Jesùs Manuel Garcìa, LECTIO" Il deserto nella città,"

I DOMENICA DI QUARESIMA

LECTIO - ANNO B
Prima lettura: Genesi 9,8-15
 Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza
con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi,

uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con
tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta
alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra». Dio disse:
«Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con
voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno
dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco
sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne,
e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne».

 L'Alleanza di Dio con Noè è una retroproiezione dell'alleanza sinaitica, fino ai primordi
della storia umana, quindi con i lontani antenati del popolo ebraico. Di fatti Noè, tramite
suo figlio Sem, è il capostipite degli undici «patriarchi» postdiluviani che sfociano in
Abramo, il padre del popolo eletto e di tutti i credenti (Gn 11,10-26; Rm 4,11).
In realtà Dio aveva benedetto l'uomo fin dal primo istante della sua esistenza (Gn
1,28,31) solo che la caduta sembrava avere interrotti i loro rapporti, ma con Noè la storia
ricomincia da capo. Dio benedice Noè e la sua discendenza (cf. Gn 9,1), depone la sua ira
anche se non l'ha mai avuta e torna amico dell'uomo e di tutti gli esseri del creato. Non farà
più sentire la sua collera e la sua vendetta su di loro (diluvio) anche se questi di nuovo
dovessero abbandonare le vie della rettitudine e del bene.
Il Dio dell'antico Testamento scopre il suo vero volto: sembra che faccia promesse a una
sola famiglia, ma le fa a tutti gli uomini poiché in quella famiglia c'è raccolta tutta la nuova
umanità.
Il «segno» che ricorda il patto che Dio stabilisce con l'uomo è l'arcobaleno. C'era anche
prima della comparsa di Noè, ma d'ora in poi ricorderà agli uomini la parola di Dio, la sua
bontà misericordiosa che si stenderà sul loro presente e sul loro avvenire. Ogni volta che
apparirà sarà un segno di propiziazione e di salvezza.

Seconda lettura: 1Pietro 3,18-22


 Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti,
per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito
andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato
di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si
fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo
dell’acqua. Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta
via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una
buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo
essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
 La I Lettera di Pietro, sebbene di carattere pastorale, non è dei più facili testi del nuovo
Testamento. Soprattutto il brano della liturgia odierna.
I cristiani debbono saper sopportare pazientemente le derisioni, le ingiurie, le persecuzioni
che vengono dai loro vecchi commilitoni (3,8-18), facendosi forti della testimonianza
di Gesù che ha patito sofferenze mortali per i peccati degli altri, tra i quali una volta si trovavano
anche loro, i destinatari dello scritto petrino.
Ma in Gesù la morte non è stata la sua fine in assoluto, ma solo della sua esistenza nella
carne, cioè in una condizione di fragilità e debolezza (cf. Mt 26,41). Morendo non ha fatto
altro che passare a una vita nuova, dominata, in contrapposizione alla precedente, dallo
«spirito» perciò spirituale. È questa condizione esistenziale che gli ha consentito di «salire»
nel mondo di Dio, nei cieli dove ha conseguito una sovranità che lo pone al di sopra degli
stessi Principati e delle Potenze. Addirittura Gesù è passato alla destra di Dio, siede al suo
fianco, partecipa della sua potestà giudiziaria.
Il potere di Gesù giudice, secondo l'autore, è universale, si estende a tutti gli uomini, «ai
vivi e ai morti» (ivi, 4.6), ma prima della giustizia essi sono chiamati a sperimentare la sua
salvezza. A tal proposito l'autore inserisce una notizia che si trova riferita solo nel suo
scritto: la visita del Cristo risorto agli spiriti che si trovavano ancora incatenati nello Sheol,
nel regno dei morti, in prigione, quindi in attesa di essere liberati.
I destinatari di questa azione liberatrice non sono i giusti dell'antico Testamento, ma i
contemporanei di Noè, per di più quelli che non credettero alla sua iniziativa e per tale rifiuto
furono puniti.
Chi siano questi spiriti ai quali Gesù va ad annunziare la salvezza non e facile a determinarsi.
Se i «demoni», di cui parla il Libro di Enoc o gli «angeli», oppure «i figli di Dio»
che si invaghirono delle figlie degli uomini di cui parla Genesi 6,1-6 rimane problematico.
Ad ogni modo sono sempre esseri impenitenti e la salvezza messianica è accordata anche a

loro: persino ai «peccatori più inveterati di tutti i tempi, anche della preistoria» (Bibbia e
Catechismo, Paideia, 1999, p. 163).
Vangelo: Marco 1,12-15
 In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta
giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di
Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel
Vangelo».
Esegesi
Gesù inizia la sua attività messianica con un rito preliminare, il battesimo, a cui fa seguito
un periodo di raccoglimento e di riflessione, un breve «noviziato», che termina con
un pronunciamento programmatico.
Il battesimo è una scelta e una risposta determinante anche nella vita di Gesù, ma prima
di mettersi all'opera ha bisogno di fare un po' di chiarezza nel suo animo, di comprendere
più a fondo il senso della chiamata che l'ha raggiunto in precedenza, di capire la maniera
più opportuna di darle esecuzione. Il deserto, quindi, la solitudine, la preghiera, l'ascolto
della parola non potranno non contribuire a portare luce sulla sua situazione interiore.
Un profeta sembra che abbia una veste d'obbligo da indossare, un atteggiamento inconfondibile
da assumere, quello della severità, del rimprovero, quando non dell'asprezza,
come Giovanni dava a vedere. A prima vista le dimostrazioni di potenza sembravano rispondere
all'agire divino più di quello della mitezza, dell'umiltà, del nascondimento, ma
nella tradizione biblica aveva preso posto una figura insolita che raggiungeva il successo
passando attraverso le umiliazioni e le sofferenze. Un'immagine che a Gesù era stata fatta
balenare nel battesimo e che ora nel deserto cerca di vagliare. L'alternativa pertanto era tra
il discendente davidico e il «servo di JHWH».
Il luogo di ritiro di Gesù è precisato solo vagamente. Dall'esperienza sinaitica il «deserto»
era diventato il luogo privilegiato dell'incontro dell'uomo con Dio. Qui Mosè aveva
parlato a tu per tu con il Signore e qui i profeti avevano invitato il popolo a ritrovare o a
rinnovare l'intesa con l'Altissimo (cfr. Os 2,16-22; Gr 2,2-3; Dt 8,2; Ez 16,23). Non per nulla
Gesù «è spinto» (Matteo dice «fu condotto») nel deserto dallo Spirito. Quindi si tratta di
una prova, di un confronto, di una verifica impostagli da Dio stesso. È un esame che egli
dovrà compiere sul suo orientamento vocazionale e sull'attuazione che intende dargli.
I vangeli non fanno la cronaca di questo soggiorno di Gesù nel deserto; più sobrio di
tutti è ancora Marco che ricorda appena la notizia. In tutti i modi segnala la durata e ricorda
il combattimento spirituale che Ge

