Padre Paolo Berti, “Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”

IV Domenica di Pasqua         
Gv.10,11-18 
“Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”

Omelia 

Chi è nella verità e si trova dinanzi a un tribunale, che lo accusa e lo interroga, non può rimanere soggiogato, paventando la pena che gli può essere inflitta. Certo occorre coraggio, ma a Pietro non mancava, e questo ci viene detto con una formula: Pietro era “colmato di Spirito Santo”. 
Il Tribunale supremo dei Giudei, il Sinedrio, credette di avere facilmente partita vinta con due popolani di poco conto, ma le cose non andarono così. Le parole di Pietro sono piene di forza, di vivacità. Le intimidazioni non hanno prodotto altro che coraggio e autorevolezza: “Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo (...) sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d'Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato”. 
Cosa è successo a Pietro, che parla con tanta dignità e fermezza davanti al Sinedrio, che rimane stupefatto? (At 4,13): “Vedendo la franchezza (cioè la sicurezza) di Pietro e di Giovanni e rendendosi conto che erano persone semplici e senza istruzione, rimanevano stupiti”. 
Era successo che Pietro condotto davanti al Tribunale si era ricordato delle parole di Gesù (Mt 10,18): “E sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia (...), non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi”; e le aveva vissute. Pietro non aveva preparato la sua difesa, ma si era unito intimamente a Dio presente in sé, aveva rinfocolato il suo essere servo del Signore, testimone del Signore; il resto venne da sé sotto l'azione dello Spirito Santo. 
Il Sinedrio rimase stupefatto: uomini ignoranti parlavano con eloquenza, con sicurezza, in una posizione non difensiva ma di attacco. Aveva creduto il Sinedrio di non aver più a che fare con la memoria di Cristo, e invece ecco che egli aveva lasciato un'eredità coraggiosa, strutturata, motivata, dotata di carismi, animata dalla carità. Il Sinedrio cominciò così a combattere l'eredità di Cristo, la Chiesa. La marea accecata dall'odio che aveva voluto la sentenza di morte, sotto la spinta del Sinedrio, dei Capi di Israele, venne scossa. Un parte si convertì a Cristo, ma un fiume ostile riversò le sue acque nel mondo pagano affinché i pagani fossero prevenuti contro Cristo. Paolo, che assolutamente non deve essere letto come un antigiudaico, tante infatti sono le attestazioni d'amore per loro (Cf. Rm 10,1, ecc.), ne fece la dolorosa constatazione dicendo (1Ts 2,15): “Costoro (...) non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini. Essi impediscono a noi di predicare ai pagani”. 
Ecco, quel torrente ostile si alimentò del concorso degli eretici, degli anticristi, come li chiama san Giovanni (1Gv 2,18): “Di fatto molti anticristi sono già venuti”. Il torrente limaccioso dell'ostilità a Cristo è diventato sempre più forte, più astuto nel combattere Cristo, e ora quelle acque limacciose ci stanno dinanzi con una forza che ci impressiona. E' il mistero dell'iniquità (2Ts 2,7). Ci verrebbe da rifugiarci nell'intimità delle nostre chiese, delle nostre assemblee, dei nostri gruppi, aspettando la rovina dei nemici di Dio e della Chiesa, magari compiacendoci delle zuffe tra di loro, illudendoci che esse segnino la loro spaccatura, e quindi l'inizio di lotte intestine, fatali. C'è anche questo, dove c'è odio c'è divisione, ma purtroppo anche unità nell'odio verso Cristo e la Chiesa. Accade che quando pensiamo che si stiano spaccando si rinsaldano, come già Erode e Pilato, che da nemici si trovarono ad essere amici nel combattere Gesù (Lc 23,12). Errore, aspettare seduti sull'argine del fiume il passaggio dei loro cadaveri, come consiglia un detto cinese. Errore degli errori, perché è mancanza di carità. Bisogna annunciare Cristo, testimoniare Cristo, agendo con semplicità, come colombe, ma anche prudenti come serpenti (Mt 10,16), come ci dice Gesù, liberandoci da un fare ingenuo e solamente entusiastico. 
Non c'è da scoraggiarsi; la Chiesa, colpita, umiliata, bandita, è stata sempre feconda perché ha sofferto, mai odiando, mai arrendendosi. La Chiesa è cresciuta, è entrata nei continenti, nelle nazioni, perché disposta ad accettare le difficoltà; disposta ad amare anche se non amata. La Chiesa è il fiume cristallino che disseta, che rende fecondo il mondo di opere buone, che porta vita nel mondo. Due fiumi. Uno avvelenato che vuole paralizzare il cammino delle genti a Cristo, l'altro salvifico che soccorre, che fa vivere, che rende bello il cammino verso Cristo, accogliendo le genti e lanciandole verso nuove conquiste. Due fiumi: in mezzo le genti. Fratelli e sorelle, non dobbiamo paventare il torrente avvelenato del mondo, anzi dobbiamo addirittura cercare di depurarlo. Rimarrà, purtroppo, per colpa propria, ma deve essere ridotto, nei tempi, ad un rigagnolo. Sta a noi fare questo. Il fiume del male si è allargato per colpa anche nostra. Per colpa delle inadempienze, per l'inerzia anticaritativa di esserci seduti ad aspettare la caduta dei nemici di Dio e nostri, mentre dovevamo pregare per la loro salvezza. Il senso della consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria era questo: pregare per la conversione della Russia appoggiandoci a Maria. 
