don Marco Pedron, " Il momento è ora"V Domenica di Quaresima

 Il momento è ora
don Marco Pedron
V Domenica di Quaresima (Anno B) 

  Visualizza Gv 12,20-33
Questo brano si trova nel capitolo 12 di Gv e avviene poco prima della passione di Gesù. Gesù è appena entrato in Gerusalemme. La gente lo ha accolto con rami di palme, d'ulivo, cantando e
gridando "Osanna al Figlio di Davide". Ma i farisei, invece, stanno tramando per ucciderlo e per condannarlo. Domenica prossima sentiremo tutto questo nella Passione di Gesù.

Questo vangelo ci introduce nel mistero della vita di Gesù e di ogni vita. Dapprima Gesù, con l'immagine del seme che cade in terra, ci spiega le due grandi leggi della vita: crescere è doloroso, faticoso, a volte è un po' come morire. Per diventare "grandi, adulti" bisogna morire a tante idee romantiche, illusioni e maturare. Poi Gesù ci ricorda che una vita ha senso solo se è donata, spesa, impiegata per qualcosa di grande, altrimenti è sprecata, fallita.

Infine Gesù ci fa vedere la sua anima: egli stesso vive la fatica di andare fino in fondo alla sua missione; egli stesso vive la paura della morte; egli stesso è quel seme che cade in terra.

Gesù è di fronte al momento cruciale della sua vita: deve decidere se andare fino in fondo o fermarsi. Finché ha predicato in Galilea ha avuto scontri e nemici, ma la Galilea era lontana da Gerusalemme, dal centro. Non creava grossi problemi. Sapeva che la sua vita non era in pericolo finché predicava e agiva in periferia. Qualche fastidio lo avrebbe sempre avuto, come pure un po' di controllo, ma lo avrebbero lasciato stare. Non avevano motivo di perseguitarlo finché il suo messaggio non toccava direttamente gli interessi religiosi e politici.

Adesso però deve decidere se andare a Gerusalemme, se entrare proprio nel centro della religione e nel centro del potere. E sa che è una scelta senza ritorno. Non sarà più come prima, mai più.

La vita ci pone davanti ogni giorno delle scelte: a volte sono semplici, a volte un po' più complesse. Ma in qualche ora la vita ci riserverà delle scelte senza ritorno. Verranno dei momenti in cui ci verrà chiesto di fare delle scelte coraggiose, difficili, ardue. E da certi incroci non si tornerà più indietro.

Certi treni non passano più, certe situazioni ci capitano solo una volta nella vita e certe occasioni colte ci cambiano la vita. Certe direzioni vanno prese in quel preciso momento: non prima e non dopo. Certe scelte non si ripeteranno: vanno compiute adesso o mai più. Gesù sa che deve andare a Gerusalemme adesso, ora, e lo fa.

Una donna ha avuto una grave crisi depressiva: ne è uscita con i farmaci ma sa benissimo che non è quello il problema. Sa che dovrebbe fasi aiutare e andare in terapia. Ma sa che le costerà (e non tanto economicamente), sa che sarà difficile e doloroso. "Adesso è ora: che si fa?".

Una donna è rimasta incinta: il medico le ha detto che "non era il caso", per la sua salute, di avere altri figli. Potrebbe esserle pericoloso. "Adesso è ora: che si fa?".

Un uomo sente che dovrebbe cambiare lavoro: gli si presenta una possibilità ma è molto rischioso. Che si fa?

In un'azienda sono mancati dei soldi. Uno sa chi è stato: il titolare. Ma che si fa? Si va contro colui che ti dà da lavorare? Ti lascerà a casa? Cosa capiterà dopo? Che si fa?

Un uomo deve cambiare vita: gli è chiaro cosa deve fare e cosa non deve più fare. Ma vuol dire cambiare tutto, buttare a soqquadro la propria esistenza, ed è difficile. Sa che o lo fa adesso perché sente che è il momento o non lo farà più. Che si fa? L'ora è questa: e adesso?

La vita ci invita a prendere delle strade, a fare certe scelte, a compiere certi salti. Il momento è "ora", lo sentiamo, lo avvertiamo, il tempo è maturo e la cosa dev'essere fatta. Ma sono incroci, strade di non ritorno, cambiamenti radicali, e ci fanno paura.

