padre Raniero Cantalamessa,Prima predica di Avvento“Tutto è stato fatto per mezzo di lui e in vista di lui“
P. Raniero Cantalamessa, O.F.M.prima predica “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e in vista di lui“ (Colossesi 1,16) – 15 dicembre 2017
Le meditazioni di Avvento di quest’anno (due soltanto per ragioni di calendario) si propongono di
rimettere la persona divino-umana di Cristo al centro delle due grandi componenti che, insieme, costituiscono “il reale”, e cioè il cosmo e la storia, lo spazio e il tempo, il creato e l’uomo. Dobbiamo prendere atto, infatti, che, nonostante il gran parlare che si fa di lui, Cristo è un emarginato nella nostra cultura. Egli è del tutto assente –e per motivi più che comprensibili – nei tre principali dialoghi in cui la fede è impegnata nel mondo contemporaneo: quello con la scienza, quello con la filosofia e quello tra le religioni.
Lo scopo ultimo non è pero di ordine teorico, ma pratico. Si tratta di rimettere Cristo anzitutto “al centro” della nostra vita personale e della nostra visione del mondo, al centro delle tre virtù teologali di fede, speranza e carità. Il Natale è la stagione più propizia per una tale riflessione, dal momento che in esso ricordiamo il momento in cui il Verbo si fa carne, entrando, anche fisicamente nel creato e nella storia, nello spazio e nel tempo.
1. La terra era vuota
In questa prima meditazione riflettiamo sulla prima parte del programma annunciato: sul rapporto, cioè, tra Cristo e il cosmo. “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gen 1, 1-2). Un autore medievale, l’abate inglese Alexander Neckam ( 1157- 1217), così commenta in un suo poema questi versetti iniziali della Bibbia:
La terra era vuota perché il Verbo non si era ancora fatto carne.
La nostra terra era vuota perché non vi abitava ancora la pienezza della grazia e della verità.
Era vuota perché non ancora resa ferma e stabile con l’unione alla divinità.
La nostra abitazione terrena era vuota perché non era venuta la pienezza del tempo.
“E le tenebre ricoprivano l’abisso”. Non era infatti venuta ancora la luce vera
Che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” .
Credo che non si possa esprimere in modo più biblico e più suggestivo il rapporto che c’è tra creazione e incarnazione che leggendo in contrappunto l’inizio del libro della Genesi con l’inizio del Vangelo di Giovanni, come fa, appunto, questo autore. L’enciclica Laudato si’ dedica a questo tema un paragrafo che, data la sua brevità, possiamo ascoltare per intero:
Secondo la comprensione cristiana della realtà, il destino dell’intera creazione passa attraverso il mistero di Cristo, che è presente fin dall’origine: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16). Il prologo del Vangelo di Giovanni (1,1-18) mostra l’attività creatrice di Cristo come Parola divina (Logos). Ma questo prologo sorprende per la sua affermazione che questa Parola “si fece carne” (Gv 1,14). Una Persona della Trinità si è inserita nel cosmo creato, condividendone il destino fino alla croce. Dall’inizio del mondo, ma in modo particolare a partire dall’incarnazione, il mistero di Cristo opera in modo nascosto nell’insieme della realtà naturale, senza per questo ledere la sua autonomia. (nr. 99).
Si tratta di sapere quale posto occupa la persona di Cristo nei confronti dell’intero universo. Questo è oggi un compito più urgente che mai. Maurice Blondel scriveva a un amico:
“Davanti agli orizzonti ingranditi della scienza della natura e dell’umanità, non si può, senza tradire il cattolicesimo, rimanere su spiegazioni mediocri e a modi di vedere limitati che fanno del Cristo un incidente storico, che lo isolano nel Cosmo come un episodio posticcio, e sembrano fare di lui un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo” .
I testi biblici su cui si fonda la nostra fede sul ruolo cosmico di Cristo sono quelli di Paolo e di Giovanni citati nell’enciclica che qui conviene richiamare per esteso. Il primo (anche in ordine cronologico) è Colossesi 1, 15-17:
“Egli è l’immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura; poiché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili: troni, signorie, principati, potestà; tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di ogni cosa e tutte le cose sussistono in lui”.
L’altro testo è Giovanni 1, 3 e 10:
“Tutto è stato fatto per mezzo di lui [il Verbo] e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste… il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto”.
Nonostante l’impressionante consonanza di questi testi, è possibile individuare tra di loro una differenza di accento che avrà grande importanza nello sviluppo futuro della teologia. Per Giovanni, la cerniera che unisce creazione e redenzione è il momento in cui “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”; per Paolo, essa è piuttosto il momento della croce. Per il primo è l’incarnazione, per il secondo è il mistero pasquale. Il testo di Colossesi prosegue infatti dicendo:
“È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (col 1, 19-20)
La riflessione patristica, sotto l’incalzare delle eresie, ha valorizzato quasi soltanto un elemento di queste affermazioni: quello che essi dicono della persona di Cristo e della salvezza dell’uomo da lui operata; poco o nulla, invece, di quello che essi dicono della loro portata cosmica, cioè del significato di Cristo per il resto del creato.
Nei confronti degli ariani, questi testi servivano per affermare la divinità e la preesistenza di Cristo. Il Figlio di Dio non può essere una creatura, argomentava Atanasio, dal momento che è il creatore di tutto. La portata cosmica del Logos nella creazione non trova un corrispettivo adeguato nella redenzione. L’unico testo che si prestava a uno sviluppo in questo senso – e cioè quello di Romani 8, 19-22 sulla creazione che geme e soffre come per le doglie di un parto – non fu mai, che io sappia, il punto di partenza di una riflessione approfondita da parte dei Padri della Chiesa.