Non scoraggiamoci, Giovanni presenta nella sua lettera la motivazione profonda del perché il mondo non conosce i cristiani, cioè li fraintende, li accusa. La ragione sta nella sua chiusura a Dio: “Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui”. 
Il mondo, cioè la coalizione contro Dio, è diventato tale perché non ha voluto e non vuole conoscere lui. Il mondo non coincide con la società, ma è il risultato sociale dell'infiltrazione del peccato, eletto a verità, in ampi strati della società. Il mondo è una realtà estranea alla Chiesa, può solo arrivare a contaminare alcuni padiglioni, cioè ambienti, dell'edificio unico, incontaminabile e indistruttibile, che è la Chiesa. 
San Paolo responsabilizza i pagani diventati mondo, dicendo (Rm 1,21.28): “Le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa, perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio (...). E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati ialla loro intelligenza depravata”. 
Rifiutata la volontà di conoscere Dio viene distrutta la disponibilità ad accogliere Cristo e il suo messaggio. Quando la nostra testimonianza viene rifiutata in realtà viene rifiutato prima il Signore. Questo ci permette di non sentire le ostilità tutte su di noi, e ci dice anche che il Signore ci sostiene nel servizio della sua causa. 
Giovanni provvede anche ad entusiasmarci, presentandoci la vita futura nel cielo. Ora non abbiamo l'esperienza della beatitudine celeste, ma un giorno l'avremo perché “quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”. Saremo simili a Cristo, non solo per la risurrezione, ma anche perché come l'umanità di Cristo gode della visione dell'Essenza divina, così noi ne godremo. Così noi vedremo Cristo nella sua totalità di Dio-Uomo, e vedremo il Padre avendo con lui in Cristo un'intimità di gloria, e così vedremo lo Spirito Santo mentre ne sperimenteremo la veemente operazione in noi. 
Questa apertura al futuro ci dona forza nel seguire Cristo, nostro Salvatore e premio. La forza di seguirlo nella sua oblazione al Padre. Gesù nel Vangelo ci dice: “Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo”. Offre la sua vita in espiazione delle colpe degli uomini, ma la riavrà: “Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo”. Che cos'è questo potere? Questo potere è l'obbedienza amorosa al Padre. Non si offre la propria vita a Dio se non nell'amore e non la si riavrà se non per averla data per amore. Il potere di riprenderla è tutto nel suo amore al Padre. Amore che è libero, perché non c'è amore dove c'è costrizione. Fuori dubbio, il potere di riprendere la vita sta tutto nella sua dedizione al Padre, che lo ha risuscitato dai morti. Dare la vita è l'adorazione suprema. Anche noi fratelli dobbiamo giungere a dare la vita; non dico che sarà il martirio, ma certo una vera donazione di tutto il nostro essere nel servizio a Dio, nella prospettiva della gloria eterna. Amare è obbedire, è avere confidenza, è trattenersi con il Signore, e donargli tutto di noi. Amare è dargli amore, nella volontà di donargli tutto di noi. 
Gesù l'ha data la sua vita; non è stato un malcapitato al quale hanno tolto la vita; non è stato uno soggetto all'impero di potenti, poiché poteva annientare chi lo legò, chi lo mise in croce (Cf. Mt 26,53). Gesù liberamente ha dato se stesso in obbedienza alla volontà del Padre, che per la salvezza del mondo chiese tanto al Figlio. Così anche noi dobbiamo donarci. Noi donandoci in Cristo partecipiamo della libertà con cui egli si donò. Il Padre potrebbe sottrarci al sacrifico, ma non lo fa, e noi lo accettiamo, così noi in Cristo completiamo nella nostra carne ciò che manca ai suoi patimenti. A volte ci troviamo di fronte a situazioni ineluttabili, sembra che la nostra libertà sia soppressa, eppure siamo liberi. Possiamo amare oppure rifiutarci di amare. Possiamo offrire e soffrire, oppure ritiraci ribellandoci al soffrire. Siamo sempre liberi, l'amore è sempre atto libero. Ma ecco la vita la riavremo. Cristo dando la sua vita l'ha riavuta, ma non solo per sé, ma anche per noi. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù. 


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