"Quando è ora - dice Gesù - è ora. Se bisogna andare a Gerusalemme - e lo sentiva - bisogna andare". Sono i momenti cruciali della vita, e sono proprio una crucis! Ma sono i momenti decisivi in cui noi plasmiamo la nostra vita e le diamo una forma: la nostra forma.

Poi qui Gesù usa più volte il termine "gloria" (doxa). Quando noi leggiamo questa parola pensiamo a tutt'altro. Pensiamo alla fama, all'essere famosi, sulla cresta dell'onda, conosciuti, stimati, adulati, venerati. Pensiamo ai divi della tv o ai campioni dello sport o della musica.

Ma per Gv "gloria" è quando nella tua vita si rende manifesto, visibile, trasparente Dio. Per questo la Gloria di Dio è Gesù: in chi più di Gesù si è reso visibile Dio? Con il suo vivere, il suo agire e il suo morire, Gesù ci ha fatto vedere chi è Dio. Gesù è la "gloria di Dio".

Gesù fa vedere Dio - la gloria - quando guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita Lazzaro, quando vive la trasfigurazione o quando dice le beatitudini. Ma il culmine della gloria, di dove cioè noi possiamo vedere Dio in Gesù, è la croce. Nella croce noi vediamo che Dio non si sottrae alla morte e a quella morte, per amarci, per starci vicino, per vivere fino in fondo la sua missione.

Guardando la croce, allora, ciascuno di noi non prende più paura, ma dice: "Ma quanto bene mi deve volere Dio, se ha fatto tutto questo?". "Dio mi ama da morire, da matti, da pazzi". "Anche se tutti mi odiano, Dio mi accoglie, mi accetta, non mi rifiuta".

Gloria è quando qualcosa al di sopra della dimensione terrena, quando qualcosa di divino si mostra nella nostra vita.

Una donna è rimasta incinta. Facendo alcune analisi è risultato che il feto, con probabilità altissime, sarebbe stato gravemente handicappato. Tutti i medici l'hanno sconsigliata di portare a compimento la gestazione. Ma lei no; lei è andata fino in fondo (e non era affatto handicappato!). Con quale forza una persona può fare questo? Non ha a che fare questo con la gloria di Dio?

Un uomo ha derubato il proprio socio, che non se ne era accorto. Nessuno avrebbe mai saputo niente. Ma la sua coscienza sapeva ciò che aveva fatto. E quest'uomo è andato dal socio a riportargli i soldi sottratti. Per me, questa è gloria.

Una ragazza, figlia di una famiglia molto nobile, un giorno lascia studi e amici e decide di passare la sua vita fra i poveri dell'Africa, per portare speranza, pane e amore.

Gloria è quando un uomo come A. Schweitzer, affermato docente universitario, medico e famoso pianista, contro il parere di tutti, dedica la sua vita ai poveri di Lambaréné, villaggio disperso dell'Africa.

Gloria è ogni volta che un uomo segue la Voce che gli ri-suona dentro seguendola dovunque lo chiami.

Poi Gesù fa un esempio che descrive sia una legge universale che la propria vita.

In ebraico "bar" è il "chicco di grano" ma è anche il "figlio". Non solo noi possiamo tradurre che il chicco di grano deve morire per portare molto frutto, ma anche che il Figlio deve morire per portare molto frutto. Gesù, giorno dopo giorno, è via via sempre più consapevole della sua fine inevitabile. Ma la sua fine non è solo un morire, ma un portare frutto. Per questo può essere accettata.

Voler morire è stupido: parla solo di una vita senza senso di cui ci si vuole sbarazzarsi. Morire non può mai essere una meta, un valore. Il morire può essere accettato solo per un motivo più grande, più alto, dove la meta non è ovviamente il morire ma il valore (portare frutto, qui). Gesù non voleva morire: Gesù voleva essere per tutti pane e vino, frutto di vita. Questo l'ha portato a morire.