Alla domanda del “perché” della incarnazione, da sant’Atanasio (De incarnatione) ad sant’Anselmo da Aosta (Cur Deus homo), si risponde in sostanza con le parole del credo: “Propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelo”: “Per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo”. La prospettiva è quella antropologica del rapporto di Cristo con l’umanità: non abbraccia, se non incidentalmente, il rapporto di Cristo con il cosmo. Questo affiora solo di riflesso nella polemica contro gli gnostici e i manichei che opponevano creazione e redenzione, come opera di due dii diversi e ritenevano la materia e il cosmo come intrinsecamente estranei a Dio e incapaci di salvezza.
A un certo punto dello sviluppo della fede, nel Medioevo, si fa strada un’altra risposta alla domanda “Perché Dio si è fatto uomo”. Può la venuta di Cristo, ci si chiede, che è il “Primogenito di tutta la creazione” (Col 1, 15), dipendere totalmente dal peccato dell’uomo, intervenuto in seguito alla creazione?
Su questa linea, il Beato Duns Scoto fa il passo decisivo, sciogliendo l’Incarnazione dal suo legame essenziale con il peccato. Il motivo dell’Incarnazione, dice, sta nel fatto che Dio vuole avere, fuori di sé, qualcuno che lo ami in modo sommo e degno di sé . Cristo è voluto per se stesso, come il solo capace di amare il Padre – ed essere da lui amato – con un amore infinito, degno di Dio. Cristo si sarebbe incarnato anche se Adamo non avesse peccato, perché egli è il coronamento stesso della creazione, l’opera suprema di Dio. Il peccato dell’uomo ha determinato il modo dell’incarnazione conferendole il carattere di redenzione dal peccato, non il fatto stesso dell’Incarnazione. Questa ha un motivo trascendente, non occasionale.
2. La visione cosmica di Teilhard de Chardin
Quello di Scoto è un primo tentativo di dare un senso preciso alle affermazioni bibliche sul Cristo “per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato creato”; ma non si può certo parlare ancora, con lui, di una incidenza di fatto di Cristo su tutto il creato. Questo è invece possibile se facciamo un salto di secoli e, da Scoto, passiamo ai nostri giorni, a Teilhard de Chardin. Teilhard è preoccupato, come diceva Blondel, di evitare che, in una cultura dominata dall’idea dell’evoluzionismo, Cristo finisca per essere visto come “un incidente storico, isolato dal Cosmo”.
Mettendo a frutto le sue indiscusse conoscenze scientifiche, Teilhard de Chardin vede un parallelismo tra la evoluzione del mondo (la Cosmogenesi) e la progressiva formazione del Cristo totale (Cristogenesi). Cristo, non solo non è estraneo all’evoluzione del cosmo, ma, misteriosamente, la guida dall’interno e ne costituirà, al momento della Parusia, il compimento finale e la trasfigurazione, il “Punto Omega”, secondo il suo linguaggio.
L’autore deduce da queste premesse tutta una visione nuova e positiva del rapporto tra cristianesimo e realtà terrene. Per la prima volta nella storia del pensiero cristiano, un credente compone un “Inno alla materia” e un “Inno dell’universo” . Una fiammata di ottimismo attraversa un vasto settore della cristianità, fino a far sentire il suo influsso su un documento del Concilio Vaticano II, la costituzione su “La Chiesa e il mondo”, Gaudium et spes. C’è una rivalutazione delle attività terrene, prima tra tutte il lavoro umano. Le opere che il cristiano compie hanno un valore per se stesse, come miglioramento del mondo, non solo per l’intenzione pia con cui il cristiano le compie.
Teilhard de Chardin ha la penna particolarmente felice quando applica questa sua visione al sacramento dell’Eucaristia. Attraverso il lavoro e la vita quotidiana del credente, l’Eucaristia estende la sua azione all’intero cosmo. Ogni Eucaristia è una “Messa sul mondo” .
“Quando, attraverso il sacerdote, Cristo dice: ‘Questo è il mio corpo’, le sue parole vanno ben al di là del pezzo di pane sul quale sono pronunziate. Esse fanno nascere il corpo mistico tutto intero. Oltre l’Ostia transustanziata, l’azione sacerdotale si estende al cosmo intero” .
Non credo, tuttavia, che si possa definire questa spiritualità cosmica, come una spiritualità ecologica, nel senso attuale del termine. Prevale ancora nell’autore l’idea evolutiva del progresso, dell’ascesa del creato verso forme sempre più complesse e diversificate, mentre non è presente, se non indirettamente, la preoccupazione per la salvaguardia del creato. A suo tempo, non si era ancora presa coscienza chiara del pericolo che lo sviluppo – specie quello industriale – può rappresentare per il creato, o almeno per quella minuscola parte di esso che ospita l’umanità.
La fede biblica concorda con Teilhard de Chardin sul fatto che Cristo è il Punto Omega della storia, se per Punto Omega si intende colui che alla fine sottometterà a se tutte le cose, per consegnarle al Padre (1 Cor 15, 28), colui che inaugurerà “i cieli nuovi e la terra nuova” e pronuncerà il giudizio finale sul mondo e la sua storia (Mt 25, 31 ss.). Lo stesso Cristo risorto si definisce nell’Apocalisse “l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine” (Ap 22, 13).
