Don Marco Ceccarelli, Commento XI Domenica Tempo Ordinario “B”
XI Domenica Tempo Ordinario “B” – 17 Giugno 2018
I Lettura: Ez 17,22-24
II Lettura: 2Cor 5,6-10
Vangelo: Mc 4,26-34
- Testi di riferimento: 1Sam 2,4-7; Pr 11,18; Qo 11,4-6; Sir 10,14; Is 28,24-26; 61,11; Ger 51,33;
Ez 21,31; 31,6.10-12; Gl 4,13; Dn 4,7-12.17-19; Mt 13,39-42; Lc 1,51-53; Gv 4,37-38; 1Cor 1,25-
27; 3,6-9; Gal 6,7; Fil 1,6; Col 1,10; 2Ts 1,3; Gc 3,18; 5,7-11; Ap 6,10-11; 14,15-20
1. Prima lettura. Il profeta, dopo aver annunciato la catastrofe ai giudei ribelli di Gerusalemme (cfr.
Ez 17,12) che pretendevano di mettersi contro il re di Babilonia, presenta in questo testo un oracolo
di salvezza, usando la metafora dell’albero per annunciare agli esiliati che Dio costituirà nel paese
di Israele un regno potente che garantirà protezione ai suoi sudditi. Dopo che ormai tutto appare irrimediabilmente
perduto e finito, gli israeliti in esilio possono invece ancora sperare che Dio “ribalterà
la loro sorte” (Sal 126,1). L’idea principale del poema sta infatti nell’imprevedibilità di questo
evento. Se da un lato il regno babilonese sembra così potente e invincibile, mentre il regno d’Israele
appare ormai annullato, agli esiliati viene annunciato che Dio è capace di “umiliare l’albero alto e
innalzare l’albero basso” (v. 24), o come si dirà più tardi di “rovesciare i potenti dai troni e innalzare
gli umili” (Lc 1,52). Anche se Israele è diventato un “ramoscello”, il Signore lo farà diventare un
grande cedro sotto i cui rami ci si potrà rifugiare e trovare riposo. Tuttavia, nonostante l’annuncio si
concluda con l’affermazione solenne «Io il Signore ho parlato e lo farò», sei secoli dopo, al tempo
di Gesù, qualcuno avrebbe potuto sentirsi autorizzato di dubitare del compimento di questo oracolo.
2. Il Vangelo.
- Con il brano di Vangelo odierno ci troviamo con due parabole relative al regno di Dio; quel regno
di Dio che, come sappiamo fin dall’inizio di Mc, costituisce l’oggetto fondamentale, e praticamente
unico, della predicazione di Gesù: la sua Buona Notizia (1,14-15). Tutto l’insegnamento di Gesù,
soprattutto quello in parabole, mira a far comprendere questa nuova realtà che si è fatta presente. E
tuttavia in Mc soltanto le due parabole del brano odierno sono esplicitamente indicate in relazione
al regno di Dio (vv. 26.30).
- Due parabole del “contrasto”. Quello che conta in queste due parabole non è lo sviluppo, ma il risultato
finale che contrasta nettamente con quello iniziale. Così, nella prima parabola, ciò che è importante
non è la descrizione degli stadi intermedi, ma il contrasto fra l’inizio e la fine. L’enumerazione
degli stadi della maturazione serve da artificio letterario per accrescere la tensione. Ma serve
anche per accentuare la contrapposizione fra la lentezza con cui si arriva al risultato e la rapidità
(“subito”) con cui si mette mano alla falce per la mietitura. Ricordiamoci che le parabole non sono
(solitamente) delle allegorie. Per questo è anche inutile osservare che non si dice nulla riguardo al
normale lavoro umano di aratura, bonifica del terreno, fertilizzazione, irrigazione, ecc. Quello che
conta è capire quale sia il “punto”, l’insegnamento che si vuole esprimere con la parabola. In questo
caso si tratta del grande risultato finale rispetto alla piccolezza iniziale. Ciò pone fortemente
l’accento sull’aspetto escatologico: il regno si compie, ha la sua realizzazione definitiva alla fine dei
tempi. Questo non esclude che avvenga un’espansione prima dell’eschaton; espansione che manifesta
una straordinaria potenza rispetto alla sua apparente debolezza. Ma è chiaro che prima del tempo
della fine – la mietitura – il regno di Dio non esprime in pienezza tutta la potenzialità di cui è dotato.
In altri termini: il regno convive con la zizzania (Mt 13,30); il regno subisce violenza (Mt
11,12); i figli del regno sono perseguitati (Mc 13,9-13); l’ingiustizia sembra spesso prevalere. Ma i
figli del regno devono sapere che la pazienza premierà, che alla fine ci sarà la ricompensa per
l’attesa, per l’essere rimasti fedeli al regno (Gc 5,7-11). Alla fine arriva il giudizio, di cui la mietitura
è una metafora (vedi testi di riferimento). Avverrà “automaticamente” (v. 28), nessuno potrà impedirlo.
