfumature. L’idea di fondo è la stessa: due figli si comportano in modo diverso nei confronti del padre; quello disobbediente si pente e cambia, mentre quello che sembra obbediente, di fatto non lo è.
«due figli»: Un uomo che è un ricco proprietario, ha due figli. Al primo si rivolge con il dolce nome di «figlio» (téknon) e l’invita a recarsi «oggi» (sémeron) nella «vigna». La parola che il padre rivolge al primo rappresenta la vocazione di ogni persona umana: «Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna». All’inizio di tutto c’è l’esperienza di figliolanza e di paternità divina; dalla consapevolezza di essere profondamente legati da affetto e da natura nasce la missione. Dopo il vocativo c’è l’imperativo: «Va’». Mette in moto, chiede una dinamica, un impegno. E lo chiede adesso, non domani!
La vigna è l’immagine usuale con cui la letteratura profetica presenta la casa d’Israele (cfr. Sal 80,9ss; Is 5,1, che sono il salmo e la I lett. della Dom. XXVII per annum A. Non dice «mia», poiché è anche dei figli, è dunque interesse loro prestarvi opera; essi lo sanno bene.
«lavorare nella vigna»: L’espressione è figura significativa, che va al di là delle operazioni pratiche dei viticultori. Tale espressione nel linguaggio biblico indica una relazione di affetto e di amore: infatti la vocazione fondamentale dell’uomo è essere in buona relazione con Dio, coltivare l’amicizia e far crescere la somiglianza.
VV. 29-30 A questo punto dobbiamo ricordare una importante variazione testuale: la nuova traduzione CEI (2008), rispettando il testo greco del codice Sinaitico, propone per primo il figlio che dice di "no" e per secondo quello che dice di "sì". Molti però ricorderanno che la precedente versione CEI (1971), seguendo il testo del codice Vaticano, adoperava l’ordine inverso. Non è facile stabilire quale delle due versioni sia quella originale, ma è possibile che quest’ultimo ordine sia frutto di una correzione ad opera di qualche copista che ha voluto farlo coincidere con la sequenza di Luca nella sua parabola dei due figli.
La risposta del primo figlio è lapidaria: «Non voglio». È un rifiuto esplicito e netto. Ma non definitivo. In seguito infatti avviene un cambiamento; è il figlio stesso che muta («essendo cambiato») e va a fare quello che prima non voleva.
Pentitosi poi per la comprensione dell’affronto arrecato alla bontà del padre, andò nella vigna (cfr. v. 32; 12,41 ), affronta quindi il suo dovere, si carica del «peso e calore» della giornata, come il buon operaio. Determinante è proprio questo evento, “il pentimento”, che segna una trasformazione e una novità di atteggiamento.
Tutto si ripete per il secondo figlio, che risponde in modo analogamente lapidario, ma contrario. Traducendo letteralmente il testo greco, egli dice: «Io, signore». Anziché adoperare la particella "sì", impiega un enfatico pronome personale e mette il proprio "io" in bella mostra, chiamando il padre "signore" con una specie di stereotipo liturgico. Ma - annota il narratore - di fatto non andò.
«pentitosi»: in gr. metamélomai ; ricorda la predicazione del Battista (cfr. v. 31-32 ma anche 3,2) e la prima predicazione di Gesù, iniziata proprio con un appello alla conversione (cf 3,17; Mc 1,14-15).
