don Marco Pedron, "Servire la Vita con la propria vita"

Servire la Vita con la propria vita
don Marco Pedron
VI Domenica di Pasqua (Anno B)

  Visualizza Gv 15,9-17
Il vangelo di oggi inizia dicendo: "Come il Padre ha amato me (agapao), così anch'io ho amato voi (agapao). Rimanete nel mio amore (agapè)" (Gv 15,9).

Ma la domanda è: "Ma come ci ha amato Gesù?". E per dirlo non possiamo ipotizzarlo o inventarcelo noi. Dobbiamo andare a vedere cosa dice Gesù. Gv (Gv 13,1) è chiaro sull'amore di Gesù: "Dopo aver amato (agapao) i suoi che erano nel mondo, li amò (agapao) sino alla fine". E dopo aver detto questo, Gesù depone le vesti, prende un asciugatoio, se lo cinge, versa dell'acqua nel catino e lava i piedi ai suoi discepoli (Gv 13,2-5). E' la lavanda dei piedi.

Nella cultura giudaica, la lavanda dei piedi era un compito ingrato. La gente infatti girava per lo più scalza: ma lungo i sentieri, le strade e i campi non c'era solo polvere, ma un po' di tutto, dagli sputi agli escrementi degli animali. Quindi era un compito veramente schifoso ed era la parte più impura dell'individuo: era infatti l'inferiore che lavava i piedi di una persona considerata superiore. Così la donna (che non contava niente) li lavava al marito, i figli (che pure non contavano in quella cultura) al padre, lo schiavo al padrone.

E il vangelo dice: "Mentre cenavano..." (Gv 13,2): il lavaggio non è quindi quello prima del pranzo ma mentre stanno cenando, mentre cioè stanno facendo l'eucarestia (siamo nel giovedì santo). Quindi l'eucarestia è quest'amore qui.

"Depose le vesti" (Gv 15,4): le vesti erano il mantello. Il mantello era la dignità. Gesù non teme di perdere la propria dignità facendo questo gesto. La dignità del tempo diceva: "Il maestro non fa questo! Il maestro non si sporca le mani con queste cose! Il maestro non tocca ciò che è impuro". Gesù invece lo fa e non si sente inferiore a nessuno e neppure indegno.

"Prese un asciugatoio e se lo cinse attorno alla vita e lavò i piedi" (Gv 15,4): è il segno della lavanda. Gesù fa ciò che gli altri non facevano.

Poi si dice: "Dopo che ebbe lavato i piedi, riprese le vesti e sedette di nuovo" (Gv 13,12): si è rimesso il mantello, è tornato a sedersi, ma che è successo dell'asciugatoio, del grembiule? Forse Gv si è dimenticato di dirlo? No: quell'asciugatoio lì rimane per sempre, non si toglie più!

Questo è l'amore del Padre per Gesù, di Gesù per i discepoli e dei discepoli per il mondo. Dio ci viene incontro per farci puri. Dio viene a lavarci perché così quando uno è lavato è puro. Nella nostra mentalità a Dio ci vanno i puri (quelli in grazia): gli altri no, non ne sono degni. Ma con Gesù non è più così. Perché è Dio stesso che viene a lavarci: non ci vuole puri, viene Lui a lavarci. E' accogliendo Dio che diveniamo puri, non perché siamo puri che possiamo andare da Lui.

E poi Gesù dice: "Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi (ofeilo) i piedi gli uni gli altri" (Gv 15,14). E il verbo ofeilo, tradotto con "dovete" vuol dire letteralmente "essere debitore, avere un debito".

E qual è questo debito? Dio ti ama gratuitamente, incondizionatamente, aldilà di tutto. Lui non ti chiede di essere puro, giusto, buono; Lui ti chiede solo di accoglierlo e di lasciarti amare. E' un amore immeritato: è l'amore di Dio.

L'amore degli uomini (e non può che essere così) è condizionato. Le persone ci amano ma pongono giustamente dei limiti: "Oltre qui, dovrò ritirare il mio amore".

