, Abbazia Santa Maria di Pulsano, Lectio DOMENICA della «SS. TRINITÀ»
DOMENICA della «SS. TRINITÀ»
I Domenica dopo la Pentecoste (s), Anno B
Matteo 28,16-20; Deuteronomio 4,32-34.39-40; Salmo 32; Romani 8,14-17
È inutile cercare nell'Antico Testamento una rivelazione precisa della Trinità: il monoteismo rigoroso
del popolo eletto rendeva impossibile qualsiasi scoperta in questo senso. Tuttavia, proclamando l'esistenza
di «un solo Dio», Israele non ha mai pensato a «un Dio solo», un Dio solitario. Fin dai tempi più antichi
l'ha sempre percepito come un Dio in dialogo: col mondo, con l'uomo, col popolo in cui era presente per
mezzo della sua alleanza.
È a partire dalla persona di Gesù risorto che il Nuovo Testamento ha intuito il mistero della vita intima
di Dio. «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra». Riflettendo su questa parola del figlio dell'uomo,
la Chiesa primitiva ha compreso che Dio, risuscitando Gesù e innalzandolo alla sua destra, lo stabilisce al
di sopra di ogni creatura e ha riconosciuto lo stretto legame che unisce Gesù a «colui che dà vita ai morti»,
la sua uguaglianza con Dio. Il battesimo farà compiere il passo decisivo dalla professione di fede nel Dio
unico e nel Cristo signore alla confessione trinitaria propriamente detta. La caratteristica essenziale del
battesimo cristiano, infatti, è quella di essere un battesimo nello Spirito, in cui si afferma che la fede nel
Padre e nel Figlio non può essere proclamata che nello Spirito. Così il battesimo nel nome di Gesù diventa
a poco a poco il battesimo «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo»: la Chiesa ha compreso
che la vita e l'opera di Gesù sono, in definitiva, l'opera e la vita del Padre nello Spirito. Sulle orme degli
apostoli, i cristiani continuano a radunarsi per prendere coscienza di ciò che sono realmente: la Chiesa nata
dalla Trinità, che insegna agli uomini che sono figli di Dio e devono comportarsi come tali.
Il centro dinamico della Rivelazione trinitaria è e resta sempre la Resurrezione del Signore, attraverso la
quale «lo Spirito Santo donato dal Padre rivela il Figlio e a partire dalla sua Persona il Figlio rivela il
Padre, e donando lo Spirito Santo riporta a Lui». I testi base come Rom 1,4; At 2,32-33.36; Lc 1,35, sono
tra i più difficili del N. T. Ma il culmine del N. T. porta sempre verso la pienezza della Rivelazione come
grazia: che «Dio è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo - nello Spirito Santo» (qui Ef 1,3; 4,4-6; 1 Cor
8,6; 12,3-6 1 Pt 1,3). E se la maggioranza dei testi del N.T consegna ai fedeli la Rivelazione della grazia
effusa attraverso la «divina Economia nella storia», essa tuttavia concede a essi anche qualche prezioso
"spiraglio", discreto nella sua rarità, attraverso cui intuire la Vita divina intratrinitaria. E la Chiesa ha
sempre espresso questo al modo della dossologia, ossia glorificando e celebrando per la grazia dello Spirito
Santo.
2/8 Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della Domenica della «SS. Trinità» B
Antifona d’Ingresso
Sia benedetto Dio Padre,
e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo:
perché grande è il suo amore per noi.
L’antifona d’ingresso è una composizione che canta una “benedizione” rivolta al Padre e al Figlio e allo
Spirito Santo, il Signore Unico che operò la misericordia agli uomini. Il testo tuttavia non è capace di
fissarsi sulla Trinità santa, ma invece discende subito agli uomini secondo l’ormai incurabile cultura
teologica che non è teocentrica ma solo antropocentrica.
Canto all’Evangelo Cf Ap 1,8
Alleluia, alleluia.
Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo:
a Dio che è, che era e che viene.
Alleluia.
La proclamazione evangelica è orientata dalla rivelazione a Giovanni (vedi Ap 1,8), al quale si manifesta
il Signore Unico con i titoli simbolici dell’eternità: l’Alfa il Principio e l’Omega la Fine, due estremità
simboliche che dicono il tutto. Inoltre, si manifesta con il Nome rivelato a Mosè dal Roveto ardente (Es
3,14), «Colui che è» in eterno, che insieme è «Colui che era» dall’inizio e «Colui che viene» per condurre la
storia degli uomini come «l’Onnireggente», Colui che tutto domina e tutto dirige ai suoi fini.
Dopo aver contemplato l’azione dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, la liturgia ci invita a
fermare la nostra attenzione alle Tre Persone della SS. Trinità. Questo tema è realmente “straordinario” se
si pensa che fino a Gesù il vertice teologico della Torah era rappresentato dal libro del Deuteronomio:
«Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il
cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze» (Dt 6,4-5). Queste parole diventeranno l’inizio della
preghiera giudaica detta “Shemà “ (Ascolta) che è la parte fondamentale della liturgia quotidiana ebraica,
recitata al mattino e alla sera.
Gli israeliti adorano un Dio unico. I pagani adorano più divinità, mentre noi cristiani adoriamo un solo
Dio in Tre Persone uguali e distinte. La parola “Trinità” non è presente nel N.T. e neanche è rintracciabile
la teologia trinitaria nella forma così approfondita e articolata dell’insegnamento della Chiesa. Questa
dottrina trinitaria non è un’invenzione dei teologi ed è indiscutibile che la definizione delle relazioni che
legano tra loro il Padre, il Figlio e lo Spirito ha una sua consistenza nelle pagine neotestamentarie.