Ma quella frase descrive una legge universale: Dio è in me come un seme. Il seme contiene in sé il principio di morte e di vita perché deve morire, venir meno, per poter vivere e svilupparsi. E' la legge essenziale dell'evoluzione spirituale e umana: perché Lui nasca bisogna che io (che l'io) muoia.

Lui è in me come un seme: un seme può rimanere tale per sempre se non trova le giuste condizioni. Io posso vivere e lasciare che quel seme dorma e sonnecchi per tutta la vita. Allora io uccido Dio.

Ma la buona notizia (in ebraico basorah, "buona notizia", contiene bar ed indica il figlio che sviluppa il suo Spirito per diventare uno, integro) è che io posso far nascere Dio, sviluppare il divino che c'è in me. Io posso creare (barà, "creare") dalla mia carne (bar, "carne"), dalla mia vita, una parola (da-bar, "parola") di Dio.

E' chiaro che deve morire il mio io, il mio narcisismo, perché giorno dopo giorno possa nascere il mio vero io, il D-io che mi abita e che vuole portare vita, fecondità e frutto in me.

Ogni giorno si muore non perché sia bello morire (fa schifo e fa soprattutto male!) ma perché in questo morire, in realtà, si nasce nuovi e più vitali.

Quando un amico preferisce un altro a me allora io mi sento morire, perché mi sento rifiutato: ma devo morire perché devo imparare che voler bene è non pretendere l'esclusiva.

Quando un figlio si trova "la morosetta" e ha altri interessi, allora la madre si può sentire morire. Ma deve morire perché deve imparare che non è suo, che un giorno se ne andrà e che guai se lo possedesse: lo ucciderebbe.

Quando ti accorgi che il tuo rapporto di coppia ti sta castrando, soffocando, è dura rimetterlo in gioco perché la vita e l'energia torni a scorrere in te. E' come morire: ma bisogna morire per vivere.

Quando devi affrontare certe questioni interiori e non lo vorresti fare perché ti fanno soffrire; quando devi prendere in mano la tua paura o i tuoi drammi di vita, ma chi lo vuole fare? E' come morire! Eppure nella morte c'è la vita! In questo morire dell'io (trasformazione) c'è la vita vera.

Perché Dio si manifesti in me, si renda evidente, bisogna che io abbia il coraggio di morire, cioè di affrontare ciò che devo affrontare senza scappare e il coraggio di lasciarmi trasformare dalla vita, cioè di cambiare. Per vivere davvero, in profondità, bisogna saper morire (soffrire).

Questa è la grande legge della vita. E l'ironia è che chi non vuole morire (trasformarsi, cambiare, crescere attraverso la sofferenza) morirà veramente. Cioè: non si può vivere e pensare di non soffrire mai, di evitarsi il dolore, i problemi, le tensioni, le difficoltà, i conflitti. Morire vuol dire cadere a terra, scontrarsi con la realtà, con la dura realtà della vita, ritornare con i piedi per terra smettendo di volare sulle nuvole. Cadere a terra vuol dire scontrarsi con le persone che non sempre sono come noi vorremmo; confrontarsi con i problemi e con i limiti della vita. Cadere a terra vuol dire rinunciare ad essere onnipotenti, di sapere tutto, di non aver bisogno di nessuno. Cadere a terra vuol dire essere vulnerabili, sofferenti, piangere. Cadere a terra vuol dire sbagliare, commettere errori e avere l'umiltà di riconoscerli.

Tutto questo ci fa male. E' come morire. Distrugge l'immagine di "persone brave e buone" che abbiamo di noi. Ma niente di nuovo, di fruttuoso può nascere, se non cadiamo a terra!

In quella frase è rinchiuso pure il segreto della vita: solo se è spesa per qualcosa di grande ha senso. Tu puoi vivere la tua vita per te, in maniera narcisista, egoistica, ripiegata su di te, o puoi vivere la tua vita come un dono per gli altri e per la vita. Una cosa è certa: "Tu morirai". Su questo nessuno di noi ha possibilità di decidere. E' il peccato originale, il limite della vita: la morte. Ma adesso si pone un'altra grande domanda. Di fronte a questo: "Come vuoi vivere? Cosa vuoi fare della tua vita?".