Posso accettare il tradimento di un mio amico ma dopo un po' di volte gli dico: "Guarda, adesso basta, perché mi fa troppo male quando fai così". Ed è logico, ovvio, che ritiro il mio amore e che la relazione si spezza.

Posso accettare un attacco aggressivo, forse anche un gesto violento, ma se la cosa continua, se mi voglio bene, gli devo dire: "Ti voglio bene ma non posso più stare con te", e me ne vado per la mia strada.

Quando avevo sei anni un amico dei miei genitori venne a casa nostra. Non ero molto interessato a lui; a me interessavano le mie macchinette con cui stavo giocando. Così neppure lo salutai. Allora mia mamma mi guardò con uno sguardo inviperito (era un suo grande amico e capisco che le dava parecchio fastidio che suo figlio si disinteressasse di lui!): "Non si saluta?". E capii che se avessi voluto l'amore di mia mamma dovevo dirgli: "Mi scusi, sono contento che lei sia qui con noi". Così imparai che se volevo l'amore c'erano delle condizioni chiare... e bisognava rispettarle.

L'amore degli uomini deve avere delle condizioni: quello di Dio no.

Quindi io ho un debito nei confronti di Dio: mi ama in un modo che io non posso ricambiare.

Avviene la stessa cosa con i nostri genitori. I nostri genitori, buoni o meno buoni che siano stati, comunque ci hanno fatto un dono immeritato e unico: la vita. Nessuno di noi può ripagarli, perché per ripagare il dono della vita dovremo morire per loro (al dono della vita il corrispettivo è il dono della vita). Ma questo dono non si paga indietro (diamo la vita per loro) ma in avanti (creiamo a nostra volta gratuitamente vita).

Così con Dio: ci ama di un amore incondizionato, gratuito e il suo amore si riversa in avanti ad altri. Sei amato senza meriti, senza aspettative e senza pretese: fai anche tu così. "Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Mt 10,8).

Un malato di lebbra era stupito, esterrefatto, estasiato, da come Madre Teresa lo curava. Aveva un amore, una cura, un rispetto, che prima non aveva mai provato. Con lei lui si sentiva importante e degno di amore. Così un giorno le chiese: "Ma Madre, come fa ad amare così?". E lei: "Perché anch'io sono amata così". E il malato: "Dev'essere un gran signore chi la ama così (il malato pensava chiaramente ad una persona terrena)". E Madre Teresa: "Eh sì, è proprio un gran Signore!".

Se sei amato da Dio, ami gratuitamente, senza giudizi e senza pretese, perché allora sai cos'è l'amore di Dio. L'amore di Dio è così: viene per servirti, per te, gratuitamente. Gli altri tipi di amore sono buoni ma non sono quello di Dio. E se sei amato così da Lui, impara ad amare gratuitamente anche tu e riversa sugli altri l'amore che hai ricevuto.

Poi Gesù dice: "Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore" (Gv 15,10).

Quando noi leggiamo "comandamenti" pensiamo automaticamente ai Dieci Comandamenti. Ma in Gv non troviamo nessuna lista di comandamenti di Gesù. E nei vangeli, se Gesù invita a qualcosa, non è a seguire i Dieci Comandamenti ma casomai le otto Beatitudini.

Quando noi pensiamo poi al "comandamento dell'amore" pensiamo automaticamente: "Ama il prossimo tuo come te stesso". E pensiamo che Gesù abbia insegnato questo. Ma non è così. Questo lo aveva insegnato la spiritualità ebraica ma non Gesù. Anche perché, per un ebreo, il prossimo non sono tutti gli altri ma solo degli altri ebrei.

Gesù lo dice sotto qual è il suo comandamento: "Amatevi come io vi ho amati" (Gv 15,12) e il riferimento è la lavanda dei piedi.