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della Domenica della «SS. Trinità» B 3/8
San Paolo ricorda che i doni effusi nella comunità hanno, nella loro unità e diversità, radice nello
Spirito, nel Signore (Cristo) e in Dio Padre (1 Cor 12,4-6).
L’unità tra i credenti ha come sorgente «un solo Spirito, un solo Signore, un solo Dio Padre di tutti» (Ef
4,4-6). Ancora oggi nella liturgia ci scambiamo il saluto con cui Paolo chiude la sua seconda lettera ai
Corinzi: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo
siano con tutti voi» (13,13).
Pietro apre la sua prima lettera con un indirizzo trinitario (1,2) e Giovanni nella sua prima lettera ha un
testo che nella versione latina della Volgata si è allargato in una professione di fede trinitaria (detta
convenzionalmente “il comma giovanneo”). Essa, anche se non appartiene all’originale, esprime in modo
limpido la fede della Chiesa dei primi secoli che dalle Scritture aveva tratto e riformulato la sua concezione
teologica trinitaria: «Tre sono quelli che rendono testimonianza nel cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito
Santo, e questi tre sono uno» (5,7).
La II lett. ci guida in questa fede nella SS. Trinità: «Avete ricevuto uno spirito di figli adottivi per mezzo
del quale gridiamo: “Abbà Padre”. Lo spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio».
La parola. “Abbà”, di origine aramaica era usata dal bambino solo in casa per dire “papà mio” e ciò vuol
farci capire che Dio Padre rivelato da Gesù ha un amore tenero e benigno verso ogni uomo.
Anche a uno schiavo potrebbe un giorno toccare di sentirsi dire che il suo signore lo ha adottato a figlio,
ma questa “notizia” in fondo non lo libererebbe dalla condizione di schiavitù “interiore” se non giungesse
anche a crearli nel cuore il moto dell’affetto filiale.
Ecco quello che lo Spirito crea in noi: ci annuncia la filiazione adottiva, ma ci dà anche un animo capace di
sentire e invocare Dio come Padre; ed esercita continuamente il suo influsso su di noi perché tutta la vita
sia espressione di questa parola, “Abbà”, che cominciamo a pronunciare nel giorno del battesimo.
Tutto questo non deve poi ricondursi ad una questione psicologica, quasi che noi vivessimo da figli solo
quando c’è facile avere il “sentimento” della fiducia. Si tratta in realtà della certezza della fede, la quale
“sa” che Dio è nostro Padre e ci ama come figli anche quando questo risultasse difficile da sperimentare in
maniera sensibile.
Non si dimentichi che l’unico caso in cui nell’evangelo ricorre la parola “Abbà” è quello di Mc 14,36,
nel contesto del Getsemani, dove all’uomo Gesù non è certo facile pronunciarla, ma dove Gesù mostra nel
modo più evidente la relazione filiale. Tale relazione filiale è donata anche a noi:
Antifona alla Comunione Gal 4,6
Voi siete figli di Dio: egli ha mandato nei vostri cuori
lo Spirito del Figlio suo, che grida «Abba, Padre».
4/8 Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della Domenica della «SS. Trinità» B
Al momento della partecipazione ai divini Misteri si canta infatti la divina filiazione, che il Padre volle
donare ai figli suoi, inviando nei loro cuori lo Spirito del Figlio Risorto (vedi anche Rom 5,5), e lo Spirito
Santo stesso prega in quei cuori l’invocazione suprema: ‘Abbâ’, Padre! E «oggi qui» infatti tutti i fedeli,
saziati dalla Parola e dal Cibo celeste, resi compatti come Chiesa corpo di Cristo, avendo già pregato il
«Padre nostro», trova il Padre che li accoglie.
La I lett. ci presenta “l’omelia” con cui Mose istruisce il suo popolo sulla trascendenza di JHWH e sulla
sua vicinanza all’uomo. La liturgia ci fa leggere (sia pure a brandelli) uno dei testi più significativi sul
monoteismo veterotestamentario dove si respira un rigoroso monoteismo, teorico e pratico. Il testo fa parte
del primo discorso di Mosè nelle steppe di Moab, mentre prepara il popolo all’ingresso nella terra
promessa (Dt 1,1-4,43), insegnandogli una lunga mistagogia sui fatti divini che Israele sperimentò
nell’esodo dall’Egitto e durante la vita trascorsa nel deserto.
L’unicità di Dio non è affermata astrattamente, ma è l’unicità della rivelazione divina nella storia,
riconoscibile dagli eventi unici e meravigliosi di cui Israele è stato destinatario da parte di JHWH (uscita
dall’Egitto; teofania e dono della parola divina sull’Oreb).
Tutti questi eventi erano impossibili agli dèi e dicono la ineguagliabile azione di JHWH per il suo
popolo, che diventa un popolo unico di fronte agli altri, il popolo che ha udito Dio parlare di mezzo al
fuoco.
L’esortazione di Mosè prosegue con logica pacata: mediante Mosè “oggi” il Signore ha concluso la sua
alleanza con Israele, “oggi” ha emanato per esso la sua Legge santa e i suoi precetti salvifici. Il popolo
allora è esortato a vivere la Legge e i precetti, a porli in esecuzione. Da questo solo gli verrà del bene, e
altrettanto ai suoi discendenti. Questa è anche la condizione per vivere per sempre nella terra promessa,
alla presenza del suo Signore (Dt 4,40; ma anche la conclusione dell’evangelo con il mandato di insegnarebattezzare
e vivere la vita nuova del battesimo).