La fede non giustifica invece l’idea di Teilhard de Chardin secondo cui l’atto finale della storia sarà un “coronamento” dell’evoluzione giunta al suo apogeo. Secondo la visione dominante in tutta la Bibbia, l’atto finale potrebbe essere il suo contrario, e cioè una brusca interruzione della storia, una crisi, un giudizio, il momento della separazione del grano dalla zizzania (Mt 13, 24 ss.). La Seconda Lettera di Pietro, dice che i cristiani aspettano “la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! (2 Pt 3, 12). Questa visione è quella che ha improntato il sentimento della Chiesa come si vede dalle parole iniziali del Dies irae: “Dieae irae dies illa solvet saecclum in favilla: “Giorno d’ira sarà quello, quando il mondo si sarà ridotto in cenere”. Una fine dunque del male, piuttosto che un apogeo del bene, per quanto riguarda il mondo presente .
Questo lato debole della visione di Teilhard de Chardin dipende da una lacuna segnalata anche da studiosi ammiratori del suo pensiero . Egli non è riuscito a integrare in modo organico e convincente, nella sua visione, l’aspetto negativo del peccato e quindi neppure la visione drammatica di Paolo secondo cui la riconciliazione e la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo avviene nella sua croce e nella sua morte.
3. Lo Spirito di Cristo
Esiste allora qualcosa che permetta di sfuggire al pericolo di fare di Cristo, come diceva Blondel, “un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo”? In altre parole, Cristo ha qualcosa da dire sul problema scottante dell’ecologia e della salvaguardia del creato, o questa si svolge del tutto indipendentemente da lui, come un problema che tocca semmai la teologia, ma non la cristologia?
La mancanza di una risposta chiara da parte dei teologi a questa domanda dipende, credo, come tante altre lacune, da una scarsa attenzione allo Spirito Santo e al suo rapporto con il Cristo risorto. “L’ultimo Adamo, scrive Paolo, divenne Spirito datore di vita” (1 Cor 15, 45); L’Apostolo arriva a dire, con una formula fin troppo concisa: “Il Signore è lo Spirito” (2 Cor 3, 17), per sottolineare che il Signore risorto agisce ormai nel mondo attraverso il suo “braccio operativo” che è lo Spirito Santo.
L’accenno alla creazione che soffre nel travaglio del parto è fatto da Paolo nel contesto del discorso sulle diverse operazioni dello Spirito Santo. Egli vede una continuità tra il gemito della creazione e quello del credente: “Essa (la creazione) non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente” (Rom 8, 23).
Lo Spirito Santo è la forza misteriosa che spinge la creazione verso il suo compimento. Parlando dell’evoluzione dell’ordine sociale, il concilio Vaticano II afferma che “lo Spirito di Dio che, con mirabile provvidenza, dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra, è presente a tale evoluzione” . Quello che il Concilio afferma dell’ordine sociale vale di tutti gli ambiti, compreso quello cosmico. In ogni sforzo disinteressato e in ogni progresso nella custodia del creato è all’opera lo Spirito Santo. Egli che è “il principio della creazione delle cose” , è anche il principio della sua evoluzione nel tempo. Questa infatti altro non è se non la creazione che continua.
Cosa apporta di specifico e di “personale” lo Spirito Santo nella creazione e nella evoluzione del cosmo? Egli non è all’origine, ma, per così dire, al termine della creazione e della redenzione, come non è all’origine, ma al termine del processo trinitario. Nella creazione -scrive san Basilio – il Padre è la causa principale, colui dal quale sono tutte le cose; il Figlio la causa efficiente, colui per mezzo del quale tutte le cose sono fatte; lo Spirito Santo è la causa perfezionante .
Dalle parole iniziali della Bibbia (“In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”), si deduce che l’azione creatrice dello Spirito è all’origine della perfezione del creato; egli, diremmo, non è tanto colui che fa passare il mondo dal nulla all’essere, quanto colui che lo fa passare dall’essere informe all’essere formato e perfetto, anche se va sempre tenuto presente che ogni azione che Dio compie fuori di sé è sempre opera congiunta di tutta la Trinità.
In altre parole, lo Spirito Santo è colui che, per sua natura, tende a far passare il creato dal caos al cosmo, a fare di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” appunto, secondo il significato originario di questa parola. Sant’Ambrogio osserva:
“Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ ” .
Un anonimo autore del II secolo vede questo prodigio ripetersi, con impressionante corrispondenza, nella nuova creazione che si attua nella Pasqua di Cristo. Quello che “lo Spirito di Dio” operò al momento della creazione, lo opera ora “lo Spirito di Cristo” nella redenzione. Scrive l’autore:
L’universo intero era sul punto di ricadere nel caos e di dissolversi per lo sgomento di fronte alla passione, quando Gesú emise il suo Spirito divino esclamando: “Padre, rimetto il mio Spirito nelle tue mani” (Lc 23, 46). Ed ecco che nel momento in cui tutte le cose erano agitate da un fremito e sconvolte per la paura, subito, all’effondersi dello Spirito divino, come rianimato, vivificato e consolidato, l’universo ritrovò la sua stabilità.
4. Come Cristo agisce nel creato
Resta una domanda che è quella più rilevante di tutte quando si tratta di ecologia: Cristo ha qualcosa da dire anche sui problemi pratici che la sfida ecologica pone all’umanità e alla Chiesa? In che senso possiamo dire che Cristo, operante attraverso il suo Spirito, è l’elemento chiave per un sano e realistico ecologismo cristiano?