è già convenzionale; denota soltanto un periodo di tempo appropriato per valutare una
certa esperienza. Gli israeliti sono lasciati vagare per quarant'anni nel deserto per verificare
la loro fedeltà a JHWH (Es 16,35; Nm 14,33-34); Mosè rimane con Dio sul monte per 40
giorni «senza mangiare pane e bere acqua» (Es 24,18; 34.28); Giosuè e i suoi compagni impiegano
40 giorni per esplorare il paese di Canaan (Nm 13,25); Ezechiele giacerà sul fianco
sinistro 40 giorni per scontare l'empietà d'Israele (4,6); Gesù risorto apparirà ai discepoli
per lo spazio di 40 giorni (At 1,9).
Le «prove» o tentazioni che Gesù subisce nel deserto hanno la durata necessaria per verificare
la scelta compiuta. Marco non lo dice chiaramente come gli altri due sinottici, ma
stringe tutta la singolare esperienza di Gesù in questo soggiorno nel deserto nel verbo
«peirazomenos», «per essere tentato», che la volgata traduce con un imperfetto «et tentabatur»,
si può dire iterativo, come a indicare che non fu una prova sporadica, ma persistente
per tutto il tempo trascorso nel deserto. Se si volesse essere più precisi occorrerebbe dire
che si tratta di una tentazione che durerà tutta la sua esistenza terrestre poiché la proposta
divina troverà sempre reazioni contrarie, fino al Golgota.
La tentazione è una prova che gli evangelisti, in linea con la tradizione, attribuiscono
all'Avversario del bene, a Satana. Marco non dice di più, poiché Satana è un personaggio
noto ai suoi lettori. Per l'uomo biblico anche il male ha un punto di partenza, un principio.
Satana è una creatura che si è ribellata a Dio e si è messa a ostacolare la realizzazione della
sua opera, soprattutto la felicità dell'uomo. Egli comparirà spesso nel nuovo Testamento,
ma la sua identità o identificazione si fa sempre più problematica alla luce della nuova
esegesi. La tentazione, ricorda Giacomo, scaturisce innanzitutto dall'intimo di ciascun uomo
e raccoglie le voci del proprio egoismo in contrapposizione al piano di Dio e al bene
comune. Queste voci sono quelle che Gesù cerca di fare rientrare per far spazio alla proposta
del padre. Matteo dice che sono voci di facile prestigio, di spettacolarità, di potenza e
di gloria, ma egli deve sapere che il percorso segnato da Dio è fatto di prestazioni scomode,
onerose, umilianti. Deve capirlo e soprattutto accettarlo.
Marco sorvola i temi della tentazione e ne segnala in anticipo la vittoria poiché menziona
accanto a Gesù la presenza delle «fiere» e ricorda il servizio prestato dagli «angeli».
Due «dettagli» che riportano alla situazione delle origini prima del peccato quando l'uomo
era in pace con le fiere e godeva dell'amicizia di Dio (cfr. Is 11,6-9). Il «paradiso» si poteva
considerare riaperto, come Gesù segnalerà tra breve a Natanaele (cf. Gv 1,51). Il Cristo si
scontra con il suo grande avversario ossia con le resistenze interiori che insorgono contro il
cammino impostagli dallo Spirito, ma assapora già le primizie della vittoria che alla fine
conseguirà.
Il secondo quadro di Mc 1,12-15 segnala l'apertura dell'attività messianica di Gesù. Essa
coincide più metodologicamente che realmente con la scomparsa di scena di Giovanni Battista.
La missione di Gesù è singolare, unica; non si confonde, meno ancora si commescola
con quella di alcun altro. Egli comincia a parlare quando tutti gli altri tacciono. Con lui si
«compiono i tempi» dell'attesa ovvero della preparazione e incomincia la realizzazione
della salvezza. E solo lui è il mediatore degli uomini presso Dio. Molti profeti l'hanno preceduto
ma nessuno può stargli a fianco, a fargli ombra poiché solo da lui proviene il dono
di Dio. Infatti nella scena della trasfigurazione compaiono accanto a lui Mosè ed Elia, ma