L’Evangelo ci assicura la presenza trinitaria in chi riceve il battesimo; infatti Matteo ci mostra la
formula battesimale che probabilmente era in uso presso la sua comunità. Certamente, come possiamo
rilevare dagli Atti, il battesimo era conferito «nel nome dì Gesù», poi questa formula fu sostituita, come ci
fa capire l’Evangelo di Matteo, dalla formula trinitaria proprio per indicare che ricevere il battesimo nel
nome di Gesù significa entrare nella vita stessa del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Esaminiamo il brano
La liturgia odierna ci fa leggere la finale di Matteo (cfr. Ascensione del Signore A) per la formula
trinitaria collegata al battesimo. Si conclude, qui, il tempo della presenza visibile di Gesù in mezzo ai suoi
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della Domenica della «SS. Trinità» B 5/8
e si profila l’inizio del tempo della Chiesa, che è anche il tempo degli Apostoli, degli Evangelisti e, anche
il tempo della scrittura dell’Evangelo.
Secondo questo testo conclusivo, il tempo della Chiesa è caratterizzato da un comando fondamentale che
Gesù ha affidato alla comunità: l’evangelizzazione. Il programma per l’evangelista e per il tempo della
Chiesa è il seguente: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo».
v. 16 - «Gli undici discepoli»: Il circolo dei Dodici che hanno sempre accompagnato Gesù è stato
spezzato dalla defezione e dal suicidio di Giuda (vedi Mt 27,3-10). Matteo non fa alcun accenno alla
reintegrazione del numero dodici come fa Luca in At 1,12-26.
«se ne andarono in Galilea»: Prima del suo arresto e poi nel brano del sepolcro vuoto l’attenzione era
stata attirata sull’incontro del Risorto con i suoi discepoli in Galilea (28,7).
La comunità degli apostoli, ancora in undici dopo la morte tragica di Giuda (27,1-10) e prima dell’elezione
di Mattia (At 1,12-26), si reca all’appuntamento con il Cristo risorto, non già per riconoscerlo, ma per
ascoltare la rivelazione definitiva. Il luogo è significativo; la portata dell’indicazione infatti va oltre il
carattere puramente topografico per assumere un valore simbolico.
«Galilea»: diciamo subito che non si tratta della regione settentrionale della Palestina, dove Gesù aveva
cominciato la predicazione, come ritengono alcuni autori. La «Galilea» (come attestato ormai dalla
maggioranza degli esegeti) era una collina in forma di cupola, che si trova in Gerusalemme stessa, ad
oriente, alla sommità del Monte degli Olivi.
«sul monte»: La partenza dei discepoli adempie la profezia di Gesù in Mt 26,32 e il doppio comando
dell’angelo e di Gesù in Mt 28,7.10. Tutta la potenza simbolica risplende al suono di questa parola: è il
luogo della rivelazione divina. Sul monte Gesù aveva insegnato una nuova dottrina di vita (5,1-2); ora, di
nuovo sul monte, risuona la sua Parola di Signore glorioso e scopre ai discepoli l’orizzonte della missione
universale.
v. 17 - «si prostrarono»: I destinatari della manifestazione sono i discepoli; essi vedono il Risorto e lo
adorano, benché alcuni dubitassero. Il fatto dell’apparizione sembra passare in second’ordine («quando lo
videro») rispetto a «si prostrarono» (proskynéō), che è il giusto atteggiamento di omaggio e di adorazione
nei confronti di Gesù (vedi Mt 2,2.8.11; 4,9-10; 8,2; ecc.).
«Essi però dubitarono»: Al posto di «Essi» la Volgata ha «alcuni» (quidam autem). Il verbo greco distázō
significa «esitare» o «dubitare». È in corso da lungo tempo un dibattito grammaticale per stabilire se tutti
gli undici discepoli si siano prostrati e abbiano anche dubitato, o se alcuni si siano prostrati e altri abbiano
dubitato. Dal punto di vista grammaticale sembra più probabile la seconda ipotesi.
Il tema del «dubbio», cioè della difficoltà incontrata da alcuni discepoli a rendersi conto della realtà della
resurrezione, nell’evangelo di Matteo ha soltanto questo fugace accenno, mentre negli altri è quasi un
6/8 Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della Domenica della «SS. Trinità» B
motivo ricorrente in tutte le apparizioni del Risorto. Più che il motivo tradizionale dell’incredulità degli
apostoli davanti al fatto della resurrezione (manca infatti il motivo del riconoscimento, tipico dei racconti
delle apparizioni), si può forse riferire alla situazione spirituale della chiesa di Matteo in fase di ricerca.
Che cosa significa esattamente credere che Gesù è risorto? Quali le conseguenze per l’esistenza dei
credenti? Anche Mose dubitò dopo la visione e l’adorazione (cfr Es 3,13; 4,1.10.13) anche se poi fu il più
fedele annunciatore del suo Signore.
vv. 18-20 - Con questi vv. l’evangelista Matteo prende posizione in un dibattito decisivo per la fede.
Appellandosi ad alcuni dati presenti nella tradizione più antica, come la professione della regalità di Gesù,
e alla pratica battesimale nel nome della Trinità, l’evangelista costruisce un brano molto denso ed
espressivo circa le linee principali della sua comprensione del significato di Cristo, della Chiesa e
dell’esistenza cristiana.
Tre proposizioni, articolate tra loro, formano il contenuto della rivelazione del risorto:
1. La prima può essere definita come auto proclamazione: Gesù dichiara solennemente che Dio gli ha
dato un potere illimitato e universale. La formula richiama Dan 7,13-14. Il N.T. è pieno di questa
consapevolezza (cfr Gv 3,35; 13,3; 17,2; At 2,36; Rm 10,9; 14,9; Ef 1,20-22).
2. La seconda è un comando esplicito: l’invio dei discepoli nel mondo. Per comprendere la missione
dei discepoli occorre guardare lo schema:
a) predicare ed insegnare;
b) santificare nel Nome, con il battesimo;
c) ancora insegnare;
d) custodire tutti i comandamenti ricevuti dal Signore.
