Monsignor Francesco Follo, Lectio "Regno paradisiaco."

Regno paradisiaco.
Rito Romano
XXXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo -26 Novembre 2017
Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46

Rito Ambrosiano
Is 51,1-6; Sal 45; 2Cor 2,14-16a; Gv 5,33-39
Domenica III di Avvento – ‘Le profezie adempiute’ - Anno B
1) Cristo, Re in Croce.
Questa domenica, ultima dell’anno liturgico, celebra Gesù Re dell’universo. Cristo è Re regge il
mondo dalla Croce e ci chiede di partecipare alla sua regalità, mettendoci in ginocchio al suo trono di Amore: la Croce, e davanti ai fratelli, come Lui, il Re, si mise in ginocchio per lavare i piedi dei suoi Apostoli.
Durante l’anno liturgico la Chiesa ci fa compiere quel cammino di fede e di carità, che abbraccia la storia della redenzione. Questo cammino liturgico inizia con l’Avvento, il tempo dell’Attesa di Dio fra di noi, che fiorisce nel Natale, che reca la grande e lieta notizia che Dio davvero si è fatto uno di noi. Segue il tempo della conversione, nella Quaresima, che ci prepara alla S. Pasqua e, dopo 50 giorni, l’inizio del cammino della Chiesa con la Pentecoste. In questo ‘pellegrinaggio’ Dio ci accompagna con il Suo Amore e la Sua Grazia, sempre che noi decidiamo di camminare con Lui.
Nella domenica, che conclude l’anno liturgico celebrando Cristo Re, riflettiamo insieme sul significato che questa Solennità ha, meditando la scena del “giudizio universale” (Mt 25,31-46). Ed è proprio questa pagina evangelica che rivela il senso sconvolgente della regalità di Cristo che ci interpella: abbiamo scelto davvero di essere al seguito di questo Re crocifisso per e dall’amore?
Un Re che ci chiede di fare il bene agli altri e che non chiede per se stesso nulla. Anzi è stato Lui stesso a dare tutto per noi, morendo sulla croce, sacrificandosi per noi. Un Re speciale, fuori dai canoni delle regalità e dei regni di questa terra, che hanno altre prospettive di soggiogare le persone e il mondo alle proprie idee e posizioni
Un Re il cui regno che si costruisce ogni giorno mediante l’opera di quanti credono in Cristo e nei valori da Lui proclamati.
Ce lo ricorda in estrema sintesi il Prefazio della Solennità di Cristo Re: “Tu o Dio, con olio di esultanza hai consacrato Sacerdote eterno e Re dell’universo il tuo unico Figlio, Gesù Cristo nostro Signore. Egli, sacrificando se stesso immacolata vittima di pace sull'altare della Croce, operò il mistero dell'umana redenzione; assoggettate al suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace”.
Dunque, il regno di Dio non è una questione di onori e di apparenze, ma è “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17).
Per capire bene ciò, dobbiamo partire dal trono di Cristo che è la Croce. Sulla Croce elevata sul Calvario Cristo manifesta la sua singolare regalità. Sul Calvario si confrontano due atteggiamenti contrapposti. Alcuni personaggi ai piedi della croce, e anche uno dei due ladroni in croce, si rivolgono con disprezzo al Crocifisso dicendogli : "Se tu sei il Cristo, il Re Messia, salva te stesso scendendo dal patibolo". Gesù, invece, rivela la propria regalità rimanendo, sulla croce, come Agnello immolato. Con Lui si schiera inaspettatamente l’altro ladrone, che implicitamente confessa la regalità del giusto innocente ed implora: “Ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42). Sant’Ambrogio di Milano commenta: “Costui pregava che il Signore si ricordasse di lui, quando fosse giunto nel suo Regno, ma il Signore gli rispose: In verità, in verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso. La vita è stare con Cristo, perché dove c’è Cristo là c’è il Regno” (Esposizione del Vangelo secondo Luca, 10,121).
Rivolgiamoci anche noi con umiltà a Cristo e Lui ci accoglierà nel suo Regno di vita eterna.

