don Marco Pedron, "La vita è più forte"

La vita è più forte
don Marco Pedron
Domenica di Pasqua - Risurrezione del Signore (Anno B)
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E’ Pasqua, buona Pasqua. Che non sia solo il giorno di Pasqua, ma proprio Pasqua!



Le parole di oggi sono tutte profonde, pregnanti di significato.

Resurrezione vuol dire: “Dirigersi dalla morte verso la vita”. “Ri” vuol dire “di nuovo” ed indica un movimento inverso, contrario. “Sub” vuol dire “da sotto, da dentro” (il movimento è da sotto verso fuori, dal buio alla luce). “Regere” è dirigersi, condurre, guidare, governare, controllare. Ogni volta che, dove c’era morte e fine torna la vita e l’inizio, c’è resurrezione.
Pasqua vuol dire, invece, passare e risparmiare.

La parola ebraica pesah (pasqua) indica il grande passaggio del Mar Rosso. Gli Ebrei (ebreo vuol dire uomo di passaggio) erano schiavi del faraone (che vuol dire nemico). In Egitto hanno pane e cipolle e pur essendo schiavi succede una cosa terribile: si abituano. Si abituano a vivere da schiavi, si abituano a vivere in un modo che non è vitale, che è mortale, che non è umano.

Il grande dramma, come per gli ebrei, è chiamare “vita” la schiavitù! Guardatevi attorno! Il grande dramma è credere di essere liberi e vivere da schiavi, diretti, governati da altri.

Ma per fortuna arriva Mosè. Mosè è il Messia degli ebrei (Mosè, m-s-h vuol dire il Nome – il Figlio dell’uomo – ed è assonante con Messia m-sh-h). E Mosè libera, fa passare gli ebrei dalla terra della schiavitù alla libertà.

Pasqua è questo: “Passare dalla terra della schiavitù alla terra della libertà”. Ed è un passaggio pericoloso, un passaggio a volte impossibile, un passaggio dove bisogna fidarsi perché le acque sembrano più forti di te.

Pasqua allora è: “Sei libero, vivi da uomo libero. Non adattarti a vivere in schiavitù”. Pasqua allora è: “Se c’è da compiere un passaggio, fallo! Vivere è passare, andare, scegliere. Se c’è da fare una cosa, falla! Se c’è da compiere un passaggio, si fa!”. Questa è Pasqua.

Ma pesah, pasqua, vuol dire anche risparmiare. Mosè va dal faraone: “Lascia andare il mio popolo”. Ma il cuore del faraone è irremovibile.

Allora l’Egitto è colpito da nove piaghe (Es 7,14-10,29): le acque cambiate in sangue; le rane; il parassita; l’insetto; la peste; la lebbra; la grandine; le cavallette e le tenebre. Ma il testo ebraico non le chiama “piaghe” bensì “segni, meraviglie, prove della potenza divina”. Solamente la decima è chiamata “piaga” (negah indica un colpo violento): la morte di tutti i primogeniti. Anzi il testo ebraico dice: “Manderò una piaga una”, cioè “la” piaga (Es 11,1), l’unica vera piaga.

Le nove piaghe sono stati dei segni: nove come i mesi di gravidanza che servono per partorire il figlio. Ma il faraone non è cresciuto, non si è sviluppato, non ha sviluppato “il figlio” dentro di sé (l’anima).

L’ebreo supererà la vera e unica piaga (la morte dei primogeniti) perché per nove mesi si è sviluppato: adesso il figlio è pronto a nascere, a passare, ad entrare nelle acque del Mar Rosso (acque materne e di nascita) e ad uscirne. Ma il faraone no, perché si è opposto a questo sviluppo e il suo cuore invece di intenerirsi si è indurito.

Ed ecco cosa accade quando non ci si sviluppa dentro: si muore fuori. Così tutti i primogeniti degli egiziani (figli e animali) moriranno: inevitabile!

I nostri figli muoiono per le strade o in discoteca non per l’alta velocità o l’eccessivo uso di droghe (quello è solo il mezzo; se non c’è questo ce ne sarà un altro), ma muoiono perché noi adulti non siamo stati in grado di passare, di sviluppare la nostra parte divina e di far pulsare il nostro cuore. Abbiamo costruito fuori ma non dentro e questo non può portare che al vuoto, alla morte.