Anche Marco (16,15-18) e Luca (24,44-48) conoscono il comando del Risorto per la missione; ma Matteo
ne esprime con piglio personalissimo il contenuto. Si tratta di andare presso tutti i popoli (l’espressione
indica tanto i pagani quanto i giudei; cfr. Mt 25,32), facendo in modo che tutti gli uomini diventino
discepoli di Cristo. La salvezza per tutti gli uomini, annunciata dai profeti (Is 2,2-4; 49,6; 60,3; Ger 16,19),
si compie sulla via del discepolato. Una comunità non solo di santificati dal sacramento, ma anche di
praticanti una nuova obbedienza; il discepolo si qualifica sulla base della traduzione in pratica
dell’insegnamento del maestro (cfr. Mt 7,24-27).
3. La terza è una parola di promessa introdotta dalla formula solenne «Ed ecco» che comporta da
parte degli ascoltatori la massima attenzione: Gesù assicura la sua presenza tra i discepoli. È la
promessa dell’Immanuel, «Con noi Dio» che è Gesù, come l’angelo aveva annunciato a Giuseppe
(Mt 1,23; Dom IV d’Avvento). Come egli stesso aveva proclamato ai discepoli, se due o tre sono
riuniti nel mio nome... (Mt 18,10; Gv 14,3.23; At 18,10). Adesso lo sarà in eterno, sino alla fine del
mondo.
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della Domenica della «SS. Trinità» B 7/8
v. 18 - «Gesù si avvicinò»: Mentre nel corso dell’Evangelo generalmente sono gli altri che si avvicinano a
Gesù, qui è Gesù che si avvicina (prosérchomai) agli undici discepoli.
«A me è stato dato pieno potere in cielo e sulla terra»: Con questa rivendicazione Gesù assume per sé
ciò che in Dn 7,14 è detto di «uno simile ad un figlio di uomo»: «Gli diede potere, gloria e regno; tutti i
popoli, nazioni e lingue lo servivano...».
v. 19 - «fate discepoli tutti i popoli»: Nel comando finale di Gesù il termine tanto caro a Matteo mathetes
(«discepolo») assume la forma di un verbo («fate discepoli», come a dire «discepolizzate»).
«battezzandoli»: Fino a questo punto non c’è stata nessuna preparazione per l’accenno al battesimo. La
formula trinitaria che accompagna il comando di Gesù fa pensare che il linguaggio usato dal Gesù risorto
sia stato formulato in modo da rispecchiare l’esperienza della Chiesa primitiva, in questo caso con una
formula battesimale. “Battezzare” significa che il Padre con lo Spirito Santo immerge, annega, fa morire
con Uno dei Tre, il Figlio, nella sua Morte di Croce ma insieme fa con-risorgere con Lui. Per “battesimo”
il N.T., e i Padri, indicano l’Iniziazione integrale a Cristo Signore con il suo Mistero, e quindi anche il
Dono dello Spirito Santo e l’ingresso al Convito del Regno.
«insegnando loro»: Il Signore completa la prescrizione ai discepoli, che ricevono il mandato di continuare
quello che nell’Evangelo è stato uno dei compiti fondamentali del Gesù terreno: insegnare (didáskô) ai
battezzati in modo permanente a “custodire” i suoi precetti; “custodire” è un ebraismo, che significa
praticare nell’esistenza redenta. Il contenuto del loro insegnamento («tutto ciò che vi ho comandato») e
quello che ci si aspetta da loro («ad osservare») mostrano l’autorevolezza dell’insegnamento di Gesù.
«Ed ecco, io sono con voi»: La promessa di Gesù è già implicita nel nome «Emmanuele» («Dio con noi»)
in Mt 1,22-23. Si veda anche l’autorivelazione di Gesù mentre camminava sulle acque («Sono io!») in
14,23 e la sua promessa di essere presente dove due o tre sono radunati nel suo nome (vedi Mt 18,20).
Nell’Evangelo di Matteo il Gesù risorto svolge la funzione che in altri testi del Nuovo Testamento è
attribuita allo Spirito Santo.
«fino alla fine del mondo»: (opp. «fino alla fine dei secoli») La promessa sottintende la distinzione tra
«questo tempo/mondo» e il «tempo/mondo che verrà» già ben nota dagli scritti apocalittici ebraici. La
promessa prevede una presenza permanente/abitativa del Signore risorto tra i cristiani. L’assicurazione
formale della divina Presenza è l’indicibile sigillo di tutto questo. La promessa finale è introdotta
dall’«Ecco, idoú», che indica sempre un prodigio divino, e il contenuto è «Io sto con voi tutti i giorni» (v.
20b). Matteo conclude l’Evangelo con la forma dell’«inclusione letteraria», ossia facendo combaciare
nell’identità e nella coerenza l’inizio con la fine. All’inizio aveva narrato, con l’annuncio a Giuseppe (Mt
1,18-25) che il Bambino che doveva nascere dalla Vergine Maria, chiamato «Gesù, La Salvezza è il
Signore», era l’«Immanuel, Con noi Dio» (Mt 1,23), secondo la Profezia antica lì richiamata (Is 7,14).
Matteo narra quindi la sua Vita tra gli uomini, la sua Croce e la sua Resurrezione, e finalmente conclude
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che Gesù Cristo Risorto si è rivelato ormai come l’Immanuel anzitutto con i suoi discepoli, e mediante essi
con tutti gli uomini. Ma «fino alla completezza del secolo», ossia fine al termine della storia.