Per questo un’altra immagine a volte usata per esprimere la stessa idea è quella della ge-
stante che deve partorire: niente può impedire al nascituro di venire alla luce (Is 54,1; 66,7-8; Ap
12,1-5).
- “Come egli stesso non lo sa” (v. 27). Occorre sottolineare, perché forse non è così ovvio, che il
ruolo del contadino nella parabola non è irrilevante. Anzi, egli è un soggetto importante tanto quanto
il seme. È importante perché la sua figura ci sta dicendo che riguardo allo sviluppo del regno di
Dio nel mondo non serve “sapere come” esso avvenga. Non è necessario capire le dinamiche con
cui il regno fa breccia in mezzo agli uomini, magari anche in mezzo a tanta ostilità. Nemmeno per
noi oggi è facile capire come, per esempio, l’impero romano sia diventato cristiano dopo secoli di
persecuzioni. Allora l’insegnamento è chiaro: occorre seminare, occorre annunciare la buona notizia
del regno di Dio, così come fa Cristo, senza preoccuparsi di comprendere per quali vie, attraverso
quali misteriosi mezzi esso giungerà al tempo della mietitura. Perché ognuno raccoglierà quello che
avrà seminato (Gal 6,7). Il raccolto è possibile soltanto se c’è stata la seminagione. Nemmeno la
continua “ignoranza” dei discepoli riguardo il messaggio del regno (Mc 4,13) impedirà ad esso di
affermarsi.
- La debolezza del regno e la potenza di Dio. La debolezza del regno di Dio annunciato da Gesù deve
aver costituito uno dei principali motivi che causavano quelle situazioni di incomprensione in cui
gli apostoli stessi si venivano a trovare, come molto spesso Mc mette in rilievo. Se Gesù è il Cristo,
il figlio di Davide, il Messia del nuovo regno, non è possibile che mantenga un atteggiamento così
dimesso e addirittura si metta a parlare di una sua eventuale uccisione (8,29-32). Gesù non chiamava
alla rivolta contro i romani, non manifestava con chiarezza la sua messianicità. E soprattutto, alla
fine, non ha opposto nessuna resistenza davanti alla propria uccisione. Tutto ciò era incomprensibile.
Lo scandalo della croce, lo scandalo della debolezza del regno dovrà essere superato
dall’esperienza della potenza di Dio manifestata nella vittoria sulla morte di Gesù. Come dirà Gesù
ai sadducei in riferimento alla risurrezione dei morti: «Voi non conoscete la potenza di Dio» (Mc
12,24). Perciò se nei processi della natura si possono constatare risultati così diametralmente opposti
alla fase iniziale, tanto più – sembra dire Gesù – Dio sarà in grado di far maturare fino alla pienezza
quel suo regno che si presenta in una forma così piccola e debole. Quel piccolo gregge costituito
da un misero gruppo di discepoli diventerà il grande universale popolo di Dio che abbraccerà
tutte le genti.
- La pazienza. La fiducia nella potenza di Dio implica l’atteggiamento paziente di chi sa aspettare
(Gc 5,7-11). Ma soprattutto di chi sa già vedere la presenza del regno anche nella sua piccolezza e
debolezza. Occorre riconoscere che il regno è già presente all’interno del piccolo seme. Nel principio
è già compresa la fine. La (presunta) inattività dell’agricoltore nella prima parabola serve a sottolineare
questo atteggiamento di fiducia. Anche se “non sappiamo come” (v. 27), anche se a volte
non è prevedibile alcuna possibile soluzione, nessun possibile intervento di aiuto alla condizione di
debolezza, il regno di Dio raggiungerà il suo scopo “automaticamente” (v. 28), “da se stesso”, perché
ha in se stesso la forza necessaria per raggiungere tale scopo. Il regno di Dio è Cristo stesso,
quel Cristo che ha la vita in se stesso. Cristo continua a portare frutto rimanendo in mezzo agli uomini;
e niente è in grado di impedire che egli vi rimanga, perché egli ha vinto la morte. E ciò non
implica una passività dei figli del regno. Come sottolinea san Paolo nella seconda lettura odierna,
proprio perché sappiamo che il regno di Dio arriverà al suo compimento, che ci sarà una mietitura e
“tutti dovremo comparire davanti al tribunale di Cristo”, noi continuiamo a “camminare nella fede,
pieni di fiducia, sforzandosi di essere graditi al Signore”. La pazienza del cristiano si manifesta nel
rimanere fedele al Signore, alle “leggi” del debole regno di Dio, anche quando deve subire la potenza
e la prepotenza dei regni umani (Ap 6,11).
Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it
I Lettura: Ez 17,22-24
II Lettura: 2Cor 5,6-10
Vangelo: Mc 4,26-34
- Testi di riferimento: 1Sam 2,4-7; Pr 11,18; Qo 11,4-6; Sir 10,14; Is 28,24-26; 61,11; Ger 51,33;
Ez 21,31; 31,6.10-12; Gl 4,13; Dn 4,7-12.17-19; Mt 13,39-42; Lc 1,51-53; Gv 4,37-38; 1Cor 1,25-
27; 3,6-9; Gal 6,7; Fil 1,6; Col 1,10; 2Ts 1,3; Gc 3,18; 5,7-11; Ap 6,10-11; 14,15-20
1. Prima lettura. Il profeta, dopo aver annunciato la catastrofe ai giudei ribelli di Gerusalemme (cfr.
Ez 17,12) che pretendevano di mettersi contro il re di Babilonia, presenta in questo testo un oracolo
di salvezza, usando la metafora dell’albero per annunciare agli esiliati che Dio costituirà nel paese
di Israele un regno potente che garantirà protezione ai suoi sudditi. Dopo che ormai tutto appare irrimediabilmente
perduto e finito, gli israeliti in esilio possono invece ancora sperare che Dio “ribalterà
la loro sorte” (Sal 126,1). L’idea principale del poema sta infatti nell’imprevedibilità di questo
evento. Se da un lato il regno babilonese sembra così potente e invincibile, mentre il regno d’Israele
appare ormai annullato, agli esiliati viene annunciato che Dio è capace di “umiliare l’albero alto e
innalzare l’albero basso” (v. 24), o come si dirà più tardi di “rovesciare i potenti dai troni e innalzare
gli umili” (Lc 1,52). Anche se Israele è diventato un “ramoscello”, il Signore lo farà diventare un
grande cedro sotto i cui rami ci si potrà rifugiare e trovare riposo. Tuttavia, nonostante l’annuncio si
concluda con l’affermazione solenne «Io il Signore ho parlato e lo farò», sei secoli dopo, al tempo
di Gesù, qualcuno avrebbe potuto sentirsi autorizzato di dubitare del compimento di questo oracolo.
2. Il Vangelo.
- Con il brano di Vangelo odierno ci troviamo con due parabole relative al regno di Dio; quel regno
di Dio che, come sappiamo fin dall’inizio di Mc, costituisce l’oggetto fondamentale, e praticamente
unico, della predicazione di Gesù: la sua Buona Notizia (1,14-15). Tutto l’insegnamento di Gesù,
soprattutto quello in parabole, mira a far comprendere questa nuova realtà che si è fatta presente. E
tuttavia in Mc soltanto le due parabole del brano odierno sono esplicitamente indicate in relazione
al regno di Dio (vv. 26.30).
- Due parabole del “contrasto”. Quello che conta in queste due parabole non è lo sviluppo, ma il risultato
finale che contrasta nettamente con quello iniziale. Così, nella prima parabola, ciò che è importante
non è la descrizione degli stadi intermedi, ma il contrasto fra l’inizio e la fine. L’enumerazione
degli stadi della maturazione serve da artificio letterario per accrescere la tensione. Ma serve
anche per accentuare la contrapposizione fra la lentezza con cui si arriva al risultato e la rapidità
(“subito”) con cui si mette mano alla falce per la mietitura. Ricordiamoci che le parabole non sono
(solitamente) delle allegorie. Per questo è anche inutile osservare che non si dice nulla riguardo al
normale lavoro umano di aratura, bonifica del terreno, fertilizzazione, irrigazione, ecc. Quello che
conta è capire quale sia il “punto”, l’insegnamento che si vuole esprimere con la parabola. In questo
caso si tratta del grande risultato finale rispetto alla piccolezza iniziale. Ciò pone fortemente
l’accento sull’aspetto escatologico: il regno si compie, ha la sua realizzazione definitiva alla fine dei
tempi. Questo non esclude che avvenga un’espansione prima dell’eschaton; espansione che manifesta
una straordinaria potenza rispetto alla sua apparente debolezza. Ma è chiaro che prima del tempo
della fine – la mietitura – il regno di Dio non esprime in pienezza tutta la potenzialità di cui è dotato.
In altri termini: il regno convive con la zizzania (Mt 13,30); il regno subisce violenza (Mt
11,12); i figli del regno sono perseguitati (Mc 13,9-13); l’ingiustizia sembra spesso prevalere. Ma i
figli del regno devono sapere che la pazienza premierà, che alla fine ci sarà la ricompensa per
l’attesa, per l’essere rimasti fedeli al regno (Gc 5,7-11). Alla fine arriva il giudizio, di cui la mietitura
è una metafora (vedi testi di riferimento). Avverrà “automaticamente” (v. 28), nessuno potrà impedirlo.