Ancora riguardo al «figlio finto-obbediente» notiamo che mentre il padre l`ha chiamato: Figlio, lui ha risposto chiamandolo: "Signore"; non lo ha chiamato: Padre, e non ha adempiuto la sua parola (cf Efrem, Diatessaron, XVI, 18). Come non ricordare ancora la parabola di Luca del Padre misericordioso e prodigo d’amore (15,11-32) dove il figlio “disobbediente”e scapestrato rinuncia alla paternità e vuole essere schiavo per la pagnotta e il “figlio obbediente e rispettoso” che non lo ha mai riconosciuto come Padre ma ha sempre visto un padrone vive da schiavo.
v. 31 «Chi dei due ha fatto la volontà del padre?» La parabola è finita; si tratta ora di giudicare e valutare. La storia brevissima è finita, si tratta di tirarne le conseguenze. Gesù aveva già chiesto in partenza «Che ve ne pare?»; adesso formula in modo più preciso la domanda: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Gli interlocutori senza esitazione riconoscono che contano le azioni concrete piuttosto che le dichiarazioni di intenti. Anche in questa risposta si ripropone lo stesso problema testuale: il codice Sinaitico (seguito dalla traduzione del 2008) legge «il primo», mentre il codice Vaticano (scelto dalla versione del 1971) riporta «l’ultimo». Nell’insieme il senso non cambia.
É la stessa parabola che spinge a compromettere gli ascoltatori perché prendano posizione in merito; sono posti di fronte all’alternativa e danno una risposta (quella risposta che non avevano voluto dare sul battesimo di Giovanni). Non vi è dubbio. L’obbedienza non è fatta di parole sterili e disimpegnate ma di fatti concreti e precisi (ricorda il fico sterile, 21,18-22). Tutta la tradizione ebraica lo stava a dimostrare; gli ascoltatori non hanno difficoltà a dare la risposta esatta. Una risposta compromettente; Gesù è riuscito a metterli con le spalle al muro, strappando ad essi un giudizio di condanna.
La risposta delle autorità giudaiche coincide con l’insegnamento di Gesù: «Non chi dice "Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio» (Mt 7,21). Giudicando dall’esterno una vicenda che non li riguarda, dimostrano di capire che è necessario fare la volontà del Padre e non accontentarsi delle parole. Quello che non hanno capito è di essere parte della storia, perché il giudizio corretto da loro formulato si ritorce contro la loro ostilità a Gesù.
«In verità ...» (amèn) Gesù incalza. Parla parole solenni, con la formula solita. Il contenuto è duro: gli ascoltatori saranno preceduti nel Regno dalle due categorie di «peccatori» per eccellenza, i pubblicani e le prostitute (cfr. 9,9; 11,19; 19,30; 20,16).
Discorso paradossale in apparenza (cfr. I lett.) ma che si fonda su due motivi inderogabili:
1) il Padre vuole che nessuno si perda;
2) avere fede nella «via della giustizia».
Come esempi si possono leggere la vocazione di Matteo (9,9) e la prostituta che unge i piedi del maestro (Lc 7,36-50). Invece i presenti né credettero alla «via della giustizia», né, vedutala in atto in Cristo, pentiti alla fine, adesso, hanno fede.
Il brano profetico, connesso con questa parabola evangelica, è tratto da un importante capitolo di Ezechiele (Ez 18,25-28), che affronta il problema della responsabilità collettiva e personale. Sacerdote esiliato in Babilonia, Ezechiele fu chiamato ad essere profeta per guidare il gruppo degli esuli e risvegliare la loro coscienza. Di fronte alla catastrofe della distruzione di Gerusalemme e la deportazione del popolo, fra i pochi superstiti serpeggiava disperazione e sfiducia nel Signore, ma anche atteggiamenti polemici che recriminavano contro di lui, affermando che il suo modo di agire non era retto.
Il profeta dunque ritorce contro la casa d’Israele l’accusa di seguire una condotta non retta e di sbagliarsi gravemente nel giudizio; perciò spiega la via del Signore, cioè il suo modo di agire. Sostiene anzitutto che non è Dio ad aver provocato i castighi quale punizione per le colpe commesse dal popolo, mentre ribadisce che il peccato stesso è una scelta che conduce al fallimento e alla morte: la rovina è intrinseca al rifiuto di Dio. Così Ezechiele, sostenendo che ciascuno è responsabile delle proprie azioni e non di quelle di suo padre o di suo figlio, prospetta pure una retribuzione strettamente personale, legata alle scelte di ciascuno.