Nuova Colletta
O Dio altissimo,
che nelle acque del Battesimo
ci hai fatto tutti figli nel tuo unico Figlio,
ascolta il grido dello Spirito che in noi ti chiama Padre,
e fa' che obbedendo al comando del Salvatore,
diventiamo annunziatori della salvezza offerta a tutti i popoli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Lunedì 21 maggio 2018
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Fonte:http://www.abbaziadipulsano.org
I Domenica dopo la Pentecoste (s), Anno B
Matteo 28,16-20; Deuteronomio 4,32-34.39-40; Salmo 32; Romani 8,14-17
È inutile cercare nell'Antico Testamento una rivelazione precisa della Trinità: il monoteismo rigoroso
del popolo eletto rendeva impossibile qualsiasi scoperta in questo senso. Tuttavia, proclamando l'esistenza
di «un solo Dio», Israele non ha mai pensato a «un Dio solo», un Dio solitario. Fin dai tempi più antichi
l'ha sempre percepito come un Dio in dialogo: col mondo, con l'uomo, col popolo in cui era presente per
mezzo della sua alleanza.
È a partire dalla persona di Gesù risorto che il Nuovo Testamento ha intuito il mistero della vita intima
di Dio. «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra». Riflettendo su questa parola del figlio dell'uomo,
la Chiesa primitiva ha compreso che Dio, risuscitando Gesù e innalzandolo alla sua destra, lo stabilisce al
di sopra di ogni creatura e ha riconosciuto lo stretto legame che unisce Gesù a «colui che dà vita ai morti»,
la sua uguaglianza con Dio. Il battesimo farà compiere il passo decisivo dalla professione di fede nel Dio
unico e nel Cristo signore alla confessione trinitaria propriamente detta. La caratteristica essenziale del
battesimo cristiano, infatti, è quella di essere un battesimo nello Spirito, in cui si afferma che la fede nel
Padre e nel Figlio non può essere proclamata che nello Spirito. Così il battesimo nel nome di Gesù diventa
a poco a poco il battesimo «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo»: la Chiesa ha compreso
che la vita e l'opera di Gesù sono, in definitiva, l'opera e la vita del Padre nello Spirito. Sulle orme degli
apostoli, i cristiani continuano a radunarsi per prendere coscienza di ciò che sono realmente: la Chiesa nata
dalla Trinità, che insegna agli uomini che sono figli di Dio e devono comportarsi come tali.
Il centro dinamico della Rivelazione trinitaria è e resta sempre la Resurrezione del Signore, attraverso la
quale «lo Spirito Santo donato dal Padre rivela il Figlio e a partire dalla sua Persona il Figlio rivela il
Padre, e donando lo Spirito Santo riporta a Lui». I testi base come Rom 1,4; At 2,32-33.36; Lc 1,35, sono
tra i più difficili del N. T. Ma il culmine del N. T. porta sempre verso la pienezza della Rivelazione come
grazia: che «Dio è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo - nello Spirito Santo» (qui Ef 1,3; 4,4-6; 1 Cor
8,6; 12,3-6 1 Pt 1,3). E se la maggioranza dei testi del N.T consegna ai fedeli la Rivelazione della grazia
effusa attraverso la «divina Economia nella storia», essa tuttavia concede a essi anche qualche prezioso
"spiraglio", discreto nella sua rarità, attraverso cui intuire la Vita divina intratrinitaria. E la Chiesa ha
sempre espresso questo al modo della dossologia, ossia glorificando e celebrando per la grazia dello Spirito
Santo.
2/8 Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della Domenica della «SS. Trinità» B
Antifona d’Ingresso
Sia benedetto Dio Padre,
e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo:
perché grande è il suo amore per noi.
L’antifona d’ingresso è una composizione che canta una “benedizione” rivolta al Padre e al Figlio e allo
Spirito Santo, il Signore Unico che operò la misericordia agli uomini. Il testo tuttavia non è capace di
fissarsi sulla Trinità santa, ma invece discende subito agli uomini secondo l’ormai incurabile cultura
teologica che non è teocentrica ma solo antropocentrica.
Canto all’Evangelo Cf Ap 1,8
Alleluia, alleluia.
Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo:
a Dio che è, che era e che viene.
Alleluia.
La proclamazione evangelica è orientata dalla rivelazione a Giovanni (vedi Ap 1,8), al quale si manifesta
il Signore Unico con i titoli simbolici dell’eternità: l’Alfa il Principio e l’Omega la Fine, due estremità
simboliche che dicono il tutto. Inoltre, si manifesta con il Nome rivelato a Mosè dal Roveto ardente (Es
3,14), «Colui che è» in eterno, che insieme è «Colui che era» dall’inizio e «Colui che viene» per condurre la
storia degli uomini come «l’Onnireggente», Colui che tutto domina e tutto dirige ai suoi fini.
Dopo aver contemplato l’azione dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, la liturgia ci invita a
fermare la nostra attenzione alle Tre Persone della SS. Trinità. Questo tema è realmente “straordinario” se
si pensa che fino a Gesù il vertice teologico della Torah era rappresentato dal libro del Deuteronomio:
«Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il
cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze» (Dt 6,4-5). Queste parole diventeranno l’inizio della
preghiera giudaica detta “Shemà “ (Ascolta) che è la parte fondamentale della liturgia quotidiana ebraica,
recitata al mattino e alla sera.
Gli israeliti adorano un Dio unico. I pagani adorano più divinità, mentre noi cristiani adoriamo un solo
Dio in Tre Persone uguali e distinte. La parola “Trinità” non è presente nel N.T. e neanche è rintracciabile
la teologia trinitaria nella forma così approfondita e articolata dell’insegnamento della Chiesa. Questa
dottrina trinitaria non è un’invenzione dei teologi ed è indiscutibile che la definizione delle relazioni che
legano tra loro il Padre, il Figlio e lo Spirito ha una sua consistenza nelle pagine neotestamentarie.