Io penso che, sì, Cristo svolge una funzione decisiva anche sui problemi concreti della salvaguardia del creato, ma la svolge in maniera indiretta, operando sull’uomo e – attraverso l’uomo – sul creato. La svolge con il suo Vangelo che lo Spirito Santo “ricorda” ai credenti e rende vivo e operante nella storia, fino alla fine del mondo (Gv 16,13). Avviene come all’inizio della creazione: Dio crea il mondo e ne affida la custodia e la salvaguardia all’uomo. La preghiera eucaristica IV lo esprime così:
A tua immagine hai formato l’uomo,
alle sue mani operose hai affidato l’universo
perché nell’obbedienza a te, suo creatore,
esercitasse il dominio su tutto il creato.
La novità recata da Cristo in questo campo è che egli ha rivelato il vero senso della parola “dominio”, come esso è inteso da Dio, vale a dire come servizio. Dice nel Vangelo:
“Voi sapete che i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20, 25-29).
Tutte le motivazioni che i teologi hanno cercato di dare all’incarnazione, al “perché Dio si è fatto uomo”, si infrangono dinanzi all’evidenza di questa dichiarazione: “Sono venuto per servire e per dare la vita per molti”. Si tratta di applicare questa nuova idea di dominio anche al rapporto con il creato, servendosi, sì, di esso, ma anche servendolo, cioè rispettandolo, difendendolo e proteggendolo da ogni manomissione.
Cristo agisce nel creato come agisce nell’ambito sociale, e cioè con il suo precetto dell’amore del prossimo. In rapporto allo spazio, in senso per così dire sincronico, “prossimo” sono quelli che, ora e qui, ci vivono accanto; in rapporto al tempo, in senso diacronico, prossimi sono quelli che verranno dopo di noi, a cominciare dai bambini e i giovani di oggi, ai quali stiamo togliendo la possibilità di vivere in un pianeta abitabile, senza dover andare in giro con una maschera sul viso per respirare o “fondare colonie su altri pianeti”. Di tutti questi prossimi, nello spazio e nel tempo, Gesù ha detto: “L’avete fatto a me… Non lo avete fatto a me” (Mt 25, 40.45).
Come tutte le cose, anche la cura del creato si gioca su due livelli: il livello globale e il livello locale. Un detto moderno esorta a pensare globalmente, ma agire localmente: Think globally, act locally. Questo vuol dire che la conversione deve cominciare dall’individuo, cioè da ciascuno di noi. Francesco d’Assisi era solito dire ai suoi frati: “Non sono mai stato ladro di elemosine, nel chiederne o nell’usarne oltre il bisogno. Presi sempre meno di quanto mi occorreva, affinché gli altri poveri non fossero privati della loro parte; perché fare altrimenti, sarebbe rubare” .
Oggi questa regola potrebbe avere un’applicazione quanto mai utile per l’avvenire della terra. Anche noi dovremmo proporci: non essere ladri di risorse, usandone più del dovuto e sottraendole così a chi verrà dopo di noi. Tanto per cominciare, noi che lavoriamo di solito con le carte, potremmo cercare di non contribuire all’enorme e sconsiderato spreco che si fa di questa materia prima, privando così madre terra di qualche albero in meno.
Il Natale è un richiamo forte a questa sobrietà e parsimonia nell’uso delle cose. Ce ne da l’esempio lo stesso Creatore che, facendosi uomo, si è accontentato di una stalla per nascere. Ricordiamo quei due versi semplici e profondi del canto “Tu scendi dalle stelle” di Sant’Alfonso Maria dei Liguori: “A te che sei del mondo il Creatore – Mancano panni e fuoco, o mio Signore”.
Tutti, credenti e non credenti, siamo chiamati a impegnarci per l’ideale della sobrietà e del rispetto del creato, ma noi cristiani dobbiamo farlo per un motivo e con una intenzione in più e diversa. Se il Padre celeste ha fatto tutto “per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”, anche noi dobbiamo cercare di fare tutte le cose così: “per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”, cioè con la sua grazia e per la sua gloria. Anche quello che facciamo in questo giorno.
1. A. Neckam, De naturis rerum, I, 2 (ed. Th. Wright 1863, p. 12 s).
2.M. Blondel et A. Valensin, Correspondance, Aubier, Parigi 1965.
3.Duns Scoto, Opus Parisiense, III, 7, 4 (Opera omnia, XXIII, Parigi 1894, p. 303).
4.Mon Univers (1924), in Inno dell’Universo, a cura di N.M. Wildiers, Queriniana, Brescia 19952, p. 54.
5.T. de Chardin, La Messe sur le monde (1923), in Hymne de l’univers, Œuvres, éd. du Seuil, Parigi 1961, pp. 17 ss.
6.T. de Chardin, Comment je crois (1923), ed. du Seuil, Parigi 1969, p. 90).
7.Secondo S. Agostino, la fine consisterà nella separazione dei buoni dai cattivi, nella distruzione (conflagratio) del mondo presente e nel suo rinnovo: cf. De civitate Dei, XX, 30,5.
8.C. Mooney, Teilhard de Chardin et le Mystère du Christ, Paris 1966, pp. 229 ss.
9.Gaudium et Spes, 26.
10.Tommaso d’Aquino, Somma contro i gentili, IV, 20, n. 3570 (Marietti, Torino 1961, vol. 3, p. 286).
11.S. Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 38 (PG 32, 136).
12.S. Ambrogio, Sullo Spirito Santo, II, 32.
13.Anonimo Quartodecimano del II sec [Pseudo Ippolito], Omelia sulla Santa Pasqua, 106 (SCh 27, 1950); trad. Italiana in I più antichi testi pasquali della Chiesa, a cura di R. Cantalamessa, Roma, Edizioni Liturgiche 2009, pp. 93-94).