Per questo un’altra immagine a volte usata per esprimere la stessa idea è quella della ge-
stante che deve partorire: niente può impedire al nascituro di venire alla luce (Is 54,1; 66,7-8; Ap
12,1-5).
- “Come egli stesso non lo sa” (v. 27). Occorre sottolineare, perché forse non è così ovvio, che il
ruolo del contadino nella parabola non è irrilevante. Anzi, egli è un soggetto importante tanto quanto
il seme. È importante perché la sua figura ci sta dicendo che riguardo allo sviluppo del regno di
Dio nel mondo non serve “sapere come” esso avvenga. Non è necessario capire le dinamiche con
cui il regno fa breccia in mezzo agli uomini, magari anche in mezzo a tanta ostilità. Nemmeno per
noi oggi è facile capire come, per esempio, l’impero romano sia diventato cristiano dopo secoli di
persecuzioni. Allora l’insegnamento è chiaro: occorre seminare, occorre annunciare la buona notizia
del regno di Dio, così come fa Cristo, senza preoccuparsi di comprendere per quali vie, attraverso
quali misteriosi mezzi esso giungerà al tempo della mietitura. Perché ognuno raccoglierà quello che
avrà seminato (Gal 6,7). Il raccolto è possibile soltanto se c’è stata la seminagione. Nemmeno la
continua “ignoranza” dei discepoli riguardo il messaggio del regno (Mc 4,13) impedirà ad esso di
affermarsi.
- La debolezza del regno e la potenza di Dio. La debolezza del regno di Dio annunciato da Gesù deve
aver costituito uno dei principali motivi che causavano quelle situazioni di incomprensione in cui
gli apostoli stessi si venivano a trovare, come molto spesso Mc mette in rilievo. Se Gesù è il Cristo,
il figlio di Davide, il Messia del nuovo regno, non è possibile che mantenga un atteggiamento così
dimesso e addirittura si metta a parlare di una sua eventuale uccisione (8,29-32). Gesù non chiamava
alla rivolta contro i romani, non manifestava con chiarezza la sua messianicità. E soprattutto, alla
fine, non ha opposto nessuna resistenza davanti alla propria uccisione. Tutto ciò era incomprensibile.
Lo scandalo della croce, lo scandalo della debolezza del regno dovrà essere superato
dall’esperienza della potenza di Dio manifestata nella vittoria sulla morte di Gesù. Come dirà Gesù
ai sadducei in riferimento alla risurrezione dei morti: «Voi non conoscete la potenza di Dio» (Mc
12,24). Perciò se nei processi della natura si possono constatare risultati così diametralmente opposti
alla fase iniziale, tanto più – sembra dire Gesù – Dio sarà in grado di far maturare fino alla pienezza
quel suo regno che si presenta in una forma così piccola e debole. Quel piccolo gregge costituito
da un misero gruppo di discepoli diventerà il grande universale popolo di Dio che abbraccerà
tutte le genti.
- La pazienza. La fiducia nella potenza di Dio implica l’atteggiamento paziente di chi sa aspettare
(Gc 5,7-11). Ma soprattutto di chi sa già vedere la presenza del regno anche nella sua piccolezza e
debolezza. Occorre riconoscere che il regno è già presente all’interno del piccolo seme. Nel principio
è già compresa la fine. La (presunta) inattività dell’agricoltore nella prima parabola serve a sottolineare
questo atteggiamento di fiducia. Anche se “non sappiamo come” (v. 27), anche se a volte
non è prevedibile alcuna possibile soluzione, nessun possibile intervento di aiuto alla condizione di
debolezza, il regno di Dio raggiungerà il suo scopo “automaticamente” (v. 28), “da se stesso”, perché
ha in se stesso la forza necessaria per raggiungere tale scopo. Il regno di Dio è Cristo stesso,
quel Cristo che ha la vita in se stesso. Cristo continua a portare frutto rimanendo in mezzo agli uomini;
e niente è in grado di impedire che egli vi rimanga, perché egli ha vinto la morte. E ciò non
implica una passività dei figli del regno. Come sottolinea san Paolo nella seconda lettura odierna,
proprio perché sappiamo che il regno di Dio arriverà al suo compimento, che ci sarà una mietitura e
“tutti dovremo comparire davanti al tribunale di Cristo”, noi continuiamo a “camminare nella fede,
pieni di fiducia, sforzandosi di essere graditi al Signore”. La pazienza del cristiano si manifesta nel
rimanere fedele al Signore, alle “leggi” del debole regno di Dio, anche quando deve subire la potenza
e la prepotenza dei regni umani (Ap 6,11).
Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it
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