dopo le parole del Padre «questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto,
ascoltatelo» entrambi si eclissano e sulla scena rimane «Gesù solo» (Mc 9,7-8).
Il teatro della prima apparizione di Gesù contrariamente alle attese è la Galilea. Un richiamo
non casuale poiché non era la terra più indicata per tali attuazioni. I fatti non si potevano
smentire, bisognava però confermarli e, se fosse stato possibile, apporvi l'avallo
delle Scritture. Marco si accontenta di riferire il fatto, Matteo fa appello, anche se arbitrariamente,
a un detto di Isaia (8,23-9.1).
I temi della predicazione di Gesù sono il vangelo, il regno di Dio, la conversione quale
condizione per accogliere l'uno e l'altro. Il «vangelo di Dio» è un'espressione propria di
Marco e designa «la buona novella che Dio intende far pervenire agli uomini», cioè l'avvenuta
realizzazione delle sue promesse, la fine di qualsiasi malinteso e delle incomprensioni
che si erano verificate nel tempo tra l'uomo e Dio e tra gli uomini tra di loro. Il tutto equivaleva
all'instaurazione del regno di Dio. Non è che il Signore avviava un suo particolare
dominio sulla terra, sugli uomini; il suo progetto al contrario era realizzare tra gli esseri
del creato una convivenza come quella che regnava ipoteticamente nel suo mondo. Essi
saranno più attenti alla sua parola e comprensivi gli uni verso gli altri.
Le condizioni per entrare nel regno di Dio, vederlo realizzato sulla terra è credere, riconoscere
cioè nella parola di Gesù una proposta che viene dall'alto e conformare ad essa la
propria condotta. La conversione non è un mutamento passeggero ma radicale; si tratta di
cambiare modo di pensare e più ancora di agire; deporre le proprie aspirazioni egoistiche
e acquistare quelle di Dio che sono solo desideri di bene.
Il termine greco metanoia è sinonimo di mutazione di pensiero ma più che nei riguardi
della divinità nei confronti dei propri simili. Il regno di Dio si realizza quando gli uomini
tentano di capirsi e riescono ad amarsi tra di loro come li ama Dio. Il regno porta la denominazione
di Dio ma deve essere realizzato dagli uomini.
Meditazione
Nelle tre letture con cui la liturgia della Parola di questa prima domenica ci introduce
nel tempo quaresimale (quel tempo che un antico inno chiama tempus acceptabile, tempo
favorevole che deve essere accolto come momento di grazia nel cammino di conversione
di ogni credente), c'è un forte richiamo al tema della alleanza, della comunione e della fedeltà
di Dio all'uomo e al mondo che ha creato. Il segno dell'arco di Dio sulle nubi ricongiunge
il cielo alla terra e ristabilisce quel legame interrotto dal peccato del primo uomo,
Adamo. È una alleanza tra Dio e l'uomo e «con ogni essere che vive in ogni carne» (Gen
9,15).
Lo sguardo di speranza a cui l'arco sulle nubi orienta si spinge fino ad abbracciare ogni
creatura e Dio stesso fissa il suo sguardo su questo segno di comunione per fare memoria
della sua fedeltà: «Io lo guarderò per ricordare l'alleanza eterna... e non ci saranno più le
acque... per distruggere ogni carne» (9,16.15).
La memoria dell'alleanza eterna assume nella storia della salvezza il volto di Gesù, il
Figlio di Dio e il Figlio dell'uomo; nel racconto delle tentazioni Gesù si rivela come colui

che, tentato nella sua carne di uomo, si affida totalmente alla parola del Padre e vince ogni
idolatria, ristabilendo quell'armonia impressa da Dio nella sua creazione. La vittoria di
Cristo sul male che tenta di distruggere ogni legame tra Dio e la sua creazione è radicale:
raggiunge il luogo in cui questo male dimora, strappando da esso ogni creatura. La fedeltà
di Dio all'uomo è così annunciata sino agli inferi (cfr. IPt 3,19-29). È il mistero pasquale del
Cristo morto e risorto che la liturgia ci fa intravedere fin dall'inizio del cammino quaresimale;
ma è il mistero a cui ogni credente partecipa mediante il battesimo, diventando segno
di questa alleanza nuova ed eterna in Cristo.
Tra i tre testi scritturistici proposti dalla liturgia, certamente quello che maggiormente
caratterizza la prima domenica di quaresima è il racconto delle tentazioni di Gesù. In questa
prospettiva, l'icona cristologica che il racconto evangelico ci tratteggia è come uno
squarcio sul cammino di sequela che il discepolo di Gesù è chiamato a rinnovare nel tempo
quaresimale; collocare all'inizio di questo cammino il racconto delle tentazione, diventa
allora un richiamo alla essenzialità e alla verità della propria scelta. Si è posti di fronte alla
serietà dell'impegno battesimale, mediante la consapevolezza di ciò che quotidianamente
comporta il vivere da figli in sintonia con la volontà del Padre; si è condotti dallo Spirito
nel deserto per prendere coscienza di questa presenza misteriosa che guida i nostri passi
ed educa la nostra libertà nelle scelte secondo Dio (il discernimento spirituale) ; si è invitati
ad accogliere con umiltà la nostra debolezza, sapendo che essa è stata accolta e trasfigurata
da Cristo stesso; si è messi in guardia da ogni forma di idolatria che intacca il servizio
all'unico Signore e che rende la nostra vita divisa interiormente; si è educati a camminare
pazientemente verso la Pasqua, accogliendo nel volto di Cristo tentato e nel volto di Cristo
trasfigurato l'unica e inaudita bellezza del Dio che si dona all'uomo per strapparlo alla
morte e comunicargli la vita.
Il ciclo delle letture dell'anno B ci presenta il racconto delle tentazioni secondo la versione
di Marco. Lo scontro tra Gesù e lo spirito del male, narrato da Matteo e Luca attraverso
una descrizione fortemente drammatica e mediante un martellante dialogo in cui si
alternano le suggestioni diaboliche e i testi della Scrittura, è raccontato da Marco in due soli
versetti. L'essenzialità della narrazione, spogliata di ogni elemento descrittivo, rende ancora
più brusco il passaggio dalla esperienza di pienezza del battesimo (dopo aver udito la
parola del Padre, «Tu sei il Figlio mio, l'amato», Gesù viene spinto «subito» nel deserto). E,
d'altra parte, nei due versetti di Marco abbiamo tutti gli elementi necessari per definire
questo 'inaudito' episodio del cammino di Gesù: lo Spirito che «lo sospinge nel deserto»; il
deserto come luogo della prova; i quaranta giorni, come tempo di prova; la tentazione e il
tentatore. Satana. In più Marco aggiunge: «(Gesù) stava con le bestie selvatiche e gli angeli
lo servivano» (v. 13). Possiamo dire che in questa prospettiva il racconto diventa quasi una
icona in cui ogni elemento acquista una portata simbolica, sia in rapporto a Gesù, sia in
rapporto al lettore. Sottolineiamo alcuni elementi.
Anzitutto la collocazione dell'esperienza delle tentazioni tra il battesimo e l'inizio del
ministero pubblico di Gesù appare significativa; diventa come lo squarcio iniziale di tutta
la vicenda terrena di Cristo, il suo rapporto con il Regno e la sua relazione con quell'umanità
di cui ha assunto totalmente la fragilità e la povertà. E qui possiamo anche compren-
dere, sotto un'altra angolatura, la collocazione delle tentazione subito dopo il battesimo. Al
Giordano, Gesù si mescola ai peccatori che vanno da Giovanni per farsi battezzare; è appunto
la solidarietà con l'uomo peccatore che si manifesta in modo drammatico proprio
nel racconto delle tentazioni. Così collocata all'inizio del vangelo, l'esperienza del deserto
appare non solo come il primo atto pubblico di Gesù (quasi un solenne 'sì' al Padre e
all'uomo) , ma come il quadro entro il quale si svolgerà tutto il suo ministero, fino alla croce.
Vediamo così che lo Spirito, donato al battesimo, non separa Gesù dalla storia e dalle
sue ambiguità, dalle sue contraddizioni; al contrario, colloca Gesù all'interno della storia e
all'interno della lotta che in essa si svolge. E proprio qui si rivela in profondità e nella totale
trasparenza dalle ambiguità che affascinano l'uomo ciò che il Padre dice in Mc 1,11: «Tu
sei il Figlio mio, l'amato». Inoltre, se teniamo presente la ricca simbologia biblica degli
elementi del racconto (che ci rimanda al cammino di Israele nel deserto e all'ingresso nella
terra promessa), allora possiamo scorgere nella successione battesimo - tentazioni nel deserto
- proclamazione del Regno, una sorta di cammino in cui Gesù ripercorre la storia di
Israele: passaggio attraverso le acque del Mar Rosso, permanenza nel deserto per quarant'anni,
ingresso nella Terra promessa sotto la guida di Giosuè.
Pur nella loro scarna essenzialità descrittiva, i personaggi presentati da Marco ci rivelano
ciò che avviene nell'esperienza della tentazione. Gesù è delineato come l'icona
dell'uomo 'spirituale', che sa discernere secondo lo Spirito. E questo non perché è collocato
in uno spazio immateriale e estraneo alla drammatica situazione umana, quasi sottratto alla
fatica di ogni scelta o esente dalla prova, ma perché ci insegna a scegliere secondo Dio,
donandoci i criteri per un reale discernimento 'spirituale'. Gesù accetta la sfida della tentazione
e attraverso di essa scopre in profondità la sua identità di Figlio di Dio, quel nome
udito nella teofania del battesimo. Accanto a Gesù vi è la misteriosa presenza dello Spirito.
È lui a condurre (a «sospingere», ekbalein) Gesù nel cuore stesso della lotta, nella solitudine
del deserto, il luogo dell'esperienza della fragilità umana; qui, e non altrove, matura il discernimento
e lo Spirito sta a fianco di Gesù in questo cammino, quasi a guidarlo per mano,
facendosi presente nella forza della Parola donata come arma per combattere la suggestione
diabolica (aspetto presente nei racconti di Luca e Matteo). E infine, di fronte a Gesù,
vi è il tentatore, che Marco chiama Satana. Esso appare come la proposta alternativa alla
parola di Dio, la contro-proposta subdola, affascinante, falsa, idolatrica, che abusa della
debolezza dell'uomo, lo tenta nella sua carne per raggiungere il cuore. Satana vuole distruggere
il rapporto confidenziale e obbedienziale tra uomo e Dio, presentare Dio come
nemico dell'uomo, geloso della libertà e delle possibilità che gli sono offerte. E più l'immagine
di Dio crea paura nell'uomo, più lo minaccia diventando ingombrante e soffocante,
più il tentatore è sicuro della riuscita della sua opera: separare, creare un progetto contrario
a Dio, illusorio, in cui l'uomo è schiavo del proprio idolo, vittima del suo «essere come
Dio» (cfr. Gen 3,5).
Da questa esperienza Gesù non fugge: accettando la nostra umanità (e la fragilità di cui
la tentazione è elemento costitutivo), in essa riporta la vittoria su ogni idolatria che mira a
separare l'uomo da Dio. E Marco sottolinea, quasi visivamente, il frutto di questa vittoria:

è l'armonia ristabilita tra il mondo creato e il mondo sovrumano, di cui Gesù, e in esso
ogni uomo, è testimone.
Veramente «il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino». A noi non resta che entrare
con Gesù in questo luogo di prova per lasciarci trasformare a sua immagine; non resta
che accogliere l'invito «convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15).

Correzione con amore
Il padre di Mardocheo - il futuro celebre rabbi di Lechowitz - si lamentava
della pigrizia del figlio nello studio. In città giunse un santo rabbino.
Il padre gli condusse Mardocheo perché lo correggesse. Il rabbino
volle rimanere solo col ragazzo, lo strinse al cuore e se lo tenne a lungo
affettuosamente vicino. Quando il padre ritornò, il rabbino gli disse:
«Ho fatto a Mardocheo un po' di morale; d'ora in poi la costanza non
gli mancherà». Quando, ormai adulto e famoso, Mardocheo, divenuto
rabbi di Lechowitz, raccontava questo episodio, diceva: «Ho imparato
allora come si convertono gli uomini».
(Racconto ebraico)
VENEZIA - 2018

Preghiere e racconti
Dai sassi emerge la vita, crediamo nell'amore
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato
da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato,
Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di
Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Nel giardino di pietre che è il deserto, nuovo spettrale giardino dell’Eden, Gesù vince il
vecchio, spento sguardo sulle cose (le tentazioni) e ci aiuta a seminare occhi nuovi sulla vita.
Que sueno el de la vita: sobre aquel abiso petreo! Che sogno quello della vita e sopra quale
abisso di pietre (Miguel de Unamuno). Il deserto e il regno, la sterilità e la fioritura, la
morte e la vita: i versetti di Marco dipingono nella prima pagina del suo vangelo i paesaggi
del cuore dell’uomo.
Gesù inizia dal deserto: dalla sete, dalla solitudine, dall’angoscia delle interminabili
notti. Sceglie di entrare da subito nel paesaggio della nostra fatica di vivere. Ci sta quaranta
giorni, un tempo lungo e simbolico. Si fa umanità lungo le piste aride delle mie faticose
traversate. In questo luogo di morte Gesù gioca la partita decisiva, questione di vita o di
morte. Il Messia è tentato di tradire la sua missione per l’uomo: preferire il suo successo
personale alla mia guarigione.
Resiste, e in quei quaranta giorni la pietraia intorno a lui si popola. Dai sassi emerge la
vita. Una fioritura di creature selvatiche, sbucate da chissà dove, e presenze lucenti di angeli
a rischiarare le notti. Da quando Gesù lo ha abitato, non c’è più deserto che non sia
benedetto da Dio, dove non lampeggino frammenti scintillanti di regno. Il regno di Dio è
simile a un deserto che germoglia la vita, un rimettere al mondo persone disgregate e ferite.
Un’energia trasformativa
risanante cova tra le pietre di ogni nostra tristezza, come una buona notizia: Dio è vicino
convertitevi e credete nel Vangelo. Credete nell’amore. All’inizio di Quaresima, come ai
tornanti della vita, queste parole non sono una ingiunzione, ma una promessa. Perché ciò
che converte il cuore dell’uomo è sempre una promessa di più gioia, un sogno di più vita.
Che Gesù racchiude dentro la primavera di una parola nuova, la parola generatrice di tutto
il suo messaggio: il regno di Dio è vicino.
Il Regno di Dio è il mondo nuovo come Dio lo sogna, e si è fatto vicino da quando Dio è
venuto ad abitare, con amore, il nostro deserto. Gesù non viene per denunciare, ma per
annunciare, viene come il messaggero di una novità straordinariamente promettente. Il
suo annuncio è un 'sì', e non un 'no': è possibile per tutti vivere meglio, vivere una vita
buona bella beata come la sua.
Per raggiungerla non basta lo sforzo, devi prima conoscere la bellezza di ciò che sta
succedendo, la grandezza di un dono che viene da fuori di noi. E questo dono è Dio stesso,
che è vicino, che è dentro di te, mite e possente energia, dentro il mondo come seme in
grembo di donna. E il suo scopo è farti diventare il meglio di ciò che puoi diventare.
(Ermes Ronchi)