Per questo Dio non colpirà le case degli ebrei. Dice l’Esodo (12,13): “Vedrò il sangue sulle vostre case e vi passerò, vi risparmierò” e si usa la parola pesah, pasqua. Non moriranno i figli ma l’agnello pasquale. Un agnello fu sacrificato anche al posto di Isacco (Gen 22,7) e lo stesso Gesù è chiamato “l’Agnello di Dio” (Gv 1,29).

L’agnello, cioè, è la fatica, il sangue, il cammino per svilupparsi, per evolvere, per passare, per sviluppare quell’interiorità, quel mondo interno (regno dei cieli), il Dio che c’è dentro di noi. Perché è solo quell’agnello, quello sviluppo, che ci permetterà di rimanere vivi, di passare nei passaggi difficili della vita e che ci risparmierà dalla morte interna, dal vuoto, dall’insignificanza, dall’apatia.

Pasqua allora è: dopo nove mesi, nasci. L’unico invito di Pasqua è questo: “Vivi!”. Certo non si improvvisa, non cade dal cielo, c’è un agnello interiore da sacrificare, è faticoso, a volte lacerante, ma se compi il tuo cammino poi puoi passare e andare verso la terra della libertà. Puoi vivere per davvero. Perché il segreto della vita (il segreto di Pasqua) è che la vita è più forte.

Tutta la vita di Gesù, dall’inizio alla fine, è stata segnata da un imperativo: “Vivi!”. “E vivi al massimo delle tue possibilità, con tutta l’estensione del tuo cuore, con tutta la ricchezza della tua anima, con tutta l’intensità possibile, con tutta la passione di cui sei capace”.

Quando Gesù incontrava gli ammalati (la malattia per il vangelo è la vitalità, l’energia interna che non scorre più a causa di un blocco) non faceva altro che sbloccare l’ostacolo perché la vita tornasse a scorrere. Certo non ci riusciva mica con tutti perché molti avevano paura di vivere e di sentire la forza della Vita.

Un giorno, ad esempio, a casa sua (Mc 6,1-6) non poté guarire pressoché nessuno perché non gli credevano, perché non accettavano di cambiare, perché non volevano lasciare gli schemi vecchi. E Gesù, dice il vangelo, era “costernato, sorpreso” dal fatto che la gente preferisse “la morte” alla “vita”, preferisse cioè vegetare, tirare avanti, sopravvivere piuttosto che vivere con tutta l’intensità possibile.

Ma non vi poté fare nulla: “Ma come? Avete la Vita in voi, potete guarire e sentire la felicità e non lo volete?”. E non lo vollero. Piuttosto che perdere, lasciare, i loro schemi e i loro pregiudizi, preferirono “la morte” alla “vita”.

A volte si chiede alle persone: “Come va?”. “Bene!”, ti rispondono. Ma è un bene che sa di sopravvivere. Non c’è “vita”, energia, nelle loro parole e nei loro occhi. Come se avessero detto: “Sono morto, mi sono spento, ma vado avanti!”.

Ma Gesù dovunque andava ci provava. Provava a risvegliare la vita assopita in ogni uomo. Perché la verità che Gesù ci ha rivelato è che la vita, in realtà, non muore mai. E per quanto uno sembra spento, prosciugato delle energie, lontano dalla realtà, alienato dalla paura, la vita dorme, sonnecchia, da qualche parte anche in lui. Si tratta di risvegliarla.

Un giorno incontra una donna curva (Lc 13,11) che non poteva drizzarsi in nessun modo e la guarisce. Ci sono dei pesi che ti schiacciano? Liberatene! Hai un macigno sulla groppa? Liberatene! C’è qualcuno che ti opprime con la sua autorità? Smettila di abbassare gli occhi, drizzati e guardalo in faccia.

Una donna continuava a tappare i buchi economici del marito. Ma la cosa la spezzava ormai. Finché un giorno ha rialzato la testa e gli ha detto: “Basta, adesso ti arrangi”.

Un uomo continuava a prendere in silenzio le bastonate immotivate del capo. Ma un giorno ha smesso di aver paura e di temerlo, ha alzato la testa, l’ha guardato negli occhi e non gli ha più abbassati.