Molte persone vivono per sé, sono un seme che muore ma non porta frutto. La loro vita non è di nessun aiuto a nessuno, non si può imparare nulla da loro, non hanno maturato nulla. Non c'è nessuna saggezza, nessuna profondità, non hanno mai osato, mai "ruminato" le cose. Passano ma non lasciano tracce dietro di sé, vite inutili, senza significato. Se incontri queste persone non ti danno niente, non lasciano nessuna impronta. Se ti lasciano qualcosa è solo rabbia, negatività, "brontolamenti", acidità. Hanno ricevuto la vita, ma non hanno saputo donarla. Non hanno saputo fare della vita ricevuta, un dono. Impiegano tutto il loro tempo per pulire l'auto, per spolverare, davanti al computer, per "sbrigare i mestieri" o per accrescere la loro immagine o il loro prestigio. Sono tutti con-centrati su di sé, per cose futili: si credono bravi e impegnati, ma in realtà sono narcisisti e pieni di paura. Moriranno tristi perché potevano essere un albero, ricco di frutti e di vita ma hanno avuto paura. Non sono maturati e hanno rinunciato a ciò che potevano essere: sono falliti.

Si è felici se la nostra vita ha un senso altrimenti non ha senso vivere. Allora io devo trovare un motivo, dei motivi validi per vivere. Cioè: devo dedicarmi a qualcosa. Io ho bisogno di dare la parte più profonda di me, la mia parte più vera ad altri, perché sia utile non solo a me ma al mondo intero. Questo è dedicarsi: dare la parte più profonda di sé agli altri.

Il vero servizio è poter mettere in circolo quello che noi siamo dentro e che diventa utile (frutto) per gli altri. E facendolo diventa utile anche per me (fecondità): fa sentire che ciò che sono, fa bene anche ad altri. Ma se non hai niente dentro, cosa vuoi poter donare?

Io sono vita e la fecondità avverrà quando da me nasce la vita. In quel momento sentirò di essermi compiuto, sentirò che la forza della vita fiorita in me genera altra vita.

Alcuni genitori fanno molti figli ma non molta vita. Perché se dentro non si ha la vita (la vitalità, l'energia, lo spirito che ti i-spira e l'anima che ti anima) si genera solo ma non si trasmette vita.

Generare vita vuol dire che la vitalità, la forza che è in te ne crea dell'altra e di nuova. Allora si fa l'esperienza della Vita, dell'unione di ogni cosa; allora ci si sente parte di un movimento infinito, che chiamiamo Dio.

Ogni volta che io celebro l'eucarestia, non lo dico solo di Gesù: "Questo è il mio corpo, la mia carne, la mia vita offerta (spesa, vissuta, impiegata) per tutti". Non solo prendo il pane e il vino, ma prendo anche la mia vita e mi dico e dico a tutti: "Questo è il mio corpo offerto per tutti". Fa' che il mio pane diventi vita per tanti; che come questo pane diventa vita, energia, vitalità, per tutte queste persone che lo mangiano, così la mia vita diventi pane, energia, vitalità per tanti altri.

Io percepisco, allora, un fremito, un battito in me, un invito a fare del mio corpo, della mia passione, delle mie giornate, della mia vita qualcosa di "importante"; sento nascere il coraggio e la forza di lottare, di spendermi, di darmi, di macinarmi perché io possa essere per qualcuno un po' di pane o un po' di vino.

Mi sento parte della Vita. Ho ricevuto la vita. Qualcuno è stato per me pane e vino; la vita è stata buona con me offrendomi questo pane e questo vino e io mi sento grato di tutto quello che ho ricevuto perché altri si sono dati a me e per me. E io continuo questa catena e questo movimento con l'essere pane e vino per qualcun altro. Qualcuno mi ha alimentato, è stato per me pane e vino e io stesso voglio essere alimento, cibo per qualcun altro. Che la mia vita sia come il grano, e come il vino: dalla vita viene e alla Vita si offre. E' un dono ricevuto, ed è un dono che va donato. E' così semplice! E' così naturale! E' così vitale! E' così ovvio!

