Padre Paolo Berti, “Quando fu il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto”

XXVII Domenica del T. O.   
Mt 21,33-43 
“Quando fu il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto”
Omelia  
Non è da pensare, fratelli e sorelle, che quanto accadde ad Israele non potrebbe accadere anche ai
nostri tempi visto che i valori cristiani vengono sistematicamente misconosciuti dalle nazioni.
Il cantico d'amore che Isaia innalza a Dio, chiamato “il mio Diletto”, è una lode per quanto Dio ha fatto al suo popolo. Nulla ha trascurato perché “la vigna” producesse frutti abbondanti: “Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi… in mezzo vi aveva costruito una torre (la potenza della casa di Davide) e scavato anche un tino”. Il risultato fu disastroso: “Essa produsse, invece, acini acerbi”.
Ne seguì la distruzione della vigna cioè la conquista Assiro-Babilonese.
Noi siamo la vigna del Signore e dobbiamo riempire i nostri tini, cioè le nostre strutture di vita sociale, di uve buone affinché le strutture sociali diano agli uomini buon vino, cioè carità operosa. Sappiamo che la Chiesa è indefettibile, che mai “le potenze degli inferi prevarranno su di essa”, ma sappiamo pure che la societas cristiana, cioè la società lievitata dall'azione della Chiesa, può allontanarsi da Cristo e dare “acini acerbi”, e questo sarebbe già qualcosa, perché si può arrivare a dare assenzio e veleno.
Se leggiamo il libro dell'Apocalisse al cap. 11, 2, vediamo che l'atrio, la parte esterna del tempio, ma che faceva parte del tempio, e che nell'Apocalisse simboleggia la societas cristiana, viene lasciata al furore dei pagani; solo il nucleo, il santuario e l'altare, cioè la Chiesa, rimane saldo. E dunque, fratelli e sorelle, proprio non dobbiamo pensare che “l'atrio che è fuori del santuario” non possa finire in balia dei “pagani”.
Il Vangelo ci dice che la defezione di tanti in Israele aveva raggiunto dei vertici di malvagità (Cf. Mt 23,32). Il rifiuto del Figlio di Dio portò ad una nuova catastrofe Israele; questa volta per opera dei Romani. Se Israele avesse accolto Cristo avrebbe dato esito alla Chiesa, mentre rimaneva la sua identità di nazione. Ma Israele, scartando Cristo, ha visto “la pietra angolare” stabilirsi per mezzo della Chiesa tra i pagani divenuti cristiani. Ne nacque pian piano il Sacro Romano Impero, che aveva come fondamento e lievito la Chiesa; la Chiesa che ha come centro di unità visibile il Vescovo di Roma. Ora cosa rimane di questo? Rimane che nessuna nazione Europea si riconosce cristiana nelle sue costituzioni. Il potere della terra ha voluto dissociarsi dalla Chiesa, ma non per aderire ad un altro culto e perseguitarla, almeno per il momento, ma per accoglierli tutti, mettendoli tutti sullo stesso piano delle concezioni materialistiche della vita.
Benedetto XVI, a Colonia, ha detto che quando ciò che è relativo viene assunto come assoluto si ha il totalitarismo. Il totalitarismo del relativismo è precisamente quanto sta inseguendo il potere della terra. Non vi sembrino troppo lontani dal quotidiano questi discorsi, perché non lo sono. Non lo sono per chi dice: “Venga il tuo regno”, cioè il regno di Dio nei cuori, e da cuori nuovi ne venga una società nuova. Non lo sono per chi si adopera per l'avvento della civiltà dell'amore. Non lo furono per i cristiani che diedero la loro vita nelle persecuzioni di Roma affinché il potere della terra si aprisse a Cristo, e non si avessero più i Neroni e i Caligola o i Diocleziano; non lo sono per chi ha seguito Giovanni Paolo II nel suo grande appello: “Aprite le porte a Cristo”; non lo sono per chi queste stesse parole le ha sentite ricordare da Benedetto XVI.