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della Domenica della «SS. Trinità» B 3/8
San Paolo ricorda che i doni effusi nella comunità hanno, nella loro unità e diversità, radice nello
Spirito, nel Signore (Cristo) e in Dio Padre (1 Cor 12,4-6).
L’unità tra i credenti ha come sorgente «un solo Spirito, un solo Signore, un solo Dio Padre di tutti» (Ef
4,4-6). Ancora oggi nella liturgia ci scambiamo il saluto con cui Paolo chiude la sua seconda lettera ai
Corinzi: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo
siano con tutti voi» (13,13).
Pietro apre la sua prima lettera con un indirizzo trinitario (1,2) e Giovanni nella sua prima lettera ha un
testo che nella versione latina della Volgata si è allargato in una professione di fede trinitaria (detta
convenzionalmente “il comma giovanneo”). Essa, anche se non appartiene all’originale, esprime in modo
limpido la fede della Chiesa dei primi secoli che dalle Scritture aveva tratto e riformulato la sua concezione
teologica trinitaria: «Tre sono quelli che rendono testimonianza nel cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito
Santo, e questi tre sono uno» (5,7).
La II lett. ci guida in questa fede nella SS. Trinità: «Avete ricevuto uno spirito di figli adottivi per mezzo
del quale gridiamo: “Abbà Padre”. Lo spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio».
La parola. “Abbà”, di origine aramaica era usata dal bambino solo in casa per dire “papà mio” e ciò vuol
farci capire che Dio Padre rivelato da Gesù ha un amore tenero e benigno verso ogni uomo.
Anche a uno schiavo potrebbe un giorno toccare di sentirsi dire che il suo signore lo ha adottato a figlio,
ma questa “notizia” in fondo non lo libererebbe dalla condizione di schiavitù “interiore” se non giungesse
anche a crearli nel cuore il moto dell’affetto filiale.
Ecco quello che lo Spirito crea in noi: ci annuncia la filiazione adottiva, ma ci dà anche un animo capace di
sentire e invocare Dio come Padre; ed esercita continuamente il suo influsso su di noi perché tutta la vita
sia espressione di questa parola, “Abbà”, che cominciamo a pronunciare nel giorno del battesimo.
Tutto questo non deve poi ricondursi ad una questione psicologica, quasi che noi vivessimo da figli solo
quando c’è facile avere il “sentimento” della fiducia. Si tratta in realtà della certezza della fede, la quale
“sa” che Dio è nostro Padre e ci ama come figli anche quando questo risultasse difficile da sperimentare in
maniera sensibile.
Non si dimentichi che l’unico caso in cui nell’evangelo ricorre la parola “Abbà” è quello di Mc 14,36,
nel contesto del Getsemani, dove all’uomo Gesù non è certo facile pronunciarla, ma dove Gesù mostra nel
modo più evidente la relazione filiale. Tale relazione filiale è donata anche a noi:
Antifona alla Comunione Gal 4,6
Voi siete figli di Dio: egli ha mandato nei vostri cuori
lo Spirito del Figlio suo, che grida «Abba, Padre».
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Al momento della partecipazione ai divini Misteri si canta infatti la divina filiazione, che il Padre volle
donare ai figli suoi, inviando nei loro cuori lo Spirito del Figlio Risorto (vedi anche Rom 5,5), e lo Spirito
Santo stesso prega in quei cuori l’invocazione suprema: ‘Abbâ’, Padre! E «oggi qui» infatti tutti i fedeli,
saziati dalla Parola e dal Cibo celeste, resi compatti come Chiesa corpo di Cristo, avendo già pregato il
«Padre nostro», trova il Padre che li accoglie.
La I lett. ci presenta “l’omelia” con cui Mose istruisce il suo popolo sulla trascendenza di JHWH e sulla
sua vicinanza all’uomo. La liturgia ci fa leggere (sia pure a brandelli) uno dei testi più significativi sul
monoteismo veterotestamentario dove si respira un rigoroso monoteismo, teorico e pratico. Il testo fa parte
del primo discorso di Mosè nelle steppe di Moab, mentre prepara il popolo all’ingresso nella terra
promessa (Dt 1,1-4,43), insegnandogli una lunga mistagogia sui fatti divini che Israele sperimentò
nell’esodo dall’Egitto e durante la vita trascorsa nel deserto.
L’unicità di Dio non è affermata astrattamente, ma è l’unicità della rivelazione divina nella storia,
riconoscibile dagli eventi unici e meravigliosi di cui Israele è stato destinatario da parte di JHWH (uscita
dall’Egitto; teofania e dono della parola divina sull’Oreb).
Tutti questi eventi erano impossibili agli dèi e dicono la ineguagliabile azione di JHWH per il suo
popolo, che diventa un popolo unico di fronte agli altri, il popolo che ha udito Dio parlare di mezzo al
fuoco.
L’esortazione di Mosè prosegue con logica pacata: mediante Mosè “oggi” il Signore ha concluso la sua
alleanza con Israele, “oggi” ha emanato per esso la sua Legge santa e i suoi precetti salvifici. Il popolo
allora è esortato a vivere la Legge e i precetti, a porli in esecuzione. Da questo solo gli verrà del bene, e
altrettanto ai suoi discendenti. Questa è anche la condizione per vivere per sempre nella terra promessa,
alla presenza del suo Signore (Dt 4,40; ma anche la conclusione dell’evangelo con il mandato di insegnarebattezzare
e vivere la vita nuova del battesimo).