14.Celano, Specchio di perfezione 12 (FF 1695).
Fonte:http://www.cantalamessa.org
Le meditazioni di Avvento di quest’anno (due soltanto per ragioni di calendario) si propongono di
rimettere la persona divino-umana di Cristo al centro delle due grandi componenti che, insieme, costituiscono “il reale”, e cioè il cosmo e la storia, lo spazio e il tempo, il creato e l’uomo. Dobbiamo prendere atto, infatti, che, nonostante il gran parlare che si fa di lui, Cristo è un emarginato nella nostra cultura. Egli è del tutto assente –e per motivi più che comprensibili – nei tre principali dialoghi in cui la fede è impegnata nel mondo contemporaneo: quello con la scienza, quello con la filosofia e quello tra le religioni.
Lo scopo ultimo non è pero di ordine teorico, ma pratico. Si tratta di rimettere Cristo anzitutto “al centro” della nostra vita personale e della nostra visione del mondo, al centro delle tre virtù teologali di fede, speranza e carità. Il Natale è la stagione più propizia per una tale riflessione, dal momento che in esso ricordiamo il momento in cui il Verbo si fa carne, entrando, anche fisicamente nel creato e nella storia, nello spazio e nel tempo.
1. La terra era vuota
In questa prima meditazione riflettiamo sulla prima parte del programma annunciato: sul rapporto, cioè, tra Cristo e il cosmo. “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gen 1, 1-2). Un autore medievale, l’abate inglese Alexander Neckam ( 1157- 1217), così commenta in un suo poema questi versetti iniziali della Bibbia:
La terra era vuota perché il Verbo non si era ancora fatto carne.
La nostra terra era vuota perché non vi abitava ancora la pienezza della grazia e della verità.
Era vuota perché non ancora resa ferma e stabile con l’unione alla divinità.
La nostra abitazione terrena era vuota perché non era venuta la pienezza del tempo.
“E le tenebre ricoprivano l’abisso”. Non era infatti venuta ancora la luce vera
Che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” .
Credo che non si possa esprimere in modo più biblico e più suggestivo il rapporto che c’è tra creazione e incarnazione che leggendo in contrappunto l’inizio del libro della Genesi con l’inizio del Vangelo di Giovanni, come fa, appunto, questo autore. L’enciclica Laudato si’ dedica a questo tema un paragrafo che, data la sua brevità, possiamo ascoltare per intero:
Secondo la comprensione cristiana della realtà, il destino dell’intera creazione passa attraverso il mistero di Cristo, che è presente fin dall’origine: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16). Il prologo del Vangelo di Giovanni (1,1-18) mostra l’attività creatrice di Cristo come Parola divina (Logos). Ma questo prologo sorprende per la sua affermazione che questa Parola “si fece carne” (Gv 1,14). Una Persona della Trinità si è inserita nel cosmo creato, condividendone il destino fino alla croce. Dall’inizio del mondo, ma in modo particolare a partire dall’incarnazione, il mistero di Cristo opera in modo nascosto nell’insieme della realtà naturale, senza per questo ledere la sua autonomia. (nr. 99).
Si tratta di sapere quale posto occupa la persona di Cristo nei confronti dell’intero universo. Questo è oggi un compito più urgente che mai. Maurice Blondel scriveva a un amico:
“Davanti agli orizzonti ingranditi della scienza della natura e dell’umanità, non si può, senza tradire il cattolicesimo, rimanere su spiegazioni mediocri e a modi di vedere limitati che fanno del Cristo un incidente storico, che lo isolano nel Cosmo come un episodio posticcio, e sembrano fare di lui un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo” .
I testi biblici su cui si fonda la nostra fede sul ruolo cosmico di Cristo sono quelli di Paolo e di Giovanni citati nell’enciclica che qui conviene richiamare per esteso. Il primo (anche in ordine cronologico) è Colossesi 1, 15-17:
“Egli è l’immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura; poiché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili: troni, signorie, principati, potestà; tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di ogni cosa e tutte le cose sussistono in lui”.
L’altro testo è Giovanni 1, 3 e 10:
“Tutto è stato fatto per mezzo di lui [il Verbo] e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste… il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto”.
Nonostante l’impressionante consonanza di questi testi, è possibile individuare tra di loro una differenza di accento che avrà grande importanza nello sviluppo futuro della teologia. Per Giovanni, la cerniera che unisce creazione e redenzione è il momento in cui “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”; per Paolo, essa è piuttosto il momento della croce. Per il primo è l’incarnazione, per il secondo è il mistero pasquale. Il testo di Colossesi prosegue infatti dicendo:
“È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (col 1, 19-20)
La riflessione patristica, sotto l’incalzare delle eresie, ha valorizzato quasi soltanto un elemento di queste affermazioni: quello che essi dicono della persona di Cristo e della salvezza dell’uomo da lui operata; poco o nulla, invece, di quello che essi dicono della loro portata cosmica, cioè del significato di Cristo per il resto del creato.
Nei confronti degli ariani, questi testi servivano per affermare la divinità e la preesistenza di Cristo. Il Figlio di Dio non può essere una creatura, argomentava Atanasio, dal momento che è il creatore di tutto. La portata cosmica del Logos nella creazione non trova un corrispettivo adeguato nella redenzione. L’unico testo che si prestava a uno sviluppo in questo senso – e cioè quello di Romani 8, 19-22 sulla creazione che geme e soffre come per le doglie di un parto – non fu mai, che io sappia, il punto di partenza di una riflessione approfondita da parte dei Padri della Chiesa.