Non è vita vivere sottomessi! Non è vita dover sopportare pesi non propri! Non è vita vivere umiliati perché altri ci schiacciano! Libera la vita!

Un altro giorno Gesù incontra un cieco (Mc 8,22-26) e lo guarisce. Ci mette un po’ a farlo, a dir la verità, deve più volte mettere la mano negli occhi perché erano veramente chiusi. Ma la cosa riesce.

C’è qualcosa che dovresti vedere, ma hai paura di quello che vedrai per cui chiudi gli occhi. Lo so, fa paura vedere certe cose e prendere consapevolezza di certe verità. Ma nel buio non c’è vita, c’è solo menzogna, illusione, si vive da “figli delle tenebre” (Gv 1,5).

Una donna non riesce a farsi avvicinare dagli uomini. A vent’anni ha subito un’aggressione con un trauma enorme e ogni volta che un maschio si avvicina lei rivive quel fatto e lo allontana. Ma “rivivendo” quell’aggressione e vedendo che quel maschio l’ha aggredita, ma solo quello, ha potuto di nuovo farsi riavvicinare dagli uomini. La vita torna a fiorire e l’amore a scorrere!

Un uomo è nato dopo un fratello morto di cui porta lo stesso nome. Per questo lui è spento: non è lui che vive ma il fratello morto che vive in lui. Scoprire questo non è stato bello; non è stato per niente piacevole vedere che si viveva la vita di un altro. Ma fatto il lutto del fratello e messo ciascuno al suo posto, adesso è tornato a vivere, a sorridere, a gioire. Sembra un altro: ma è un altro!

Se vedi, se togli la benda dagli occhi, puoi ritornare a far scorrere la vita che c’è in te.

Un altro giorno incontra un paralitico (Mc 2,1-12) così sclerotizzato che glielo portano su di una barella perché questo manco si muove. E lo devono calare giù dal tetto per portarglielo.

La gente si immobilizza perché si costringe a fare cose che non vuole fare, a vivere vite che non vuole vivere. La gente si paralizza perché ha paura di scegliere, di far soffrire, di sbagliare. La gente si ferma perché non trova nessuna strada (perché se non ascolti il tuo cuore che strada vuoi trovare!). La gente si blocca perché teme di ritrovarsi sola, di dover percorrere strade nuove e mai percorse. Ma Gesù gli dirà: “Amico, alzati, prendi il tuo lettuccio e fa la tua strada con le tue gambe”. Hai le gambe, cammina e smetti di farti portare. Prendi in mano la tua vita e percorrila come vuoi tu.

Lebbrosi, figli morti, padri che si inginocchiano, madri distrutte per la morte del figlio, persone che sembravano perse nei loro peccati, persone emarginate da tutti, gente insomma dove la vita sembrava spenta, morta, persa, erano avvicinati da Lui e guariti da Lui. Perché la sua missione non era altro che dire: “La vita è più forte!”. Lo disse e lo visse e lo testimoniò.

Un giorno, infatti, anche lui morì. Sembrava davvero la fine. I suoi discepoli se ne tornarono a casa delusi. Veramente avevano creduto in quell’uomo ma la morte sembrava aver vinto.

Sembrava... perché fecero la scoperta più grande e più imprevedibile. No, non era vero che l’ultima parola era la morte. No, no, Lui vive, Lui è vivo. E quando scoprirono questo non li fermò più nessuno e andarono in tutto il mondo dicendo nient’altro che questo: “Lui è vivo. La Vita è più forte della morte, di ogni morte”.

Pasqua è nient’altro che questo: “Vivi! Fai scorrere la vita che c’è in te. Abbatti i tuoi muri, stappa i tuoi orecchi, apri i tuoi occhi, liberati dai tuoi mostri e vivi con tutta l’intensità, l’amore e la forza che puoi. E neppure sai quanto puoi!”.

