DON Tonino Lasconi "Non dimentichiamo l'abito nuziale"
Domenica XXVIII del Tempo ordinario, anno A
Se la fede in Gesù non ci fa vivere " i nostri campi e i nostri affari" secondo i valori del regno dei
cieli, alla maniera di san Paolo, rischiamo di essere come l'ingrato sprovveduto e presuntuoso della parabola che la 28a domenica ci presenta.
"Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti", ordina il re. Cosa ha fatto di così grave quel poveretto, trovato senza abito nuziale, per meritare una punizione così terribile? E come mai un re, così largo di vedute da sostituire invitati scelti con una folla di sconosciuti "buoni e cattivi", si adira in modo così clamoroso per una semplice mancanza di etichetta?
Se si trattasse del racconto di un normale pranzo principesco, il comportamento del re sarebbe da contestare e l'uomo che ha avuto il coraggio di sfidare le convenzioni da considerare un coraggioso contestatore. Ma la parabola è una similitudine del regno dei cieli ("Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio"), perciò la scelta di farsi trovare senza l'abito nuziale è gravissima. La mancanza di quell'abito, infatti, non è un'offesa all'etichetta, ma il segno della stessa cecità e della stessa arroganza degli invitati che hanno rifiutato l'invito alla festa nuziale, considerata meno importante dei loro "affari".
Quella mancanza di abito non è stata una dimenticanza, ma una scelta. Gli invitati raccapezzati ai crocicchi delle strade non se ne andavano sicuramente in giro con l'abito nuziale sotto braccio, ma l'avevano ricevuto all'ingresso della sala. L'uomo l'aveva rifiutato, perché aveva ritenuto quel pranzo non un dono del re, ma un'occasione da sfruttare a proprio vantaggio, senza ringraziare nessuno. Esattamente come avevano fatto i capi del popolo e farisei, stravolgendo la fede da cammino verso il banchetto preparato da Dio per tutti i popoli a un banchetto vantaggioso per i propri affari.
I capi dei sacerdoti e i farisei non vogliono capire il messaggio, e Gesù, come il re della parabola, ne mette in evidenza le conseguenze tragiche. Nell'inciso "allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città" è evidente il riferimento alla rovina di Gerusalemme e del tempio (simboli dell'alleanza con Dio), distrutti da Tito nel 70 d. C., che Matteo conosceva quando scriveva il suo vangelo.
L'uomo senza l'abito nuziale è un messaggio anche per noi? Ovviamente sì, perché la parola di Dio non è per l'informazione o l'istruzione, ma per la conversione. Quell'uomo presuntuoso e ingrato possiamo essere di nuovo noi, sia come Chiesa, che come singoli cristiani.
Come Chiesa, quando come nuovo popolo di Dio (o universale, o diocesano, o parrocchiale...) non testimoniamo l'abito nuziale con comportamenti da regno dei cieli, con una vita che va verso il banchetto che Dio prepara per tutti i popoli sul monte della Gerusalemme celeste, ma ci accontentiamo tranquillamente degli stuzzichini che ci offrono i nostri campi e i nostri affari. E' successo. Gli ultimi papi ci hanno vigorosamente invitato a chiederne perdono. E può succedere. E papa Francesco non smette di metterci in guardia.
Come cristiani singoli siamo senza l'abito nuziale quando indossiamo lo stesso abito di coloro che a quel banchetto non ci sono, perché trattiamo più meno come loro "i nostri campi e i nostri affari".
Cosa vuol dire indossare questo abito? Ce dice san Paolo: "Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell'abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza". E' il manifesto di chi è pronto ad accogliere l'invito del re, perché i suoi campi e i suoi affari sono niente di fronte alla ricchezza con magnificenza dell'invito di Dio in Cristo Gesù.
Fonte:http://www.paoline.it
Se la fede in Gesù non ci fa vivere " i nostri campi e i nostri affari" secondo i valori del regno dei
cieli, alla maniera di san Paolo, rischiamo di essere come l'ingrato sprovveduto e presuntuoso della parabola che la 28a domenica ci presenta.
"Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti", ordina il re. Cosa ha fatto di così grave quel poveretto, trovato senza abito nuziale, per meritare una punizione così terribile? E come mai un re, così largo di vedute da sostituire invitati scelti con una folla di sconosciuti "buoni e cattivi", si adira in modo così clamoroso per una semplice mancanza di etichetta?
Se si trattasse del racconto di un normale pranzo principesco, il comportamento del re sarebbe da contestare e l'uomo che ha avuto il coraggio di sfidare le convenzioni da considerare un coraggioso contestatore. Ma la parabola è una similitudine del regno dei cieli ("Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio"), perciò la scelta di farsi trovare senza l'abito nuziale è gravissima. La mancanza di quell'abito, infatti, non è un'offesa all'etichetta, ma il segno della stessa cecità e della stessa arroganza degli invitati che hanno rifiutato l'invito alla festa nuziale, considerata meno importante dei loro "affari".
Quella mancanza di abito non è stata una dimenticanza, ma una scelta. Gli invitati raccapezzati ai crocicchi delle strade non se ne andavano sicuramente in giro con l'abito nuziale sotto braccio, ma l'avevano ricevuto all'ingresso della sala. L'uomo l'aveva rifiutato, perché aveva ritenuto quel pranzo non un dono del re, ma un'occasione da sfruttare a proprio vantaggio, senza ringraziare nessuno. Esattamente come avevano fatto i capi del popolo e farisei, stravolgendo la fede da cammino verso il banchetto preparato da Dio per tutti i popoli a un banchetto vantaggioso per i propri affari.
I capi dei sacerdoti e i farisei non vogliono capire il messaggio, e Gesù, come il re della parabola, ne mette in evidenza le conseguenze tragiche. Nell'inciso "allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città" è evidente il riferimento alla rovina di Gerusalemme e del tempio (simboli dell'alleanza con Dio), distrutti da Tito nel 70 d. C., che Matteo conosceva quando scriveva il suo vangelo.
L'uomo senza l'abito nuziale è un messaggio anche per noi? Ovviamente sì, perché la parola di Dio non è per l'informazione o l'istruzione, ma per la conversione. Quell'uomo presuntuoso e ingrato possiamo essere di nuovo noi, sia come Chiesa, che come singoli cristiani.
Come Chiesa, quando come nuovo popolo di Dio (o universale, o diocesano, o parrocchiale...) non testimoniamo l'abito nuziale con comportamenti da regno dei cieli, con una vita che va verso il banchetto che Dio prepara per tutti i popoli sul monte della Gerusalemme celeste, ma ci accontentiamo tranquillamente degli stuzzichini che ci offrono i nostri campi e i nostri affari. E' successo. Gli ultimi papi ci hanno vigorosamente invitato a chiederne perdono. E può succedere. E papa Francesco non smette di metterci in guardia.
Come cristiani singoli siamo senza l'abito nuziale quando indossiamo lo stesso abito di coloro che a quel banchetto non ci sono, perché trattiamo più meno come loro "i nostri campi e i nostri affari".
Cosa vuol dire indossare questo abito? Ce dice san Paolo: "Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell'abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza". E' il manifesto di chi è pronto ad accogliere l'invito del re, perché i suoi campi e i suoi affari sono niente di fronte alla ricchezza con magnificenza dell'invito di Dio in Cristo Gesù.
Fonte:http://www.paoline.it
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