FRA.Andrea Vaona, "tra il dire e il fare"

Domenica XXXI del tempo ordinario – anno A –
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi
dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”,
perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli.
E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra,
perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste.
E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo;
chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

Domenica XXXI del tempo ordinario – anno A – Autunno, tempo di fiere e sagre, anche qui in Veneto. L’occhio cade sopra una bancarella di chincaglierie: quadretti e tabelle di varie forme e materiali con tanti proverbi o modi di dire, gli stessi oggetti fatti in serie chissà dove che affollano un po’ tristemente bancarelle e negozi dei perimetri di affollamento turistico nei pressi di monumenti e chiese illustri. Tra tante “amenità” spicca l’immancabile: «fa quel ch’el prete dixe, no dir quel ch’el prete fa» (“fa quel che il prete dice, non dire quel che il prete fa”). I muscoli facciali abbozzano un sorriso appena percettibile che già un’amarezza intensa si riversa nelle viscere.

L’arguzia popolare pare aver coniato questo detto da secoli: il conio originale pare davvero quello matteano del vangelo di oggi, ma deformato dal disincanto che nel tempo sostituisce “scribi e farisei” con i nuovi occupanti le cattedre o sgabelli del sacro. Un po’ di rabbia a dire il vero può salire dal profondo: abbiamo da poco celebrato la Festa di tutti i Santi, coloro che non solo “hanno detto” ma pure “hanno fatto” in nome di un Dio tanto amato e riconosciuto come vero Maestro. E anche tra loro, quanti preti…! Ma come negare che cronache più o meno recenti, urlate con ogni media pervasivo e umiliante, nei confronti di malefatte di sacerdoti sembrino dar ragione alla “saggezza popolare” di cui sopra? «Fa quel ch’el prete dixe, no dir quel ch’el prete fa»… Che poi – anche se in alcuni casi la verità scagiona il prete di turno – meglio lasciare l’ombra del sospetto perché si sa, lo si dice da sempre «Fa quel ch’el prete dixe, no dir quel ch’el prete fa»…

Amarezze inestricabili – dunque – che il Maestro aveva previsto nel suo messaggio di libertà e salvezza di una limpidezza disarmante. Il quale – ben al di là di ogni realizzazione storica – arriva al cuore della questione: nessuna ipocrisia, nessuna prevaricazione! “Tra il dire e il fare” nella fede non c’è il proverbiale “mare”, e seppur ci fosse si attraversa anche a piedi col Maestro giusto: Pietro ci era riuscito prima di aver paura e sprofondare (non nel mare, ma nella sua paura di morire). Discepoli del Maestro e Signore, facciamo ciò che ha detto e diciamo cosa facciamo in suo nome: sembra il programma sintetico di tutta una vita cristiana. Santa, perché cristiana.

San Francesco, grandissimo interprete di questa dinamica «facciamo ciò che ha detto Cristo e diciamo cosa facciamo in suo nome», è attento a tutto il messaggio matteano e lo propone ampiamente nella Regola non bollata

“E a lui [il Signore Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo] ricorriamo come al pastore e al vescovo delle anime nostre, il quale dice: «Io sono il buon Pastore, che pascolo le mie pecore e per le mie pecore do la mia vita». «Voi siete tutti fratelli. E non vogliate chiamare nessuno padre vostro sulla terra, perché uno solo è il vostro Padre, quello che è nei cieli. Né fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro Maestro, che è nei cieli [Cristo]»” (FF 61).

«…Allo stesso modo non voleva dare a nessuno il titolo di «padre» o di «maestro», né scriverlo nelle lettere, per rispetto al Signore che disse: Non chiamate nessuno «padre» sulla terra, né fatevi chiamare «maestri», ecc.» (FF 1638).

Circa il tema dell’umiltà che chiude il brano evangelico di oggi il biografo insiste con san Francesco:

«Di tutte le virtù è custode e decoro l’umiltà. Se questa non è messa come fondamento dell’edificio spirituale, quando esso sembra innalzarsi si avvia alla rovina. Francesco ne era provvisto con particolare abbondanza, affinché non mancasse nulla a uno già ricco di tanti doni. Nella stima di sé non era altro che un peccatore, mentre in realtà era onore e splendore di ogni santità. Sulla virtù dell’umiltà cercò di edificare se stesso, per gettare un fondamento secondo l’insegnamento di Cristo. Dimentico dei meriti, aveva davanti agli occhi solo i difetti, mentre rifletteva che erano assai più le virtu` che gli mancavano di quelle che aveva. Unica sua grande ambizione: diventare migliore in modo da aggiungere nuove virtu` , non essendo soddisfatto di quelle già acquisite» (2Cel 140 : FF 724).

«Procedendo nel cammino, mentre si parlavano scambievolmente di Dio, un frate, [...] colse abilmente l’occasione per chiedere a Francesco che opinione aveva di se stesso. E l’umile servo di Cristo gli disse: «Mi sembra di essere il più gran peccatore». Il frate gli replicò che, in tutta coscienza, non poteva né pensare né dire una cosa simile; ma egli spiegò: «Se Cristo avesse trattato il più scellerato degli uomini con la stessa misericordia e bontà con cui ha trattato me, sono sicuro che quello sarebbe molto più riconoscente di me a Dio». Ascoltando queste umili parole, il frate ebbe la conferma che la sua visione era veritiera, ben sapendo che, secondo la testimonianza del santo Vangelo, il vero umile verrà innalzato a quella gloria eccelsa, da cui il superbo viene respinto» (Leggenda maggiore VI,6 : FF 1111).

(acquerello di Ruth Kwofie giovane allieva di Betty Vivian, con l’autorizzazione della maestra, che ringraziamo)

Fonte:http://bibbiafrancescana.org

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