2) Preghiera e carità.
Il Regno dove Cristo ci accoglie, che il Redentore ci dà, non è un luogo o qualcosa ma lui stesso. Lui ci dà il suo cuore, la sua parola, i suoi sentimenti. E come risposta lui non vuole qualcosa che abbiamo, ma tutto quello che siamo. Non importa se questa offerta la facciamo come la povera vedova che mise nel tesoro del tempio tutto quello che aveva, erano poche monete, oppure come Zaccheo che offrì la metà dei suoi beni, l’importante è imitare la Vergine Maria che lietamente offrì tutto se stessa e divenne sulla terra il paradiso del Figlio del cielo. L’importante è vivere il dono di sé a Dio con letizia.
Per educarci a questa offerta totale dobbiamo vivere la carità facendo la carità, dando agli ultimi. Dando ai poveri diamo a Dio e lui, riconoscente ci accoglie con loro, ai quali dice: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 31 - 46).
A questo riguardo Sant’Agostino commenta: “Nessuno sia esitante a dare l'elemosina ai poveri, nessuno creda che la riceva colui del quale vede la mano; la riceve Colui che ha comandato di darla. Non affermiamo ciò in base a un nostro sentimento o a una congettura umana; ascolta Colui che non solo ti esorta a farlo, ma ti firma anche la garanzia. Avevo fame - è detto - e mi avete dato da mangiare. Dopo l’enumerazione dei loro servizi [i giusti] chiederanno [al Signore]: Quando mai ti abbiamo visto affamato? ed egli risponderà: Tutto ciò che avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, lo avete fatto a me. Chiede l'elemosina un povero ma è un ricco quello che la riceve; si dà a uno che la spende per sé, ma la riceve Colui che la renderà. E non renderà solo ciò che riceve: egli vuole prendere a interesse, promette più di quel che avrai dato. Metti fuori tutta la tua cupidigia di danaro; fa' conto d'essere un usuraio. Se tu lo fossi realmente, saresti rimproverato dalla Chiesa, saresti condannato dalla parola di Dio, ti detesterebbero tutti i tuoi fratelli come un crudele usuraio bramoso di guadagnare sulle lagrime altrui. Sii usuraio, nessuno te lo proibisce. Invece di prestare a un povero, il quale piangerà quando ti renderà, dà a uno che è in grado di restituire e che ti esorta anche a ricevere ciò che promette” (Discorso 86,3).
In questa carità verso il prossimo le vergini consacrate sono un esempio importantissimo. In effetti, ciò che si dà a Dio non lo si toglie agli uomini, perché consacra a Dio con la verginità il suo amore, il suo cuore, i suoi pensieri, la persona consacrata non dimentica e non trascura questo mondo e gli uomini che in esso lottano e soffrono. Il Dio cristiano è Amore che non riceve, ma dona o, meglio, è un Dio che riceve non per trattenere per sé quello che riceve, ma per ridonarlo accresciuto. Perciò quello che si dona a Dio è un amore che si effonde sugli uomini arricchito dall’amore stesso di Dio. Non è un amore impoverito, ma un amore reso più forte e quindi più impegnato e più fecondo. E’ per questo che la gran maggioranza delle opere di carità verso i poveri sono state realizzate da vergini, l’ultima delle quali è Santa Teresa di Calcutta, che si fece missionaria della carità mettendosi a servizio dei più poveri dei poveri, perché totalmente donata a Dio.