Certo, ci viene turbamento al pensiero che possano abbattersi su di noi, non dico solo sulla Chiesa, ma su di una civiltà che ha scartato Cristo, catastrofi. Ci viene il senso del pericolo, e si comprende benissimo; ma non dobbiamo agitarci. A questo ci invita san Paolo: “Non angustiatevi per nulla...”. Ma ecco, noi possiamo svisare il vero significato di quel “non angustiatevi per nulla”, facendolo diventare invito all'inerzia e alla stolta speranza. Il “non angustiatevi per nulla” di Paolo non è l'invito ad una serenità disimpegnata di fronte ai problemi del mondo, ma è l'invito alla fiducia in Cristo, Principe della pace. Così, infatti, conclude il brano di Paolo: “E il Dio della pace sarà con voi!”. “Sarà con voi” con la pace che nasce dall'unione con Cristo nel dono dello Spirito Santo. Una pace che non è affatto l'atarassia greca, e neppure il nirvana buddista o il distacco yoga, ma incontro con la Verità, con l'Amore.
Paolo ci dice che “la pace di Dio supera ogni intelligenza”; questo perché essa sgorga dal mistero della nostra unione con Cristo. Non è la pace del filosofo pago della sua concezione della vita e posto davanti alla vita come uno spettatore. Non è la pace di chi ha soddisfatto l'istinto, l'egoismo, l'aggressività, la vendetta; è la pace di chi ama in Cristo.
Chi è il quietista? Ce ne sono tanti in giro! E' colui che dice che va tutto bene, o se dice che va male, non vuole poi sentirselo dire da alcuno. E' colui che dice che Dio è misericordia, dimenticando che è anche giustizia, pur essendo vero che “la misericordia ha la meglio nel giudizio” (Gc 2,12). E' colui per il quale la penitenza è solo una mania. E' quello che azzarda profezie ottimistiche contraddicendo con un sorriso paternalista coloro che hanno pensieri di preoccupazione. Così, il quietista bolla come profeta pessimista e di sventura chi invita alla riflessione perché non si perda la pace del cuore.
Paolo ci presenta come dobbiamo essere. Non certo, al contrario del quietista, degli esagitati profeti di sventura. Quanti oggi lo fanno! Paolo ci dice che dobbiamo considerare e perseguire “quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato...”; così in qualsiasi circostanza noi parleremo d'amore ai fratelli.
Il quietista è un egoista, ma le letture di oggi ci invitano a non esserlo, a non pensare solo a noi stessi, alla nostra tranquillità, paghi di qualche pellegrinaggio o di una formale partecipazione domenicale all'Eucaristia: noi dobbiamo avere a cuore il mondo intero. Voi mi direte: “Ma noi non possiamo portare il peso di tutti i mali del mondo!”. Vero! Dobbiamo vivere, non possiamo spezzarci nell'angustia; dobbiamo vivere la quotidianità con pace, non con convulsione apocalittica, ma tuttavia si deve essere operativi con la preghiera e il sacrificio perché il mondo abbia pace. Il salmo 130/131 ci è maestro in questo: “Io invece resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l'anima mia. Israele attenda il Signore, da ora e per sempre”. Noi dobbiamo fare la nostra piccola parte; di certo infatti non possiamo fare tutto.
Che brutto, fratelli e sorelle, se volessimo fare tutto noi, oppure pensassimo che ci siamo solo noi ad agire per il Signore! Elia pensava di essere solo a difendere la causa di Dio, ma si sentì dire, a tutto vantaggio della sua umiltà, che c'erano tanti altri (Cf. 1Re 19,18) in Israele, che non si erano piegati a Baal. Ecco, l'amore non è mai disunito dall'umiltà. L'amore e l'umiltà sono le due ali che ci fanno volare, cioè velocissimi nel raggiungere gli altri con l'opera e con la preghiera. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.
Fonte:http://www.perfettaletizia.it/

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