Alla domanda del “perché” della incarnazione, da sant’Atanasio (De incarnatione) ad sant’Anselmo da Aosta (Cur Deus homo), si risponde in sostanza con le parole del credo: “Propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelo”: “Per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo”. La prospettiva è quella antropologica del rapporto di Cristo con l’umanità: non abbraccia, se non incidentalmente, il rapporto di Cristo con il cosmo. Questo affiora solo di riflesso nella polemica contro gli gnostici e i manichei che opponevano creazione e redenzione, come opera di due dii diversi e ritenevano la materia e il cosmo come intrinsecamente estranei a Dio e incapaci di salvezza.
A un certo punto dello sviluppo della fede, nel Medioevo, si fa strada un’altra risposta alla domanda “Perché Dio si è fatto uomo”. Può la venuta di Cristo, ci si chiede, che è il “Primogenito di tutta la creazione” (Col 1, 15), dipendere totalmente dal peccato dell’uomo, intervenuto in seguito alla creazione?
Su questa linea, il Beato Duns Scoto fa il passo decisivo, sciogliendo l’Incarnazione dal suo legame essenziale con il peccato. Il motivo dell’Incarnazione, dice, sta nel fatto che Dio vuole avere, fuori di sé, qualcuno che lo ami in modo sommo e degno di sé . Cristo è voluto per se stesso, come il solo capace di amare il Padre – ed essere da lui amato – con un amore infinito, degno di Dio. Cristo si sarebbe incarnato anche se Adamo non avesse peccato, perché egli è il coronamento stesso della creazione, l’opera suprema di Dio. Il peccato dell’uomo ha determinato il modo dell’incarnazione conferendole il carattere di redenzione dal peccato, non il fatto stesso dell’Incarnazione. Questa ha un motivo trascendente, non occasionale.
2. La visione cosmica di Teilhard de Chardin
Quello di Scoto è un primo tentativo di dare un senso preciso alle affermazioni bibliche sul Cristo “per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato creato”; ma non si può certo parlare ancora, con lui, di una incidenza di fatto di Cristo su tutto il creato. Questo è invece possibile se facciamo un salto di secoli e, da Scoto, passiamo ai nostri giorni, a Teilhard de Chardin. Teilhard è preoccupato, come diceva Blondel, di evitare che, in una cultura dominata dall’idea dell’evoluzionismo, Cristo finisca per essere visto come “un incidente storico, isolato dal Cosmo”.
Mettendo a frutto le sue indiscusse conoscenze scientifiche, Teilhard de Chardin vede un parallelismo tra la evoluzione del mondo (la Cosmogenesi) e la progressiva formazione del Cristo totale (Cristogenesi). Cristo, non solo non è estraneo all’evoluzione del cosmo, ma, misteriosamente, la guida dall’interno e ne costituirà, al momento della Parusia, il compimento finale e la trasfigurazione, il “Punto Omega”, secondo il suo linguaggio.
L’autore deduce da queste premesse tutta una visione nuova e positiva del rapporto tra cristianesimo e realtà terrene. Per la prima volta nella storia del pensiero cristiano, un credente compone un “Inno alla materia” e un “Inno dell’universo” . Una fiammata di ottimismo attraversa un vasto settore della cristianità, fino a far sentire il suo influsso su un documento del Concilio Vaticano II, la costituzione su “La Chiesa e il mondo”, Gaudium et spes. C’è una rivalutazione delle attività terrene, prima tra tutte il lavoro umano. Le opere che il cristiano compie hanno un valore per se stesse, come miglioramento del mondo, non solo per l’intenzione pia con cui il cristiano le compie.
Teilhard de Chardin ha la penna particolarmente felice quando applica questa sua visione al sacramento dell’Eucaristia. Attraverso il lavoro e la vita quotidiana del credente, l’Eucaristia estende la sua azione all’intero cosmo. Ogni Eucaristia è una “Messa sul mondo” .
“Quando, attraverso il sacerdote, Cristo dice: ‘Questo è il mio corpo’, le sue parole vanno ben al di là del pezzo di pane sul quale sono pronunziate. Esse fanno nascere il corpo mistico tutto intero. Oltre l’Ostia transustanziata, l’azione sacerdotale si estende al cosmo intero” .
Non credo, tuttavia, che si possa definire questa spiritualità cosmica, come una spiritualità ecologica, nel senso attuale del termine. Prevale ancora nell’autore l’idea evolutiva del progresso, dell’ascesa del creato verso forme sempre più complesse e diversificate, mentre non è presente, se non indirettamente, la preoccupazione per la salvaguardia del creato. A suo tempo, non si era ancora presa coscienza chiara del pericolo che lo sviluppo – specie quello industriale – può rappresentare per il creato, o almeno per quella minuscola parte di esso che ospita l’umanità.
La fede biblica concorda con Teilhard de Chardin sul fatto che Cristo è il Punto Omega della storia, se per Punto Omega si intende colui che alla fine sottometterà a se tutte le cose, per consegnarle al Padre (1 Cor 15, 28), colui che inaugurerà “i cieli nuovi e la terra nuova” e pronuncerà il giudizio finale sul mondo e la sua storia (Mt 25, 31 ss.). Lo stesso Cristo risorto si definisce nell’Apocalisse “l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine” (Ap 22, 13).