In Gv 13,34 Gesù dice: "Vi do un comandamento nuovo (kainos)". Nuovo in greco si può dire neos che significa un altro "aggiunto nel tempo" (ho una bicicletta e me ne regala una di nuova, cioè un'altra). Oppure si può dire con kainos che vuol dire nuovo nel senso di qualità: "E' un'altra cosa!" (prima avevo una bicicletta e adesso ho una nuova moto: è su di un altro livello, di un'altra qualità).

Allora: gli ebrei avevano già i Dieci Comandamenti e Gesù non ne dà un undicesimo. Avevano già 613 di regole da seguire, bastavano quelle, erano più che sufficienti! Gesù non aggiunge, ma toglie. Gesù ne dà uno unico, di totalmente nuovo, su di un altro piano, tutta un'altra cosa, che soppianta tutto ciò che c'è prima.

Avete presente il mare di Sottomarina: carino! Ma volete mettere quello della Sardegna, delle Isole Tremiti, ecc. Sempre mare, ma tutta un'altra cosa. Lo stesso mare... due mari diversi.

Questo amore produce gioia: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Gv 15,11). Non a caso la parola "amore" (charis) viene da "gioia" (charà=gioia, festa, godere). Se l'amore non produce gioia vale la pena di farsi delle domande.

Essere nella gioia non vuol dire che tutti i giorni io sia felice o che tutto vada bene. La gioia è il sentimento profondo di essere al mio posto, di essere amato, di sentire che lì vado bene e che sono qui a questo mondo per qualcosa di importante, che mi crea una sensazione di vitalità, di gioia interiore e di libertà.

Si può amare il Signore ed essere sempre seri, tristi, composti, irreprensibili? Questi sono i segni della gioia (sorriso, serenità, generosità, pace, ecc.), ma se non ci sono mai segni di gioia, si sente davvero l'amore di Dio? Dio è gioia.

Si può amare i propri figli ed essere sempre critici, mai contenti, sempre con qualcosa da appuntare? Se i nostri figli non sono gioia, lacrime di commozione, felicità di averli, senso per la nostra vita, bisogna farsi delle domande.

Certo a volte è difficile stare assieme al partner, ma se non c'è mai gioia, il desiderio di stare insieme, di ridere, di darsi piacere, di scherzare, di ringraziarlo, di abbracciarsi; se l'altro non è una gioia della nostra vita, bisogna farsi delle domande.

George Bernanos scriveva in Diario di un curato di campagna: "L'opposto di un popolo cristiano è un popolo triste, un popolo di vecchi".

Una mamma era molto preoccupata che suo figlio crescesse nel timore di Dio. Poiché un giorno suo figlio rubò una merendina, sfruttò l'occasione. "Lo sai che Gesù ti vede?". "Sì mamma!". "Lo sai che Gesù sa tutto?". "Sì mamma!". "E cosa credi che ti abbia detto quando hai preso di nascosto la merendina?". "Mi ha detto: "Qui ci siamo solo io e te, prendine due!".

Dio è gioco, piacere, vitalità. C'è un fatto che è raccontato nella "Vita della beata Umiliana de' Cerchi", di frà Vito da Cortona. "Mentre la santa giaceva nel suo letto, dentro la sua cella nella torre, ecco un bambino di quattro anni o poco più, dal volto bellissimo: giocava nella sua cella davanti a lei. Quando lo vide provò una grande gioia e gli disse: «O amore dolcissimo, o carissimo bambino, non sai fare altro che giocare?». E il bambino rispose: «Che volete che faccia?». E la benedetta Umiliana disse: «Voglio che tu mi dica qualcosa di bello su Dio». E il bambino disse: «Credi che sia bene che uno parli di se stesso». E disparve".

Poi il vangelo dice: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita (psiché) per i propri amici" (Gv 15,13).

Questa immagine è stata a volte distorta. Siccome bisognava "dare la vita", allora bisognava "morire" per gli altri, darsi così tanto da fare fino a sfinirsi, fino a perdersi, a sacrificarsi. Allora si viveva il darsi come un darsi che non bastava mai.