Il contesto liturgico in cui è inserito questo breve passo del testo profetico ci orienta a insistere su quest’ultimo aspetto: se un peccatore riflette sul proprio stato, lo riconosce errato e cambia, allontanandosi dalle proprie colpe e impegnandosi a fare il bene, certamente vivrà e non morirà. Gesù intende dire che i grandi peccatori entrano nel regno prima delle autorità religiose: non perché sono peccatori, ma perché sono cambiati e possono così accogliere il regno. Coloro che aspettavano il Messia, proprio i capi religiosi, che sembravano naturalmente portati ad accogliere la sua venuta, si sono irrigiditi nel rifiuto; al contrario, quelli che sembravano lontani, perché peccatori, hanno accolto la buona notizia e sono cambiati. Per entrare nel regno di Dio bisogna cambiare! Ecco l’applicazione del particolare decisivo: bisogna pentirsi, è necessario rendersi conto di essere sulla strada sbagliata e cambiare. I pubblicani e le prostitute, proprio perché si sono pentiti e hanno creduto alla predicazione di Giovanni, possono entrare nel Regno di Dio.
v. 32 «Venne infatti a voi Giovanni...»: Gesù applica questo principio generale alla situazione di Giovanni Battista che lo ha preceduto, mettendo in evidenza due diversi atteggiamenti nei suoi confronti: in tal modo diventa chiaro il collegamento con la precedente questione che i capi non avevano voluto affrontare con un giudizio esplicito.
Molti autori concordano nell’attribuire questo versetto alla redazione di Matteo che intende così collegare la parabola sia a Gesù che a Giovanni Battista di cui si è parlato poco prima: il rifiuto di Giovanni è altresì il rifiuto di Gesù.
La parabola originaria di Gesù doveva concludersi al v. 31.
«via della giustizia»: tutto il messaggio biblico può definirsi come l’accorato invito di Dio all’uomo peccatore perché si allontani dal male e ricerchi il bene.
La conversione secondo la Bibbia è infatti un vero e proprio cambiamento di direzione [cfr. ad es. la preghiera di Salomone all’inaugurazione del tempio di Gerusalemme (1 Re 8,33); Salomone invoca il perdono per il popolo «se ritornerà» a Lui].
Altro esempio tratto dalla predicazione profetica è di Amos: «Cercate il bene e non il male, sicché possiate trovare la vita. Odiate il male, amate il bene... Forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe» (Am 5,14-15).
Tale il senso della predicazione del Battista: «Preparate le sue vie...»; per questo l’appello di Giovanni alla conversione lasciò un’eco profonda negli animi, tanto che le «folle» accorsero a lui a ricevere il battesimo di «penitenza» e, in mezzo ad essi, non mancarono pubblicani e soldati (cfr. Lc 3,12.14).
Non diversa fu la missione di Cristo: come già il suo precursore, fin dall’inizio del suo ministero egli fece udire dappertutto il suo invito alla conversione (4,17).
Egli è «venuto a chiamare i peccatori a penitenza» (Lc 5,32).
Ma perché il messaggio di conversione non rimanga senza risposta, ha bisogno di trovare un terreno ben preparato (cfr. 13,8).
É necessario che cada in cuori che, profondamente consapevoli della propria colpevolezza, ricercando la giustizia, cerchino sinceramente Dio (cfr. Is 51,1) e in novità di spirito vogliano «far ritorno» a lui (cfr. Ger 24,7).
Tali si mostrarono i pubblicani e le prostitute.
II Colletta
O Padre,
sempre pronto ad accogliere
pubblicani e peccatori
appena si dispongono a pentirsi di cuore,
tu prometti vita e salvezza
a ogni uomo che desiste dall’ingiustizia:
il tuo Spirito ci renda docili alla tua parola
e ci doni gli stessi sentimenti
che sono in Cristo Gesù.
Egli è Dio...
Fonte:http://www.catechistaduepuntozero.it
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