Il vangelo è pieno di frasi di vita: “Taci (Mc 1,28 allo spirito immondo); guarisci (Mc 1,41 al lebbroso); alzati (Mc 2,11 al paralitico); seguimi (Mc 2,14 a Matteo); vieni fuori (Gv 11,43 a Lazzaro); vai al centro (Mc 3,3 all’uomo dalla mano inaridita); come ti chiami? (Mc 5,9 indemoniato di Gerasa); apriti (Mc 8,34 ad un sordomuto); esci (Mc 9,25 allo spirito immondo dell’epilettico indemoniato); sii guarito (Lc 5,13: lebbroso); drizzati (Lc 13,12: donna curva); cammina (2,9 al paralitico); passiamo all’altra riva (Mc 4,35) e calmati (Mc 4,39: tempesta sedata); non temere (Lc 1,35 a Maria).

Sono tutte parole che si riassumono in una: “Vivi! Tu puoi tornare a vivere... puoi guarire... superare le tu chiusure, i tuoi blocchi e le tue paure”. La Vita è più forte di tutto perfino della morte. Ma non accontentarti di sopravvivere, di vegetare, vivi davvero!

La festa di Pasqua dice anche un’altra cosa: “La vita vera non è questa, è un’altra”.

Quando noi sentiamo questo pensiamo: “C’è questa vita e poi c’è la vita vera, il paradiso”. Ma se non fosse solo così? E se fosse che già in questa vita c’è nascosta la vita vera? E se fosse che il mondo esterno non è nient’altro che lo specchio del mondo interno? E se fosse che il vero mondo non è quello che vediamo, ma quello che abbiamo dentro?

Noi diciamo: “C’è violenza, c’è odio, ci sono gli stupri e gli imbrogli”. Ma cosa c’è dentro il tuo cuore? Noi diciamo: “Se tutto quello che è fuori non ci fosse, allora sì che io starei bene!”. E se fosse il contrario? E se fosse che l’esterno va così perché l’interno, ciò che è dentro di te (e dentro questo mondo) va così?

Se ti fermi un attimo, se ti ascolti con serietà (per questo molte persone non si ascoltano o fingono, perché ascoltarsi con rigore vuol dire vedersi non per quello che si vorrebbe vedere ma per quello che si è!), puoi dire che tutto questo non c’è dentro di te?

Mc 7,21-23: “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive... tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo”.

Tu dici: “Io sto con gli Americani contro Iraniani o viceversa con gli Iraniani contro gli Americani; oppure con gli Ebrei contro Palestinesi (o viceversa); oppure con gli Italiani contri gli Immigrati”.

E poi ti schieri: o di qua o di là. Ma dovunque ti schieri, uccidi, perché elimini gli uni o gli altri. E i popoli si fanno la guerra credendo che eliminare l’altro sia vincere. Ma l’altro sei tu. Avete presente i bambini: quando non vogliono vedere una cosa, cosa fanno? Chiudono gli occhi. Come dire: “Un braccio mi fa male, lo taglio via”. Ma quel braccio sei tu. Quel braccio non è distaccato da te. Quel braccio è così e soffre perché tu lo ha caricato di qualcosa che non può sopportare. E se quel braccio è così non lo è perché lui è sbagliato e ti fa soffrire, lo è perché tu lo hai caricato anche del tuo peso. Non importa se sei braccio ferito o testa sana perché siete uniti e indivisibili!

E la gente si fa le grandi guerre perché crede che ci sia “il buono” e “il cattivo”: i buoni li salviamo e i cattivi li condanniamo, gli esiliamo e gli puniamo. Ma in realtà il male e il bene sono dentro di te. Gesù stesso, lo abbiamo sentito la prima domenica di quaresima, scoprì che il diavolo non era fuori di sé, non era solo negli altri, ma dentro di sé. E ci dovette combattere un bel po’ per cacciarlo via. E dopo poté cacciarlo dalle persone solo perché prima imparò a confrontarsi con lui.

Il male non è fuori: il male è dentro di me. Gv 17,21: “Tutti sono Uno”. Tu sei mio fratello e mia sorella. Tutto è unito, legato, interdipendente. La realtà è che niente esiste a sé stante, separato, ma tutto è incredibilmente connesso nel tempo e nello spazio. Quello che fai a tuo fratello in realtà lo fai a te (visto che sei fai soffrire un braccio anche tu, testa, soffri!). E quello che fai a te lo fai anche a tuo fratello. Se ti amo, mi amo. E se mi amo, ti amo.