Ma il vangelo usa la parola psiché che vuol dire psiche, vita interiore, anima. E' questa che bisogna dare ai propri amici: ciò che si ha dentro. Perché dare la vita fuori, quella esteriore, non serve.

Il dono più grande per un figlio non sono i soldi, né il cognome famoso, né i beni, né un'adeguata posizione sociale; il vero dono è dargli ciò che io ho dentro, la mia parte più vera, più profonda, è darti la mia anima, i miei dubbi, le mie paure, i miei slanci.

Se non hai nessuna vitalità (psychein), nessun stupore, nessun ideale, nessun valore radicato che niente può mettere in questione, se non hai fiducia/fede, cosa puoi donare?

Spesso le persone stanno assieme una vita: si sono donati corpo, tempo, ore, cose, ma mai la psiché, mai l'intimo. Pur essendo in casa sono rimasti estranei.

Perché le coppie scoppiano? Perché non ci si dà l'anima, la psychein, l'interno: non ci si mostra nella propria debolezza, vulnerabilità, paura, sogni, e d'altra parte spesso neppure si viene accettati nella propria parte più profonda. Le coppie scoppiano non perché non si amano più ma perché non sanno amarsi così. E' questo che dobbiamo insegnare loro: darsi l'anima, la vita interna, profonda, la psychein. Possiamo dire che "stiamo insieme" perché facciamo tante cose insieme, ma non che "siamo insieme", non che c'è comunicazione, non che le nostre anime si incontrino, si tocchino, si parlino, si guardino?

Psychein, dal greco, non a caso vuol dire anche respirare (spirito=pneuma=vento). Dare la propria vita, il proprio respiro significa dare la propria vita per qualche cosa di importante. La regola è la stessa per tutti: la vita passa. La scelta è sul come tu vuoi farla passare: semplicemente passerà o le vuoi dare una direzione? Passera per qualcosa di significativo (dare il proprio spirito-psychein a questo mondo) o semplicemente scorrerà?

Il vangelo per spiegare questo concetto ha una bellissima parabola: la parabola delle mine (Lc 19,11-27).

C'è un signore che deve partire per un viaggio e dà in abbondanza ai suoi servi: infatti a tutti dà una mina (che è una bella somma). Il primo, al ritorno del padrone gli porta altre dieci mine: bene. Il secondo, cinque: bene lo stesso. Il terzo, invece gli porta solo la mina che aveva avuto e gli dice: "Ecco la tua mina, che ho tenuto riposta in un fazzoletto (sudarion): ho avuto paura..." (Lc 19,20-21). Il sudarion è un rettangolo di tela di lino che veniva messo sopra il volto del cadavere, per non vederne il processo di putrefazione che iniziava rapidamente dato il caldo di quell'ambiente.

Lc dice: "Tu per paura di rischiare, di coinvolgerti, di perdere la tua immagine, di osare, l'hai conservato in un sudario". Esternamente è un lino puro e limpido, ma sotto c'è il marciume, il putridume, di una vita che non è stata spesa per gli altri.

Dare la vita/vitalità vuol dire "spendersi" per qualcosa che abbia un senso. Io ho una riserva di energie, di vitalità, di passione, di risorse, di abilità, di capacità, di tempo: non le avrò per sempre. Cosa voglio fare di questa "vita" che ho? Voglio tenerla per me, nascondermi, tenerla nel mio sudario, nascondere il mio tesoro? Voglio fare come l'uomo della parabola, che per paura, nasconde la mina? Tanto, anche se faccio così, la fine è uguale per tutti.

Ma c'è un'altra possibilità: posso dare la mia vita/vitalità per una causa, per qualcosa che abbia un senso, per un valore, per far sì che quest'umanità sia migliore. Non solo sarà migliore l'umanità, ma anche la mia vita allora avrà avuto un senso.