La fede non giustifica invece l’idea di Teilhard de Chardin secondo cui l’atto finale della storia sarà un “coronamento” dell’evoluzione giunta al suo apogeo. Secondo la visione dominante in tutta la Bibbia, l’atto finale potrebbe essere il suo contrario, e cioè una brusca interruzione della storia, una crisi, un giudizio, il momento della separazione del grano dalla zizzania (Mt 13, 24 ss.). La Seconda Lettera di Pietro, dice che i cristiani aspettano “la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! (2 Pt 3, 12). Questa visione è quella che ha improntato il sentimento della Chiesa come si vede dalle parole iniziali del Dies irae: “Dieae irae dies illa solvet saecclum in favilla: “Giorno d’ira sarà quello, quando il mondo si sarà ridotto in cenere”. Una fine dunque del male, piuttosto che un apogeo del bene, per quanto riguarda il mondo presente .
Questo lato debole della visione di Teilhard de Chardin dipende da una lacuna segnalata anche da studiosi ammiratori del suo pensiero . Egli non è riuscito a integrare in modo organico e convincente, nella sua visione, l’aspetto negativo del peccato e quindi neppure la visione drammatica di Paolo secondo cui la riconciliazione e la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo avviene nella sua croce e nella sua morte.
3. Lo Spirito di Cristo
Esiste allora qualcosa che permetta di sfuggire al pericolo di fare di Cristo, come diceva Blondel, “un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo”? In altre parole, Cristo ha qualcosa da dire sul problema scottante dell’ecologia e della salvaguardia del creato, o questa si svolge del tutto indipendentemente da lui, come un problema che tocca semmai la teologia, ma non la cristologia?
La mancanza di una risposta chiara da parte dei teologi a questa domanda dipende, credo, come tante altre lacune, da una scarsa attenzione allo Spirito Santo e al suo rapporto con il Cristo risorto. “L’ultimo Adamo, scrive Paolo, divenne Spirito datore di vita” (1 Cor 15, 45); L’Apostolo arriva a dire, con una formula fin troppo concisa: “Il Signore è lo Spirito” (2 Cor 3, 17), per sottolineare che il Signore risorto agisce ormai nel mondo attraverso il suo “braccio operativo” che è lo Spirito Santo.
L’accenno alla creazione che soffre nel travaglio del parto è fatto da Paolo nel contesto del discorso sulle diverse operazioni dello Spirito Santo. Egli vede una continuità tra il gemito della creazione e quello del credente: “Essa (la creazione) non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente” (Rom 8, 23).
Lo Spirito Santo è la forza misteriosa che spinge la creazione verso il suo compimento. Parlando dell’evoluzione dell’ordine sociale, il concilio Vaticano II afferma che “lo Spirito di Dio che, con mirabile provvidenza, dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra, è presente a tale evoluzione” . Quello che il Concilio afferma dell’ordine sociale vale di tutti gli ambiti, compreso quello cosmico. In ogni sforzo disinteressato e in ogni progresso nella custodia del creato è all’opera lo Spirito Santo. Egli che è “il principio della creazione delle cose” , è anche il principio della sua evoluzione nel tempo. Questa infatti altro non è se non la creazione che continua.
Cosa apporta di specifico e di “personale” lo Spirito Santo nella creazione e nella evoluzione del cosmo? Egli non è all’origine, ma, per così dire, al termine della creazione e della redenzione, come non è all’origine, ma al termine del processo trinitario. Nella creazione -scrive san Basilio – il Padre è la causa principale, colui dal quale sono tutte le cose; il Figlio la causa efficiente, colui per mezzo del quale tutte le cose sono fatte; lo Spirito Santo è la causa perfezionante .
Dalle parole iniziali della Bibbia (“In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”), si deduce che l’azione creatrice dello Spirito è all’origine della perfezione del creato; egli, diremmo, non è tanto colui che fa passare il mondo dal nulla all’essere, quanto colui che lo fa passare dall’essere informe all’essere formato e perfetto, anche se va sempre tenuto presente che ogni azione che Dio compie fuori di sé è sempre opera congiunta di tutta la Trinità.
In altre parole, lo Spirito Santo è colui che, per sua natura, tende a far passare il creato dal caos al cosmo, a fare di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” appunto, secondo il significato originario di questa parola. Sant’Ambrogio osserva:
“Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ ” .
Un anonimo autore del II secolo vede questo prodigio ripetersi, con impressionante corrispondenza, nella nuova creazione che si attua nella Pasqua di Cristo. Quello che “lo Spirito di Dio” operò al momento della creazione, lo opera ora “lo Spirito di Cristo” nella redenzione. Scrive l’autore:
L’universo intero era sul punto di ricadere nel caos e di dissolversi per lo sgomento di fronte alla passione, quando Gesú emise il suo Spirito divino esclamando: “Padre, rimetto il mio Spirito nelle tue mani” (Lc 23, 46). Ed ecco che nel momento in cui tutte le cose erano agitate da un fremito e sconvolte per la paura, subito, all’effondersi dello Spirito divino, come rianimato, vivificato e consolidato, l’universo ritrovò la sua stabilità.
4. Come Cristo agisce nel creato
Resta una domanda che è quella più rilevante di tutte quando si tratta di ecologia: Cristo ha qualcosa da dire anche sui problemi pratici che la sfida ecologica pone all’umanità e alla Chiesa? In che senso possiamo dire che Cristo, operante attraverso il suo Spirito, è l’elemento chiave per un sano e realistico ecologismo cristiano?