“Convertitevi e credete nel Vangelo!”
Nel Il vangelo di questa I domenica di Quaresima è breve: quattro versetti, anche se in
realtà mi concentrerò quasi esclusivamente sui primi due, avendo commentato i vv. 14-15
poche domeniche fa (III domenica del tempo Ordinario). I vv. 12-13 sono molto intensi,
capaci di comunicarci l’essenziale sulle tentazioni di Gesù, anche se nel nostro immaginario
è impressa, dunque da noi memorizzata, la narrazione più drammatica e più precisa
dei vangeli secondo Matteo e Luca (cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13).
Concentriamoci dunque sul racconto di Marco. Gesù è stato battezzato nel fiume Giordano
da Giovanni, il suo maestro, e nell’uscire dall’acqua ha visto i cieli aprirsi, lo Spirito
di Dio scendere su di lui con la dolcezza di una colomba (cf. Mc 1,9-10) e, soprattutto, ha
sentito una dichiarazione rivolta a lui solo. Dal cielo, infatti, dal luogo dimora di Dio, lo
raggiunge una voce che proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho messo tutta la mia
gioia” (Mc 1,11; cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Is 42,1). È la voce del Padre, che gli conferma il proprio
amore e la sua identità di Figlio amato; è la voce che lo abilita, con la forza dello Spirito,
“compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), alla missione pubblica tra i figli
di Israele.
Ma appena questo è avvenuto, “subito” (euthýs) lo Spirito disceso su di lui lo spinge
dove i cieli non sono aperti, bensì chiusi; lo spinge nel deserto, dove è presente più che mai
il diavolo, Satana, il tentatore, la cui missione è dividere e separare, soprattutto da Dio.
Gesù entra così in una zona d’ombra, entra nella prova, perché il deserto è terra di prova,
di tentazione.
Lo era stato per Israele, “battezzato” e uscito dalle acque del mar Rosso; lo era stato per
Mosè e per Elia; lo era stato per quanti erano andati nel deserto per preparare una strada
al Signore (cf. Is 40,3), combattendo da “figli della luce” contro il demonio e la sua tenebra;
lo era stato per Giovanni il Battista. Gesù dunque sta camminando sulle tracce lasciate dagli
inviati di Dio, e in tal modo sa che deve prepararsi a quella che sarà la prova, la lotta
quotidiana, fino alla morte. In quel deserto di Giuda, accanto al mar Morto, tra quelle rocce
aride, Gesù “dimora quaranta giorni, continuamente tentato da Satana”.
La sua è una lotta corpo a corpo, della quale nessuno è spettatore; è una lotta interiore
attraverso la quale deve imparare l’obbedienza del Figlio – “imparò l’obbedienza dalle cose
che patì” (Eb 5,8), legge con intelligenza l’autore della Lettera agli Ebrei – e vincere il
tentatore che si oppone alla venuta del Regno nel modo in cui Dio lo vuole e che Gesù deve
assumere e fare suo, fino a rivestirsene. Marco non ci dice nulla di preciso su queste
tentazioni che gli altri evangelisti, in una sorta di midrash, racconteranno come lotta contro
le tre libidines dell’eros, della ricchezza e del potere, insomma lotta contro una manifestazione
mondana, prepotente e arrogante del Regno.
L’evangelista più antico mette invece l’accento sul fatto che Gesù è costantemente tentato,
per quaranta giorni, senza mai cedere a una visione trionfalistica della venuta del Regno.
Pienamente sottomesso al Padre, creatura tra le creature non umane del deserto (rocce,
pietre, arbusti, rettili, volatili, bestie selvagge), Gesù è in profonda comunione con tutta
la creazione. È come collocato al centro di essa, è il vero Adamo come Dio l’ha voluto, capace
di vivere riconciliato e in pace con tutte le creature e con tutta la terra.

Gesù appare come l’uomo mite, armonioso, rappacificato con il cielo e la terra, così da
inaugurare l’era messianica profetizzata da Isaia: “Il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera
si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme … Il leone si
ciberà di paglia come il bue, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino
metterà la mano nel covo del serpente velenoso” (Is 11,6-8). Sì, è il Regno messianico promesso
da Dio a tutta la terra, che certamente è veniente. Gesù lo inaugura nel deserto, per
questo subito dopo può proclamare: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino”.