Non è terribile passare senza lasciare niente di sé. Allora si è davvero stati inutili.
Visto che passi, per cosa vuoi spenderti?

Elias, 37 anni, era un uomo impegnato per la liberazione dei ragazzi dalla prigionia delle favelas. Un giorno i squadroni della morte andarono a casa sua e lo uccisero. Sua madre quando lo vide sanguinante gli disse: "Te l'avevo detto, perché ti sei impicciato con quella gentaglia?". "Mamma sono stato al mondo 37 anni e ho vissuto 37 anni. Sono stato felice di ciò che ho fatto. Lasciami andare!". E così morì.

James Harrison, un settantaseienne australiano, ha salvato due milioni di bambini. Nel 1954 un gruppo di ricercatori trovarono nelle sue vene un prezioso anticorpo in grado di curare una forma di anemia, la malattia di Rhesus, che colpisce i piccoli che hanno un gruppo sanguigno diverso da quello della propria madre. Grazie al plasma di Harrison è nato il vaccino salvavita anti-D in grado di ristabilire l'equilibrio tra cellule immunitarie e plasmatiche per i piccoli alle prese con questa malattia. Il suo sangue è raro e preziosissimo e lui lo ha donato 984 volte (cifra del 2010), con appuntamento fisso ogni due settimane. Lo chiamano "l'uomo dalle braccia d'oro". Harrison dice: "Io ho un dono. Come potrei tenerlo per me? Un dono è fatto per essere donato. E donandolo sono felici gli altri e anch'io perché mi sento utile e importante".

Siamo chiamati a servire questa Vita con la nostra vita. Allora saremo serviti.


Un giorno, un ragazzo povero, Howard Atwood Kelly, che vendeva merci di porta in porta per pagarsi gli studi universitari, si ritrovò con soli dieci centesimi in tasca... e aveva molta fame! Decise quindi che alla prossima famiglia visitata, avrebbe chiesto del cibo. Ma gli aprì la porta un'affascinante signora che lo turbò a tal punto che, confuso, non seppe chiedere altro che un bicchiere di acqua, anziché del cibo.

La donna si accorse che il ragazzo era affamato, ed invece di acqua, gli portò un grosso bicchiere di latte. Il ragazzo lo bevve lentamente, e poi chiese alla signora: "Quanto le devo? Non mi devi niente - rispose - mia madre mi ha insegnato a non pretendere nulla per quello che si dona per amore ai fratelli". - Allora la ringrazio di cuore...! Quando Howard Kelly uscì da quella casa, non solo si sentì più forte fisicamente, ma sentì anche che era cresciuta in lui la fiducia negli uomini e la fede in Dio.

Molti anni dopo, quella donna si ammalò gravemente. I dottori locali erano confusi sul suo caso e non sapevano trovare rimedio alla sua malattia. Decisero di inviarla nell'ospedale della capitale e chiamarono il famoso Dottor Howard Atwood Kelly per un consulto urgente. Quando questi sentì il nome del paese da cui proveniva la paziente, una strana luce riempì i suoi occhi. Salì immediatamente nella stanza della paziente, e riconobbe l'anziana signora. Il suo cuore sussultò di commozione. Era deciso a fare qualsiasi cosa pur di salvarle la vita. Da quel momento tutte le sue premure erano per l'ammalata, e le sue giornate erano tutte per trovare rimedio a quella terribile malattia che stava per uccidere la signora. Dopo una lunga lotta, la paziente, vinse la battaglia! Era completamente guarita! Quando la paziente fu definitivamente fuori pericolo e guarita completamente, il Dottor Kelly chiese all'ufficio amministrativo dell'ospedale che inviasse la fattura totale delle spese a lui, per il visto. Quando l'ebbe in mano, la firmò approvandola, e scrisse, in calce alla stessa, una annotazione. La fece così recapitare nella stanza della paziente: "Pagata completamente molti anni fa...

con un bicchiere di latte"! Dottor Howard Kelly.

Fonte:www.qumran2.net/

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