FRA.Andrea Vaona, "Anche da una pozzanghera si può vedere il cielo"


Solennità dell’Ascensione – anno B 

Sul brano marciano proposto dalla liturgia solenne dell’Ascensione Anno B già ci eravamo soffermati anni fa (cf. Quando Francesco e Antonio prendono sul serio il Vangelo). Poniamo allora la nostra attenzione sulla prima lettura, la narrazione degli Atti degli Apostoli scritta dall’evangelista Luca.

Il brano comprende due parti: nella prima leggiamo il prologo del libro degli Atti degli Apostoli, indirizzato simbolicamente dall’autore (Luca) al “lettore” chiamato «Teofilo» (nome che significa: «colui che ama Dio», ossia “ciascuno che ama Dio” come noi oggi lettori);  prologo di Atti che richiama il prologo del terzo vangelo (vv. Lc 1-2); nella seconda parte troviamo invece la narrazione dell’ultima apparizione del Risorto (vv. 3-11). In essa ci sono due annunci (cf. vv. 3-5 e 6-11), il secondo dei quali è in forma di dialogo tra Gesù e i discepoli e si conclude con la salita di Gesù a Dio (di cui il «cielo» è figura): segue una rivelazione angelica che preannuncia ai discepoli il ritorno del Signore alla fine del mondo.

L’aspetto più interessante del racconto è il contrasto tra le aspettative dei discepoli, ancora legate in parte alla loro mentalità religiosa precedente la lunga avventura con Gesù, e il nuovo piano di salvezza che Dio ha iniziato a realizzare con la morte e risurrezione del Figlio. I discepoli pensano soprattutto alla restaurazione del popolo d’Israele in questo mondo (v. 6), mentre Gesù non la esclude ma la rimanda alla volontà segreta del Padre (vv. 7-8). I discepoli si fermano a «guardare il cielo» quasi per trattenere tra loro il maestro, mentre gli angeli ne annunciano il ritorno alla fine dei tempi (vv. 9-11). I discepoli, privati così del Maestro che tante speranze aveva suscitato (cf. discepoli di Emmaus, sempre nel vangelo secondo Luca), vengono preparati a ricevere il dono dello Spirito che riempirà la loro vita della novità portata nel mondo da Gesù (cf. vv. 4-5).

Gesù, salito a Dio, è contemporaneamente qui con noi sulla terra e lo è davvero (e con tutti i credenti) proprio perché non è più legato a un tempo e a un luogo circoscritti, come quando era fisicamente legato alla Giudea del primo secolo. L’andarsene di Gesù è la fonte e la garanzia del suo rimanere con noi. Gesù, che ormai sarà “fisicamente assente”, non cesserà tuttavia di rimanere presente alla vita della Chiesa: la sua venuta, dunque, non sarà tanto un ritorno quanto piuttosto la manifestazione finale di questa presenza permanente. Ora è il tempo degli apostoli e discepoli: da Gerusalemme e dai giudei al mondo intero ed ai pagani: questo diventa lo “spazio” della testimonianza apostolica e questo è pure il progetto teologico del libro degli Atti, che infatti termina con l’arrivo di san Paolo a Roma, centro del mondo allora conosciuto.

Distogliere gli occhi dal cielo, come i «due uomini in bianche vesti» suggerivano agli apostoli di fare, non significa trasformare il cristianesimo in un’agenzia di servizi sociali, ma impegnarsi a incontrare Cristo nella Parola e nei sacramenti, perché i segni cui allude il vangelo, non sono per gli uomini in genere, ma per quelli che credono, pregano e soprattutto hanno il coraggio di andare per il mondo annunciando la grandezza unica di Gesù.

Quindi è nell’andare che si compie l’invito di Cristo. Andare sino ai confini della terra. Per andare non si può stare con lo sguardo rivolto al cielo – come consigliano gli angeli – pena ruzzoloni dolorosi. Una sbirciatina al cielo nella notte ci sta perché le stelle ci indichino la via (vedi la preziosità della preghiera notturna di tradizione monastica…). Ma nel giorno operoso il viaggio tiene lo sguardo basso capace di incrociare gli occhi e gli sguardi di coloro che attendono l’annuncio. Sguardo che sa cogliere le strade e i sentieri già battuti nella storia e dove ancora una volta Cristo attraverso i suoi testimoni pellegrini si renderà presente. Sguardo che sa cogliere strade e sentieri nuovi e mai percorsi. Sguardo che saprà vedere il cielo specchiato nelle pozzanghere esistenziali che il cammino non mancherà di proporre… e ritrovarsi bambini a saltarci dentro con un sorriso!

Francesco d’Assisi sa benissimo che Cristo Signore, dopo la sua risurrezione, è stato sottratto alla vista dei discepoli (cf. At 1,9), ma crede con pari forza che egli continua a vivere in mezzo a loro, perché «ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote [...]. E in tal modo il Signore è sempre con i suoi fedeli, come egli stesso dice: ‘‘Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo’’» (Ammonizioni 1,18.21-22).

Come commenta saggiamente san Bonaventura nella Leggenda maggiore l’invio dei primi frati è preceduto dalla catechesi di Francesco sul calco dell’insegnamento degli Atti: «Allora il pio padre [san Francesco] raccolse intorno a sé tutti i figli suoi e parlò a lungo con loro del regno di Dio (At 1,3), del disprezzo del mondo, della necessità di rinnegare la propria volontà e di mortificare il proprio corpo, e svelò la sua intenzione di inviarli nelle quattro parti del mondo» (FF 1058).

Anche l’autore dello Specchio di perfezione ricorda un detto di Francesco sul calco dell’insegnamento di Luca nel prologo di Atti: «Diceva [Francesco]: «Sono molto edificati i frati sudditi quando i loro ministri e i predicatori attendono volentieri all’orazione e si piegano a servizi umili e bassi. Altrimenti non possono, senza loro confusione e pregiudizio e condanna, ammonire intorno a queste cose gli altri fratelli. Bisogna, secondo l’esempio di Cristo, prima fare e poi insegnare (At 1,1,), anzi fare e insegnare nello stesso tempo» (FF 1768).

Fonte:http://bibbiafrancescana.org

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