L’Evangelo ci assicura la presenza trinitaria in chi riceve il battesimo; infatti Matteo ci mostra la
formula battesimale che probabilmente era in uso presso la sua comunità. Certamente, come possiamo
rilevare dagli Atti, il battesimo era conferito «nel nome dì Gesù», poi questa formula fu sostituita, come ci
fa capire l’Evangelo di Matteo, dalla formula trinitaria proprio per indicare che ricevere il battesimo nel
nome di Gesù significa entrare nella vita stessa del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Esaminiamo il brano
La liturgia odierna ci fa leggere la finale di Matteo (cfr. Ascensione del Signore A) per la formula
trinitaria collegata al battesimo. Si conclude, qui, il tempo della presenza visibile di Gesù in mezzo ai suoi
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e si profila l’inizio del tempo della Chiesa, che è anche il tempo degli Apostoli, degli Evangelisti e, anche
il tempo della scrittura dell’Evangelo.
Secondo questo testo conclusivo, il tempo della Chiesa è caratterizzato da un comando fondamentale che
Gesù ha affidato alla comunità: l’evangelizzazione. Il programma per l’evangelista e per il tempo della
Chiesa è il seguente: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo».
v. 16 - «Gli undici discepoli»: Il circolo dei Dodici che hanno sempre accompagnato Gesù è stato
spezzato dalla defezione e dal suicidio di Giuda (vedi Mt 27,3-10). Matteo non fa alcun accenno alla
reintegrazione del numero dodici come fa Luca in At 1,12-26.
«se ne andarono in Galilea»: Prima del suo arresto e poi nel brano del sepolcro vuoto l’attenzione era
stata attirata sull’incontro del Risorto con i suoi discepoli in Galilea (28,7).
La comunità degli apostoli, ancora in undici dopo la morte tragica di Giuda (27,1-10) e prima dell’elezione
di Mattia (At 1,12-26), si reca all’appuntamento con il Cristo risorto, non già per riconoscerlo, ma per
ascoltare la rivelazione definitiva. Il luogo è significativo; la portata dell’indicazione infatti va oltre il
carattere puramente topografico per assumere un valore simbolico.
«Galilea»: diciamo subito che non si tratta della regione settentrionale della Palestina, dove Gesù aveva
cominciato la predicazione, come ritengono alcuni autori. La «Galilea» (come attestato ormai dalla
maggioranza degli esegeti) era una collina in forma di cupola, che si trova in Gerusalemme stessa, ad
oriente, alla sommità del Monte degli Olivi.
«sul monte»: La partenza dei discepoli adempie la profezia di Gesù in Mt 26,32 e il doppio comando
dell’angelo e di Gesù in Mt 28,7.10. Tutta la potenza simbolica risplende al suono di questa parola: è il
luogo della rivelazione divina. Sul monte Gesù aveva insegnato una nuova dottrina di vita (5,1-2); ora, di
nuovo sul monte, risuona la sua Parola di Signore glorioso e scopre ai discepoli l’orizzonte della missione
universale.
v. 17 - «si prostrarono»: I destinatari della manifestazione sono i discepoli; essi vedono il Risorto e lo
adorano, benché alcuni dubitassero. Il fatto dell’apparizione sembra passare in second’ordine («quando lo
videro») rispetto a «si prostrarono» (proskynéō), che è il giusto atteggiamento di omaggio e di adorazione
nei confronti di Gesù (vedi Mt 2,2.8.11; 4,9-10; 8,2; ecc.).
«Essi però dubitarono»: Al posto di «Essi» la Volgata ha «alcuni» (quidam autem). Il verbo greco distázō
significa «esitare» o «dubitare». È in corso da lungo tempo un dibattito grammaticale per stabilire se tutti
gli undici discepoli si siano prostrati e abbiano anche dubitato, o se alcuni si siano prostrati e altri abbiano
dubitato. Dal punto di vista grammaticale sembra più probabile la seconda ipotesi.
Il tema del «dubbio», cioè della difficoltà incontrata da alcuni discepoli a rendersi conto della realtà della
resurrezione, nell’evangelo di Matteo ha soltanto questo fugace accenno, mentre negli altri è quasi un
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motivo ricorrente in tutte le apparizioni del Risorto. Più che il motivo tradizionale dell’incredulità degli
apostoli davanti al fatto della resurrezione (manca infatti il motivo del riconoscimento, tipico dei racconti
delle apparizioni), si può forse riferire alla situazione spirituale della chiesa di Matteo in fase di ricerca.
Che cosa significa esattamente credere che Gesù è risorto? Quali le conseguenze per l’esistenza dei
credenti? Anche Mose dubitò dopo la visione e l’adorazione (cfr Es 3,13; 4,1.10.13) anche se poi fu il più
fedele annunciatore del suo Signore.
vv. 18-20 - Con questi vv. l’evangelista Matteo prende posizione in un dibattito decisivo per la fede.
Appellandosi ad alcuni dati presenti nella tradizione più antica, come la professione della regalità di Gesù,
e alla pratica battesimale nel nome della Trinità, l’evangelista costruisce un brano molto denso ed
espressivo circa le linee principali della sua comprensione del significato di Cristo, della Chiesa e
dell’esistenza cristiana.
Tre proposizioni, articolate tra loro, formano il contenuto della rivelazione del risorto:
1. La prima può essere definita come auto proclamazione: Gesù dichiara solennemente che Dio gli ha
dato un potere illimitato e universale. La formula richiama Dan 7,13-14. Il N.T. è pieno di questa
consapevolezza (cfr Gv 3,35; 13,3; 17,2; At 2,36; Rm 10,9; 14,9; Ef 1,20-22).
2. La seconda è un comando esplicito: l’invio dei discepoli nel mondo. Per comprendere la missione
dei discepoli occorre guardare lo schema:
a) predicare ed insegnare;
b) santificare nel Nome, con il battesimo;
c) ancora insegnare;
d) custodire tutti i comandamenti ricevuti dal Signore.