Tu dici: “Ho un raffreddore; ho l’influenza; ho l’aritmia al cuore; ho questa malattia”. E pensi che sia caduto dal cielo: qualcuno da lassù ha guardato quaggiù (quante volte diciamo: “Ma cosa ti ho fatto Signore? Ma perché a me? Ma proprio io che non faccio nulla di male?”, tutti modi con cui diamo a Dio la colpa della nostra malattia) e ha visto proprio te. Tu dici: “No, io no!”, ma è troppo tardi. Pensiamo che siano i virus, i batteri o chissà quale altro agente esterno (ancora una volta l’esterno: è così facile scaricare la colpa sugli altri!) che ci fa ammalare? Pensiamo che gli incidenti o gli infortuni della vita siano una dis-grazia, una fatalità, un “è successo così, non si sa il perché e neppure si può sapere”. Ma se ci fosse un senso? Se ci fosse una trama sotto?

Allora la gente dice: “Ma allora dipende da me?”. Ti faccio questo esempio: “Tu prendi l’autostrada Padova Sud/Bologna, direzione Bologna. Dove arriverai? Bologna, ovvio! E arriverai proprio lì, perché quella è l’unica direzione. Ma se ti accorgi che non vuoi assolutamente arrivare a Bologna, magari esci prima, che ne so, a Ferrara o ad Altedo, magari torni indietro, magari lasci l’auto e procedi a piedi perché a Bologna non è proprio ciò che vuoi tu. Ma se tu vivi senza sapere, al buio, inconsapevolmente, non potrai che arrivare lì, a Bologna”. Nessuno vuole la malattia. Ma certe direzioni non possono che portare lì.

Tutti vogliamo una vita sana. Ma poi viviamo “fuori” di noi, diretti da altri perché abbiamo paura di compiere le nostre scelte, “fuori” perché seguiamo le strade comuni (di tutti e quindi di nessuno); ma poi viviamo come se non avessimo un’interiorità: rabbia, lutti e pianti non fatti, separazioni non avvenute, odio e rancore, tutto questo continua a vivere dentro di noi, magari sepolto da qualche pietra tombale; ma poi viviamo senz’anima, come se fossimo qui “non si sa perché”, senza inseguire il nostro destino, senza farci la grande domanda sul perché io ci sono, senza accedere alla sorgente divina che vive in noi, senza radici.

E se non siamo sani dentro come potremmo esserlo fuori? Mt 7,17-20: “Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li riconoscerete”.

“Ma se dici così ci sentiamo in colpa!”. Ti senti in colpa perché non accetti di vedere, perché rifiuti che la tua vita dipenda da te, perché continui a far dipendere “dal caso” la tua vita, mentre il “caso” è solamente il nome che diamo al destino e alla vita vissuta senza consapevolezza.

Tu dici: “Si muore!”. In realtà non ci pensi mai perché se ci pensassi cadresti nell’angoscia. Perché che senso ha tutto quello che fai se poi si muore? Che senso ha il tuo amare, il tuo essere amato, il tuo lottare se poi tutto passa e tutto finisce. Noi evitiamo di farci questa domanda profonda perché se ce la facessimo cadremo nel dramma totale.

Ma poi in realtà viviamo “da morti”. “Ma guardati! Il tuo volto di cosa parla? E le tue parole? Sono sempre piene di critica, di cose che non vanno, di acidità, di nervosismo! E le tue scelte? Meglio non farle per non sbagliare, o perché meglio non essere attaccati”. E perché vivi “da morto”? Perché hai una sola vita, ci sei attaccato terribilmente e hai paura di perderla. E con la paura fottuta di perderla, non vivi, sei sempre sulla difensiva.

Chi può vivere? Solo chi può perdere la vita. Se puoi morire, puoi anche vivere.

C’è un uomo che ha quattro case, tre auto, due lavori, uno stipendio da favola ma vive come un miseraccio. Ma che te ne fai? Perché continui ad accumulare? A che ti serve? Con quello che ha (più meno) potrebbe vivere per qualche milione di anni. Ma sai quanti ne vivrai? Se ti va bene non più di cento (e quaranta sono già passati!). Avete mai visto un leone? Dopo che si è pappato la gazzella, se ne sta tranquillo a dormire, a riposare, a godersi la vita. Non va a caccia di altre dieci gazzelle perché sa che non gli servono e sa che se ne uccide dieci al giorno poi non ce ne sono più. Noi uomini no, invece, vogliamo avere quello che non ci serve (guardate i nostri frigoriferi, le nostre discariche, i conti in banca di certa gente) così facendo ne facciamo morire altri! C’è cibo almeno per venti miliardi di persone, ma non per l’ingordigia della gente.