Lettura patristica
Gregorio di Nissa
Oratio II: De pauper. amandis
Nell’amore dei poveri costruiamo il nostro eterno futuro
       "Io ho avuto fame, ho avuto sete, ero forestiero e nudo, e infermo e carcerato" (Mt 25,35). "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi (miei fratelli), l’avete fatto a me" (v. 40). Per cui, "venite", dice, "benedetti del Padre mio" (v. 34). Che cosa impariamo da queste cose? Che la benedizione e il più grande bene sono riposti nello zelo e nell’osservanza dei precetti; la maledizione e il massimo dei mali derivano dall’accidia e dal disprezzo dei comandamenti. Abbracciamo allora la prima e fuggiamo questa seconda, finché ci è possibile, affinché delle due noi possiamo avere quella che desideriamo. Infatti, in quello a cui con grande alacrità d’animo ci saremo inclinati, noi saremo stabiliti. Per la qual cosa, il Signore della benedizione, che parimenti accetterà da noi ciò che per sollecitudine e per dovere avremo fatto nei confronti dei poveri, come fatto a lui, rendiamocelo benevolo e costringiamolo almeno in questo tempo in cui a noi, mentre viviamo, è data la grande possibilità di osservare il comandamento; e sono molti che mancano del necessario, molti che sono carenti nello stesso corpo, logorati e consumati dalla stessa violenza del male. Cosicché, noi in questa cosa, cioè, per dirla più ampiamente, poniamo più cura e diligenza nel curare coloro che sono colpiti da gravissimo morbo, per conseguire quel magnifico premio promesso... (Cosa dirò forse degli angeli) quando lo stesso Signore degli angeli, lo stesso re della celeste beatitudine si è fatto uomo per te, e queste sordide e abiette spoglie della carne cinse a sé, unitamente all’anima che di esse era rivestita, affinché col suo contatto egli curasse le tue infermità? Tu invece, che sei della stessa natura di chi è ammalato, fuggi uomini di quel genere. Non ti piaccia, fratello, te ne prego, far tuo il cattivo proposito. Considera chi sei, e di chi ti interessi: uomo (sei) soprattutto, tra gli uomini, che nulla hai di proprio in te e nulla di estraneo alla natura comune. Non compromettere le cose future. Mentre infatti condanni la passione grande nel corpo altrui, pronunci una incerta sentenza di tutta la natura. Di quella natura, poi, anche tu sei partecipe, come tutti gli altri. Per la quale cosa, si decida come di cosa comune...
       Che cosa dobbiamo fare, perché non sembri che noi pecchiamo contro la legge di natura? È sufficiente che deploriamo le loro passioni e che con la preghiera togliamo via la malattia e ci commuoviamo al suo stesso ricordo? O non si richiede che, con dei fatti mostriamo verso di essi la misericordia e la benevolenza? È proprio così. Infatti, il rapporto che sussiste tra le cose vere e le pitture appena abbozzate, è quello che c’è tra le parole separate dalle opere. Dice infatti il Signore che la salvezza non sta nelle parole, ma nel compiere le opere della salvezza. Per cui, quello che c’è comandato per causa di essi, occorre che noi lo facciamo per lui... "Via, lontano da me, nel fuoco eterno: perché‚ ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli, non l’avete fatto a me" (Mt 25,41 Mt 25,45).
       Se infatti pensassero di conseguire tali cose in quel modo, non arriverebbero mai a subire quella sentenza, allontanando da sé coloro che soffrono, né stimerebbero contagio per la nostra vita l’impegno per gli sventurati. Per cui, se consideriamo che colui che promise è fedele, ottemperiamo ai suoi comandi, senza dei quali non possiamo essere degni delle sue promesse. Il forestiero, il nudo, l’affamato, il malato, il carcerato, e tutto quello che ricorda il Vangelo, in questo misero ti viene posto dinanzi. Egli va errabondo e nudo e infermo, e a causa della povertà che consegue alla malattia, manca del necessario. Chi infatti non ha a casa di che sostentarsi, né d’altronde può guadagnare col lavoro, questi manca delle cose che le necessità della vita esigono. Per tale motivo, quindi, è schiavo perché legato dai vincoli della malattia. Pertanto, in ciò avrai adempiuto l’essenziale di tutti i comandamenti, e lo stesso Signore di tutte le cose, per quello che gli avrai prestato con benignità, avrai legato e obbligato a te (Pr 19,17). Perché dunque fai assegnamento su ciò che è la rovina della tua vita? Colui, infatti, che non vuole avere amico il Signore di tutte le cose, è a se stesso grandemente nemico. A quel modo, infatti, che viene realizzata l’osservanza dei comandamenti, viene liberato dalla crudeltà (del supplizio eterno) "Prendete" (dice) "il mio giogo su di voi" (Mt 11,29). Chiama giogo l’osservanza dei comandamenti, obbediamo a colui che comanda.

       Facciamoci giumento di Cristo, rivestendo i vincoli della carità. Non rifiutiamo questo giogo, non scuotiamolo, esso è soave e lieve. A chi si sottomette, non opprime il collo, ma lo accarezza. "Seminiamo in benedizione", dice l’Apostolo, "perché possiamo anche mietere nelle benedizioni" (2Co 9,6). Da un tale seme germinerà una spiga dai molti grani. Ampia è la messe dei comandamenti, sublimi sono le stirpi della benedizione. Vuoi capire a quale altezza si libra il rigoglio di tale progenie? Esse toccano gli stessi vertici del cielo. Tutto ciò che infatti in esse avrai portato, lo troverai al sicuro nei tesori del cielo. Non diffidare delle cose dette, non ritenere che sia da disprezzare la loro amicizia. Le loro mani certamente sono mutilate, ma non inidonee a recare aiuto. I piedi sono divenuti inutili, ma non vietano di correre a Dio. Vien meno la luce degli occhi, ma con l’anima scelgono quei beni che l’acutezza della vista non può fissare... Non c’è infatti chi non sappia, chi non consideri eccellente il premio prima nascosto che viene conferito umanamente e benignamente nelle altrui sventure. Poiché infatti le umane cose signoreggia l’una e medesima natura. E a nessuno è data certezza che a lui in perpetuo le cose saranno prospere e favorevoli. In tutta la vita, occorre ricordare quel precetto evangelico secondo il quale quanto vogliamo che gli uomini facciano a noi, noi lo facciamo loro. Perciò, finché puoi navigare tranquillamente, stendi la mano a colui che ha fatto naufragio; comune è il mare, comune la tempesta, comune il perturbamento dei flutti gli scogli che si nascondono sotto le onde, le sirti, gli inciampi, e tutte infine quelle molestie che alla navigazione di questa vita incutono un uguale timore a tutti i naviganti.

       Mentre sei integro, mentre con sicurezza attraversi il mare di questa vita, non trascurare inumanamente colui la cui nave andò a urtare. Chi può garantire, qui, che avrai sempre una felice navigazione? Non sei ancora pervenuto al porto della quiete (Ps 106,19). Non sei ancora stabilito fuori dal pericolo dei flutti. La vita non ti ha ancora collocato in luogo sicuro. Nel mare della vita sei ancora esposto alla tempesta. Quale ti mostrerai verso il naufrago, tali verso di te troverai coloro che insieme navigano.

Commenti

Post più popolari