Io penso che, sì, Cristo svolge una funzione decisiva anche sui problemi concreti della salvaguardia del creato, ma la svolge in maniera indiretta, operando sull’uomo e – attraverso l’uomo – sul creato. La svolge con il suo Vangelo che lo Spirito Santo “ricorda” ai credenti e rende vivo e operante nella storia, fino alla fine del mondo (Gv 16,13). Avviene come all’inizio della creazione: Dio crea il mondo e ne affida la custodia e la salvaguardia all’uomo. La preghiera eucaristica IV lo esprime così:
A tua immagine hai formato l’uomo,
alle sue mani operose hai affidato l’universo
perché nell’obbedienza a te, suo creatore,
esercitasse il dominio su tutto il creato.
La novità recata da Cristo in questo campo è che egli ha rivelato il vero senso della parola “dominio”, come esso è inteso da Dio, vale a dire come servizio. Dice nel Vangelo:
“Voi sapete che i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20, 25-29).
Tutte le motivazioni che i teologi hanno cercato di dare all’incarnazione, al “perché Dio si è fatto uomo”, si infrangono dinanzi all’evidenza di questa dichiarazione: “Sono venuto per servire e per dare la vita per molti”. Si tratta di applicare questa nuova idea di dominio anche al rapporto con il creato, servendosi, sì, di esso, ma anche servendolo, cioè rispettandolo, difendendolo e proteggendolo da ogni manomissione.
Cristo agisce nel creato come agisce nell’ambito sociale, e cioè con il suo precetto dell’amore del prossimo. In rapporto allo spazio, in senso per così dire sincronico, “prossimo” sono quelli che, ora e qui, ci vivono accanto; in rapporto al tempo, in senso diacronico, prossimi sono quelli che verranno dopo di noi, a cominciare dai bambini e i giovani di oggi, ai quali stiamo togliendo la possibilità di vivere in un pianeta abitabile, senza dover andare in giro con una maschera sul viso per respirare o “fondare colonie su altri pianeti”. Di tutti questi prossimi, nello spazio e nel tempo, Gesù ha detto: “L’avete fatto a me… Non lo avete fatto a me” (Mt 25, 40.45).
Come tutte le cose, anche la cura del creato si gioca su due livelli: il livello globale e il livello locale. Un detto moderno esorta a pensare globalmente, ma agire localmente: Think globally, act locally. Questo vuol dire che la conversione deve cominciare dall’individuo, cioè da ciascuno di noi. Francesco d’Assisi era solito dire ai suoi frati: “Non sono mai stato ladro di elemosine, nel chiederne o nell’usarne oltre il bisogno. Presi sempre meno di quanto mi occorreva, affinché gli altri poveri non fossero privati della loro parte; perché fare altrimenti, sarebbe rubare” .
Oggi questa regola potrebbe avere un’applicazione quanto mai utile per l’avvenire della terra. Anche noi dovremmo proporci: non essere ladri di risorse, usandone più del dovuto e sottraendole così a chi verrà dopo di noi. Tanto per cominciare, noi che lavoriamo di solito con le carte, potremmo cercare di non contribuire all’enorme e sconsiderato spreco che si fa di questa materia prima, privando così madre terra di qualche albero in meno.
Il Natale è un richiamo forte a questa sobrietà e parsimonia nell’uso delle cose. Ce ne da l’esempio lo stesso Creatore che, facendosi uomo, si è accontentato di una stalla per nascere. Ricordiamo quei due versi semplici e profondi del canto “Tu scendi dalle stelle” di Sant’Alfonso Maria dei Liguori: “A te che sei del mondo il Creatore – Mancano panni e fuoco, o mio Signore”.
Tutti, credenti e non credenti, siamo chiamati a impegnarci per l’ideale della sobrietà e del rispetto del creato, ma noi cristiani dobbiamo farlo per un motivo e con una intenzione in più e diversa. Se il Padre celeste ha fatto tutto “per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”, anche noi dobbiamo cercare di fare tutte le cose così: “per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”, cioè con la sua grazia e per la sua gloria. Anche quello che facciamo in questo giorno.
1. A. Neckam, De naturis rerum, I, 2 (ed. Th. Wright 1863, p. 12 s).
2.M. Blondel et A. Valensin, Correspondance, Aubier, Parigi 1965.
3.Duns Scoto, Opus Parisiense, III, 7, 4 (Opera omnia, XXIII, Parigi 1894, p. 303).
4.Mon Univers (1924), in Inno dell’Universo, a cura di N.M. Wildiers, Queriniana, Brescia 19952, p. 54.
5.T. de Chardin, La Messe sur le monde (1923), in Hymne de l’univers, Œuvres, éd. du Seuil, Parigi 1961, pp. 17 ss.
6.T. de Chardin, Comment je crois (1923), ed. du Seuil, Parigi 1969, p. 90).
7.Secondo S. Agostino, la fine consisterà nella separazione dei buoni dai cattivi, nella distruzione (conflagratio) del mondo presente e nel suo rinnovo: cf. De civitate Dei, XX, 30,5.
8.C. Mooney, Teilhard de Chardin et le Mystère du Christ, Paris 1966, pp. 229 ss.
9.Gaudium et Spes, 26.
10.Tommaso d’Aquino, Somma contro i gentili, IV, 20, n. 3570 (Marietti, Torino 1961, vol. 3, p. 286).
11.S. Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 38 (PG 32, 136).
12.S. Ambrogio, Sullo Spirito Santo, II, 32.
13.Anonimo Quartodecimano del II sec [Pseudo Ippolito], Omelia sulla Santa Pasqua, 106 (SCh 27, 1950); trad. Italiana in I più antichi testi pasquali della Chiesa, a cura di R. Cantalamessa, Roma, Edizioni Liturgiche 2009, pp. 93-94).
14.Celano, Specchio di perfezione 12 (FF 1695).
Fonte:http://www.cantalamessa.org
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