E perché facciamo tutto questo? Il motivo è semplice: paura della morte.

Perché ci attacchiamo ad una persona e ne facciamo la fonte della nostra felicità? Come se una persona potesse renderci felici? Se una persona può renderti felice, può renderti anche infelice. Allora vuol dire: io non sono felice e mi attacco a te che mi fai felice. E non posso stare senza di te perché sei la mia vita. Ma sei la mia vita perché io ho rinunciato alla mia. Perché facciamo così? Perché abbiamo paura di morire! Abbiamo paura di rimanere da soli, di non trovare più l’amore, di essere abbandonati, che tutto finisca e così ci aggrappiamo a cose e persone, vivendo poi l’angoscia e il terrore di perderle.

Ma se ci fosse un’altra vita? Se questa cosa che chiamiamo “vita” fosse solamente una preparazione? Tu vai al cinema e vedi un film. Ma che cos’è che hai visto in realtà? Non hai visto la realtà, tu hai visto nient’altro che una pellicola, delle immagini. Tu non eri dentro alla storia. E se questa vita fosse nient’altro che un film? E se la vita vera fosse, quella dove si sarà veramente dentro, fosse quella dopo la vita? E se le mie giornate non fossero altro che i nove mesi di gravidanza? Non è che ciò che io chiamo “morte” non sia nient’altro che un nascere? Non è che solo allora vedrò gli occhi meravigliosi di mia Madre e le mani forti di mio Padre? Non è che ora tutto quello che dico di loro non sia nient’altro che immagini, che tentativi, perché in realtà non li ho mai visti? Non è che sarà meraviglioso? Non è che saremo amati come mai potremo credere?

Quando gli apostoli andarono al sepolcro, dice Gv (20,9) non “avevano compreso ancora la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”. E’ per questo che morto Gesù se ne tornarono a casa, ciascuno al suo paese. Dicevano: “Va beh, è stato bello, peccato che sia tutto finito.” Perché per loro la morte era uguale a fine. Ed era inconcepibile che la morte non fosse la fine ma nient’altro che una nascita.

Lì fecero la scoperta incredibile (va oltre il razionale), indicibile (nessuna parola può contenerla) e impensabile (nessuna mente poteva immaginarla): la realtà non è così come sembra. E’ oltre. Nella vita si nasconde una Vita più grande.

Infatti il grande miracolo storico (la resurrezione è metastorica, un atto di fede) è che questi uomini, pieni di paura, traditori (come Pietro), arrivisti (Giacomo e Giovanni), grezzi, per niente acculturati o speciali, ebbero una trasformazione così radicale e così inspiegabile. Prima (anche durante la vita di Gesù) vivevano nella paura e nella difesa e poi andarono pieni di coraggio, energia, vitalità e passione in tutto il mondo, senza alcuna paura, senza temere, senza sottrarsi alle sfide e alle persecuzioni, e tutto questo lo fecero in nome di Cristo.

Quale fu il grande e vero miracolo? Fu che la realtà non era come loro pensavano. Lui non era morto, Lui era vivo, così vivo che loro lo vedevano, lo sentivano e li accompagnava.

Tutto ciò che viviamo, dice Pasqua, è vita vera, da vivere con tutta la forza del cuore; ma (e neppure abbiamo idea di cosa voglia dire, ma sarà così) la Vita Vera non è questa. Questa è vita vera, ma quella sarà la Vita Vera.

Vivo con tutta la forza, l’energia, la potenza e la passione questa mia vita, consapevole che poi avrò una sorpresa ancor più grande.

Pensiero della Settimana
Che tu sia coraggiosa come la sabbia del mare
che non teme le onde che avanzano per ricoprirla;
che tu abbia la fede di coloro che lottano per vincere,
la speranza di coloro che assumono il presente
per costruire il futuro,
l’amore di coloro che non temono la morte,
perché di amore non si muore ma si rinasce.

(Poesia di un detenuto brasiliano alla figlia appena nata)

Fonte:www.qumran2.net/

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