Ma occorre ricordare che questa “armonia” e questa “pace” sono a caro prezzo: il prezzo
della kénosis, dello svuotamento e dell’abbassamento di colui che “era in condizione di
Dio e svuotò se stesso (heautòn ekénosen)”, diventando uomo e spogliandosi delle sue prerogative
divine, invece di tenerle gelosamente per se stesso e di considerarle un privilegio
(cf. Fil 2,6-7). Proprio in questa profonda umiliazione, che è testimonianza della sua tentazione
vera, reale (non un teatrino esemplare per noi!), Gesù fa pace tra cielo e terra, sicché
le creature del cielo, gli angeli, nel deserto gli si accostano e lo servono. Lo riconoscono
quale Dio nella carne di un uomo: Gesù da Nazaret, il figlio di Maria.
Gesù, amato in pienezza dell’amore del Padre dichiaratogli nell’ora del battesimo e accompagnato
dallo Spirito santo, è ormai operante quale vincitore su Satana, sul male, sulla
malattia, sulla morte. È il Messia veniente che porta la vita; basta dunque seguirlo, accogliendo
il suo invito pressante che riassume in sé tutto il vangelo appena iniziato: “Convertitevi
e credete nel Vangelo!”.
(Enzo Bianchi)
Il deserto nella città
Quando partii per il deserto avevo veramente lasciato tutto, com’è l’invito di Gesù: famiglia,
denaro, casa. Tutto avevo lasciato meno… le mie idee che avevo su Dio e che tenevo
ben strette riassunte in qualche grosso libro di teologia che avevo trascinato con me
laggiù.
E là sulla sabbia continuavo a leggerle, a rileggerle, come se Dio fosse contenuto in una
idea e se avendo belle idee su di Lui potessi comunicare con Lui. Il mio maestro di noviziato
mi continuava a dire: “Fratel Carlo, lascia stare quei libri. Mettiti povero e nudo davanti
all’Eucarestia. Svuotati, disintellettualizzati, cerca di amare… contempla…”.
Ma io non capivo un bel nulla di ciò che volesse dirmi. Restavo ancorato nelle mie idee.
Per farmi capire, per aiutarmi nello svuotamento mi mandava a lavorare.
Mamma mia!
Lavorare nell’oasi con un caldo infernale non è facile! Mi sentivo distrutto. Quando
tornavo in fraternità non ne potevo più. Mi buttavo sulla stuoia nella cappella davanti al
Sacramento con la schiena spezzata e la testa che mi faceva male. Le idee si volatilizzavano
come uccelli fuggiti dalla gabbia aperta.
Non sapevo più come cominciare a pregare. Arido, vuoto, sfinito: dalla bocca mi usciva
solo qualche lamento.

L’unica cosa positiva che provavo e che cominciavo a capire era la solidarietà coi poveri,
i veri poveri. Mi sentivo vicino a chi era alla catena di montaggio o schiacciato dal peso
del giogo quotidiano. Pensavo alla preghiera di mia madre con cinque figli tra i piedi e ai
contadini obbligati a lavorare dodici ore al giorno durante l’estate.
Se per pregare era necessario un po’ di riposo, quei poveri non avrebbero mai potuto
pregare. La preghiera, quindi, quella preghiera che avevo con abbondanza praticato fino
ad allora, era la preghiera dei ricchi, della gente comoda, ben pasciuta, che è padrona del
suo tempo, che può disporre del suo orario. Non capivo più niente, meglio, incominciavo
a capire le cose vere. Piangevo! […] E fu proprio in quello stato di autentica povertà che io
feci la scoperta più importante della mia vita di preghiera. Volete conoscerla?
La preghiera passa nel cuore, non nella testa. […] Il dolore accettato per amore era come
una porta che mi aveva fatto transitare al di là delle cose. Ho intuito la stabilità di Dio.
Ho sempre pensato, dopo di allora, che quella era la preghiera contemplativa. Il dono
che Dio fa di sé a chi gli offre la vita come dice il Vangelo: “Chi perde la sua vita la troverà”
(Matteo 10,39).
(Carlo CARRETTO, Il deserto nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1986, 29-33).
Le due vite
L’ansia, lo stress, la contemplazione, l’abbondanza di pesticidi e di prodotti tossici
hanno snaturato i cicli biologici della nostra vita. La ricca, supertecnologica, superlibertaria
società occidentale è arrivata al capolinea. È una società fatta di esseri disperati che vagano
in un deserto popolato di oggetti e hanno in mente un solo concetto: il diritto alla felicità.
Dove felicità significa, soprattutto, pieno assolvimento dei desideri, dei sogni, delle
istanze di quella cosa piccola e spesso confusa che si chiama ego. E questa felicità è sempre
qualcosa che deve ancora venire e che verrà, sempre e comunque, da qualcosa di esterno.
[…] Quello che la società ha fatto dimenticare a tutti è che la ricchezza della vita umana si
manifesta nelle relazioni - e nella capacità di fare progetti, di superare ostacoli. La nostra
mente, col suo vortice continuo di parole, col suo saper costruire concetti sempre più complessi,
ha cancellato la verità fondante della vita, la più semplice: ogni essere umano ha bisogno
di essere accolto, amato e di amare.
(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 14-16)
Quaresima!
Mentre la natura, ancora immersa nel torpore dell'inverno,
prepara nel segreto della terra la vitalità della primavera,
tu ci chiedi di rinnovarci nel profondo del cuore
e ci inviti a percorrere l'itinerario della Quaresima.
Ci inviti alla compassione, alla solidarietà verso i poveri,
ai gesti della riconciliazione, della benevolenza, della misericordia.
Ci proponi di ritrovare attraverso la preghiera
un rapporto autentico con te, intessuto di ascolto e di parole.

Ci offri la possibilità, attraverso la pratica del digiuno,
di avvertire quella fame profonda
che rischia di essere coperta dal nostro consumismo, dalla nostra ingordigia,
da tante brame che attraversano la nostra esistenza.
Strada antica, quella della Quaresima,
sentiero battuto da tanti altri cristiani prima di noi.
Tu ci spingi ad affrontarlo con risolutezza ed entusiasmo,
con audacia e con gioia,
perché è un percorso di liberazione,
che ci conduce a sperimentare
la forza e la bellezza della Pasqua.
Deserto
«L'esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il
Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma.
Brucia per se stessa, nel vuoto. L'esperienza del deserto è anche l'ascolto, l'estremo
ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l'ascolto che fa sì che nella Bibbia il
deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante. Certo, esso è
anzitutto un luogo, e un luogo che nell'ebraico biblico ha diversi nomi: c
aravah, luogo arido
e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah,
designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato
da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz'acqua;
ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove
non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di
sabbia, ma è frutto dell'erosione del vento, dell'azione dell'acqua dovuta alle piogge rare
ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo
di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l'iniziazione attraverso
cui la massa di schiavi usciti dall'Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo
di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a
partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività
(«Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra,
nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla
terra»: Genesi 2,4b-5) diviene il giardino apprestato per l'uomo nell'opera creazionale (Genesi
2,8-15). E la nuova creazione, l'era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto?
«Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di
narciso» (Isaia 35,1-2). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l'opera di creatio
continua, l'intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare
come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa
sentire come medabber (colui che parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve
la rivelazione del Nome (Esodo 3,1-14); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo
popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19-24); è nel deserto che colma di doni