Nella seconda parte, invece, Gv ci lascia pure uno spaccato dell'angoscia di Gesù. Gv non racconta il Getsemani, l'angoscia di Gesù come gli altri evangelisti durante il racconto della passione. Ma lo fa qui. Qui c'è tutto il turbamento di Gesù e un angelo che lo consola.

Gesù voleva annunciare agli uomini il messaggio di un Dio Padre misericordioso. Adesso si trova ad un bivio. O tradire la sua missione e la sua fedeltà, salvando, però, la propria vita. Oppure perdere la propria vita, essere sottoposto ad una morte orrenda e proseguire fino in fondo nella strada della fiducia di Dio. Quanto costa essere fedeli a sé e a Dio! Costa più di ogni altra cosa.

Lc descrive tutto il dramma di Gesù: "In preda all'angoscia pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra" (Lc 22,44). Gesù ha paura di morire.

E' l'angoscia di finire nel nulla: "E se non ci fosse niente?".

E' l'angoscia della lotta per la vita: "Non voglio morire, proprio io che porto misericordia, unità, salvezza; proprio io che guarisco e apro i cuori e l'anima; proprio io che sono il vento che fa riscoprire agli uomini il loro cielo; proprio io?".

E' l'angoscia per un supplizio che gli si prospetta terribile: "La croce! Lo scherno! L'essere svergognati! Il dolore! Oddio, salvami!".

L'angoscia per sentirsi tradito: "Ma tu Dio dove sei? Ma se permetti questo, fai vincere il male, l'odio, i cattivi! Ma che Dio sei! Non eri mio Padre? Mi hai abbandonato? Non ti riconosco più!".

E' la paura del fallimento: "Ho sbagliato tutto? Mi sono ingannato? Mi sono illuso?".

L'angoscia del dubbio terribile: "Ho parlato di un Dio che non c'è?". Capite!? Capite che dramma!

Lc parla di un angelo. Gv, invece, dice che venne una voce dal cielo: "L'ho glorificato e lo glorificherò". Dio non toglie l'angoscia a Gesù. Perché la prova estrema della nostra vita è quella di non poter far più niente per noi, di essere totalmente in balia di forze oscure: il destino, gli altri, la morte e di fidarsi di Lui quando tutto sembra dire il contrario.

Gesù sente una voce (12,28), un angelo che dentro di sé gli dice: "Tutto sembra finire, tutto sembra cadere, tutto sembra essere adesso illusorio; ma ci sono io. Lasciati andare, abbandonati tra le mie mani; non ti toglierò la sofferenza, la morte, lo scherno, ma quando tutto sarà finito, allora sperimenterai che tutto ricomincerà. Ci sono io". Questa fiducia è il regno di Dio. Chi vive così, sa che può essere ucciso, ma che non morirà mai.
Ma che volete dire ad un padre a cui è morto il figlio?

Che volete dire ad una moglie il cui marito di trentacinque anni muore in un incidente e lascia tre figli?

Che volete dire alla donna che ha un tumore inguaribile e che si vede sfuggire la vita?

Che volete dirvi quando sarà il vostro momento? Pensate che qualcosa vi consolerà? Pensate che qualcuno vi potrà togliere l'angoscia? Pensate che basterà qualche frase o qualche preghiera?

Avrete una paura folle e vi sentirete inesorabilmente scivolare verso il nulla, la morte e il niente.

Verrà qualche angelo a salvarvi? No, non verrà nessuno! Verrà qualcuno a prendervi per mano? No, non verrà nessuno a prendervi per mano.

Ma se avrete vissuto con fiducia, con forza, con passione, con intensità, lottando e spendendovi, sentendovi ogni giorno come sostenuti e supportati da una forza misteriosa che vi diceva: "Ci sono io con te, non temere", ebbene allora vi capiterà, anche in quel momento, di sentire la voce che per tutta la vita vi ha accompagnato: "Ci sono io, non temere".

E anche se sarà duro e difficile, vi adagerete in quelle mani e vi lascerete portare là dove vi vorranno portare, perché: "Ci sei Tu e io non temo".

Pensiero della settimana

Siamo liberi di ciò che accettiamo, di ciò a cui diciamo sì.

Siamo prigionieri di ciò che rifiutiamo, di ciò a cui diciamo no.

Fonte:www.qumran2.net

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