Anche Marco (16,15-18) e Luca (24,44-48) conoscono il comando del Risorto per la missione; ma Matteo
ne esprime con piglio personalissimo il contenuto. Si tratta di andare presso tutti i popoli (l’espressione
indica tanto i pagani quanto i giudei; cfr. Mt 25,32), facendo in modo che tutti gli uomini diventino
discepoli di Cristo. La salvezza per tutti gli uomini, annunciata dai profeti (Is 2,2-4; 49,6; 60,3; Ger 16,19),
si compie sulla via del discepolato. Una comunità non solo di santificati dal sacramento, ma anche di
praticanti una nuova obbedienza; il discepolo si qualifica sulla base della traduzione in pratica
dell’insegnamento del maestro (cfr. Mt 7,24-27).
3. La terza è una parola di promessa introdotta dalla formula solenne «Ed ecco» che comporta da
parte degli ascoltatori la massima attenzione: Gesù assicura la sua presenza tra i discepoli. È la
promessa dell’Immanuel, «Con noi Dio» che è Gesù, come l’angelo aveva annunciato a Giuseppe
(Mt 1,23; Dom IV d’Avvento). Come egli stesso aveva proclamato ai discepoli, se due o tre sono
riuniti nel mio nome... (Mt 18,10; Gv 14,3.23; At 18,10). Adesso lo sarà in eterno, sino alla fine del
mondo.
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v. 18 - «Gesù si avvicinò»: Mentre nel corso dell’Evangelo generalmente sono gli altri che si avvicinano a
Gesù, qui è Gesù che si avvicina (prosérchomai) agli undici discepoli.
«A me è stato dato pieno potere in cielo e sulla terra»: Con questa rivendicazione Gesù assume per sé
ciò che in Dn 7,14 è detto di «uno simile ad un figlio di uomo»: «Gli diede potere, gloria e regno; tutti i
popoli, nazioni e lingue lo servivano...».
v. 19 - «fate discepoli tutti i popoli»: Nel comando finale di Gesù il termine tanto caro a Matteo mathetes
(«discepolo») assume la forma di un verbo («fate discepoli», come a dire «discepolizzate»).
«battezzandoli»: Fino a questo punto non c’è stata nessuna preparazione per l’accenno al battesimo. La
formula trinitaria che accompagna il comando di Gesù fa pensare che il linguaggio usato dal Gesù risorto
sia stato formulato in modo da rispecchiare l’esperienza della Chiesa primitiva, in questo caso con una
formula battesimale. “Battezzare” significa che il Padre con lo Spirito Santo immerge, annega, fa morire
con Uno dei Tre, il Figlio, nella sua Morte di Croce ma insieme fa con-risorgere con Lui. Per “battesimo”
il N.T., e i Padri, indicano l’Iniziazione integrale a Cristo Signore con il suo Mistero, e quindi anche il
Dono dello Spirito Santo e l’ingresso al Convito del Regno.
«insegnando loro»: Il Signore completa la prescrizione ai discepoli, che ricevono il mandato di continuare
quello che nell’Evangelo è stato uno dei compiti fondamentali del Gesù terreno: insegnare (didáskô) ai
battezzati in modo permanente a “custodire” i suoi precetti; “custodire” è un ebraismo, che significa
praticare nell’esistenza redenta. Il contenuto del loro insegnamento («tutto ciò che vi ho comandato») e
quello che ci si aspetta da loro («ad osservare») mostrano l’autorevolezza dell’insegnamento di Gesù.
«Ed ecco, io sono con voi»: La promessa di Gesù è già implicita nel nome «Emmanuele» («Dio con noi»)
in Mt 1,22-23. Si veda anche l’autorivelazione di Gesù mentre camminava sulle acque («Sono io!») in
14,23 e la sua promessa di essere presente dove due o tre sono radunati nel suo nome (vedi Mt 18,20).
Nell’Evangelo di Matteo il Gesù risorto svolge la funzione che in altri testi del Nuovo Testamento è
attribuita allo Spirito Santo.
«fino alla fine del mondo»: (opp. «fino alla fine dei secoli») La promessa sottintende la distinzione tra
«questo tempo/mondo» e il «tempo/mondo che verrà» già ben nota dagli scritti apocalittici ebraici. La
promessa prevede una presenza permanente/abitativa del Signore risorto tra i cristiani. L’assicurazione
formale della divina Presenza è l’indicibile sigillo di tutto questo. La promessa finale è introdotta
dall’«Ecco, idoú», che indica sempre un prodigio divino, e il contenuto è «Io sto con voi tutti i giorni» (v.
20b). Matteo conclude l’Evangelo con la forma dell’«inclusione letteraria», ossia facendo combaciare
nell’identità e nella coerenza l’inizio con la fine. All’inizio aveva narrato, con l’annuncio a Giuseppe (Mt
1,18-25) che il Bambino che doveva nascere dalla Vergine Maria, chiamato «Gesù, La Salvezza è il
Signore», era l’«Immanuel, Con noi Dio» (Mt 1,23), secondo la Profezia antica lì richiamata (Is 7,14).
Matteo narra quindi la sua Vita tra gli uomini, la sua Croce e la sua Resurrezione, e finalmente conclude
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che Gesù Cristo Risorto si è rivelato ormai come l’Immanuel anzitutto con i suoi discepoli, e mediante essi
con tutti gli uomini. Ma «fino alla completezza del secolo», ossia fine al termine della storia.
Nuova Colletta
O Dio altissimo,
che nelle acque del Battesimo
ci hai fatto tutti figli nel tuo unico Figlio,
ascolta il grido dello Spirito che in noi ti chiama Padre,
e fa' che obbedendo al comando del Salvatore,
diventiamo annunziatori della salvezza offerta a tutti i popoli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Lunedì 21 maggio 2018
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Fonte:http://www.abbaziadipulsano.org
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