il suo popolo (la manna, le quaglie, l'acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a
Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a
sé la sua sposa-Israele dopo il tradimento di quest'ultima (Osea 2,16) per rinnovare l'alleanza
nuziale...
Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica
del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso
rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra
promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un'attesa, di una
speranza; cammino faticoso, duro, tra un'uscita da un grembo di schiavitù e l'ingresso in
una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell'esodo! La spazialità arida,
monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente
come prova, come tentazione. Valeva la pena l'esodo? Non era meglio rimanere in Egitto?
Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in
dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia
parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si
mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati
di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel
deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio
8,2). Il deserto è un'educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapreso
dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all'invito di Dio «Va' verso te stesso!» (Genesi
12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni
a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11-12; 15,24; 16,2-3.20.27;
17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato
essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell'illusione satanica e
con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio
(Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero
pubblico!
Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa.
Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche
per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza,
l'attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l'immensità del
tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche
cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la
regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù
egiziana al rischio dell'avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del
cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere
leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l'essenzialità, è apprendistato di sottrazione e
di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa
dell'uomo un vigilante, un uomo dall'occhio penetrante. L'uomo del deserto può così riconoscere
la presenza di Dio e denunciare l'idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto
per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione,
è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpi-

to dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via
del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce
di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l'economia di
diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia,
di amore: egli è l'amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente
la voce.
Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e, così esso diviene cifra
dell'ambivalenza della vita umana, dell'esperienza quotidiana del credente, della stessa
contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio
non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».
(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore,
Milano, Rizzoli, 21999, 47-51).
Soli nel deserto
Per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre.
Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo. Non vediamo mai al di là delle nostre
certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all'incontro, non facciamo che
incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo,
se prendessimo coscienza del fatto che nell'altro guardiamo solo noi stessi, che siamo
soli nel deserto, potremmo impazzire. Quando mia madre offre degli amaretti di Ladurée
a madame de Broglie, non fa che raccontare a sé stessa la storia della sua vita, sgranocchiando
il proprio sapore; quando papà beve il caffè leggendo il giornale, si contempla
in uno specchio tipo autosuggestione cosciente del metodo Coué; quando Colombe parla
delle conferenze di Marian, blatera davanti al riflesso di sé stessa, e quando le persone
passano davanti alla portinaia, non vedono nulla perché lì non si vedono riflesse.
Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e
di incontrare qualcuno.
(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 138-139)
Il deserto
Il deserto fu il luogo originario del popolo di Dio, il luogo in cui Gesù fu condotto dallo
Spirito quando si ritirò nella solitudine. Ed è anche il luogo a cui la chiesa è chiamata oggi
dallo Spirito, come la donna dell’Apocalisse, la quale si ritira nel deserto in attesa che la
violenza della persecuzione si attenui. Non sto parlando in primo luogo del deserto dei
monaci, ma di quello dei cristiani. Il deserto monastico solitamente è un deserto fisico, ma
la vita che il monaco vive in esso è come un sacramento del deserto di tutta la chiesa, uno
speciale sacramento in cui egli esprime la propria vocazione, perché a questo è stato chiamato
e abilitato dalla grazia. Ma anche la chiesa è in ogni tempo e nella sua interezza addossata
al deserto: essa vive in situazione di diaspora oggi più che mai . Noi tutti siamo
come sospinti all’indietro da tutte le domande che ci vengono poste e alle quali non sappiamo
trovare risposte immediate: siamo spinti in un deserto interiore. Ma nel contempo,

ciò costituisce anche un invito ad assumere maggiore consapevolezza della nostra profonda
povertà di comprensione, poiché in tal modo siamo ridotti a testimoniare con la sola
forza dello Spirito: sarà lui a parlare in noi, non dobbiamo preparare in anticipo la nostra
difesa.
(A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon - Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001,
pp. 9-20).
«Fuggi, taci e prega»
Arsenio era un romano molto colto, di dignità senatoria, che viveva alla corte dell'imperatore
Teodosio come precettore dei principi Arcadio e Onorio. Quando era ancora a
corte, l'abate Arsenio pregò Dio con queste parole: «Signore, mostrami la via per la quale
essere salvato». Arrivò a lui una voce che diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine:
sono queste le radici dell'innocenza».
Dopo aver lasciato segretamente Roma, imbarcatesi per Alessandria e ritiratesi a vita
solitaria nel deserto, Arsenio tornò, con le stesse parole, a rivolgere la preghiera: «Signore,
mostrami la via per la quale essere salvato», e di nuovo sentì una voce che gli diceva: «Arsenio,
fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell'innocenza».
Le parole: «Fuggi, taci e prega», sintetizzano la spiritualità del deserto. Indicano i tre
modi di evitare che il mondo ci plasmi a sua immagine e sono, quindi, le tre vie alla vita
nello Spirito.
(H.J.M. NOUWEN, La via del cuore, Brescia, 1999, 14).
«Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24,12)
Cari fratelli e sorelle,
ancora una volta ci viene incontro la Pasqua del Signore! Per prepararci ad essa la
Provvidenza di Dio ci offre ogni anno la Quaresima, «segno sacramentale della nostra
conversione»,[1] che annuncia e realizza la possibilità di tornare al Signore con tutto il cuore
e con tutta la vita.
Anche quest’anno, con il presente messaggio, desidero aiutare tutta la Chiesa a vivere
con gioia e verità in questo tempo di grazia; e lo faccio lasciandomi ispirare da
un’espressione di Gesù nel Vangelo di Matteo: «Per il dilagare dell’iniquità l’amore di
molti si raffredderà» (24,12).
Questa frase si trova nel discorso che riguarda la fine dei tempi e che è ambientato a
Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, proprio dove avrà inizio la passione del Signore. Rispondendo
a una domanda dei discepoli, Gesù annuncia una grande tribolazione e descrive
la situazione in cui potrebbe trovarsi la comunità dei credenti: di fronte ad eventi dolorosi,
alcuni falsi profeti inganneranno molti, tanto da minacciare di spegnere nei cuori la
carità che è il centro di tutto il Vangelo.
I falsi profeti
Ascoltiamo questo brano e chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti?

Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per
rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro. Quanti figli di Dio sono suggestionati
dalle lusinghe del piacere di pochi istanti, che viene scambiato per felicità! Quanti
uomini e donne vivono come incantati dall’illusione del denaro, che li rende in realtà
schiavi del profitto o di interessi meschini! Quanti vivono pensando di bastare a sé stessi e
cadono preda della solitudine!
Altri falsi profeti sono quei “ciarlatani” che offrono soluzioni semplici e immediate alle
sofferenze, rimedi che si rivelano però completamente inefficaci: a quanti giovani è offerto
il falso rimedio della droga, di relazioni “usa e getta”, di guadagni facili ma disonesti!
Quanti ancora sono irretiti in una vita completamente virtuale, in cui i rapporti sembrano
più semplici e veloci per rivelarsi poi drammaticamente privi di senso! Questi truffatori,
che offrono cose senza valore, tolgono invece ciò che è più prezioso come la dignità, la libertà
e la capacità di amare. E’ l’inganno della vanità, che ci porta a fare la figura dei pavoni…
per cadere poi nel ridicolo; e dal ridicolo non si torna indietro. Non fa meraviglia:
da sempre il demonio, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), presenta il
male come bene e il falso come vero, per confondere il cuore dell’uomo. Ognuno di noi,
perciò, è chiamato a discernere nel suo cuore ed esaminare se è minacciato dalle menzogne
di questi falsi profeti. Occorre imparare a non fermarsi a livello immediato, superficiale,
ma riconoscere ciò che lascia dentro di noi un’impronta buona e più duratura, perché viene
da Dio e vale veramente per il nostro bene.
Un cuore freddo
Dante Alighieri, nella sua descrizione dell’inferno, immagina il diavolo seduto su un
trono di ghiaccio;[2] egli abita nel gelo dell’amore soffocato. Chiediamoci allora: come si
raffredda in noi la carità? Quali sono i segnali che ci indicano che in noi l’amore rischia di
spegnersi?
Ciò che spegne la carità è anzitutto l’avidità per il denaro, «radice di tutti i mali» (1 Tm
6,10); ad essa segue il rifiuto di Dio e dunque di trovare consolazione in Lui, preferendo la
nostra desolazione al conforto della sua Parola e dei Sacramenti.[3] Tutto ciò si tramuta in
violenza che si volge contro coloro che sono ritenuti una minaccia alle nostre “certezze”: il
bambino non ancora nato, l’anziano malato, l’ospite di passaggio, lo straniero, ma anche il
prossimo che non corrisponde alle nostre attese.
Anche il creato è testimone silenzioso di questo raffreddamento della carità: la terra è
avvelenata da rifiuti gettati per incuria e interesse; i mari, anch’essi inquinati, devono purtroppo
ricoprire i resti di tanti naufraghi delle migrazioni forzate; i cieli – che nel disegno
di Dio cantano la sua gloria – sono solcati da macchine che fanno piovere strumenti di
morte.
L’amore si raffredda anche nelle nostre comunità: nell’Esortazione apostolica Evangelii
gaudium ho cercato di descrivere i segni più evidenti di questa mancanza di amore. Essi
sono: l’accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in
continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è
apparente, riducendo in tal modo l’ardore missionario.[4]
Cosa fare?

Se vediamo nel nostro intimo e attorno a noi i segnali appena descritti, ecco che la
Chiesa, nostra madre e maestra, assieme alla medicina, a volte amara, della verità, ci offre
in questo tempo di Quaresima il dolce rimedio della preghiera, dell’elemosina e del digiuno.
Dedicando più tempo alla preghiera, permettiamo al nostro cuore di scoprire le menzogne
segrete con le quali inganniamo noi stessi,[5] per cercare finalmente la consolazione in
Dio. Egli è nostro Padre e vuole per noi la vita.
L’esercizio dell’elemosina ci libera dall’avidità e ci aiuta a scoprire che l’altro è mio fratello:
ciò che ho non è mai solo mio. Come vorrei che l’elemosina si tramutasse per tutti in
un vero e proprio stile di vita! Come vorrei che, in quanto cristiani, seguissimo

per 24 ore consecutive, offrendo la possibilità della preghiera di adorazione e della Confessione
sacramentale.
Nella notte di Pasqua rivivremo il suggestivo rito dell’accensione del cero pasquale: attinta
dal “fuoco nuovo”, la luce a poco a poco scaccerà il buio e rischiarerà l’assemblea liturgica.
«La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito»,[7]
affinché tutti possiamo rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus: ascoltare la
parola del Signore e nutrirci del Pane eucaristico consentirà al nostro cuore di tornare ad
ardere di fede, speranza e carità.
Vi benedico di cuore e prego per voi. Non dimenticatevi di pregare per me.
Dal Vaticano, 1° novembre 2017
Solennità di Tutti i Santi
FRANCESCO
________________________
[1] Messale Romano, I Dom. di Quaresima, Orazione Colletta.
[2] «Lo ’mperador del doloroso regno / da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia» (Inferno
XXXIV, 28-29).
[3] «E’ curioso, ma tante volte abbiamo paura della consolazione, di essere consolati.
Anzi, ci sentiamo più sicuri nella tristezza e nella desolazione. Sapete perché? Perché nella
tristezza ci sentiamo quasi protagonisti. Invece nella consolazione è lo Spirito Santo il protagonista»
(Angelus, 7 dicembre 2014).
[4] Nn. 76-109.
[5] Cfr Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi, 33.
[6] Cfr Pio XII, Lett. Enc. Fidei donum, III.
[7] Messale Romano, Veglia Pasquale, Lucernario.
Preghiera
Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.
È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti
così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale
sulla morte.
Sono ancora così diviso!
Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e
prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere,
di potere e d'influenza.
Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a
scegliere la via stretta verso la vita.
So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me.
La scelta della tua via dev'essere fatta in ogni momento della mia vita.
Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole,
azioni che siano le tue azioni.
Non vi sono tempi o luoghi senza scelte.
 I Domenica di Quaresima  Anno B
21
E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.
Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo.
Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando
verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me.
Amen.
(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita
di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
- Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
- La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
---
- Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
- J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
- J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città
del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
- J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice
Vaticana, 2012.
- E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero,
2008.
- COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
- J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia,
Queriniana, 2003.

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