FRA.Andrea Vaona"non il come ma il perché"
(Mc 4,26-34)XI Domenica del tempo ordinario – anno B
Le due parabole proposte in questa domenica riprendono la stessa immagine del seme della prima parabola marciana (vv. 3-9) e in Marco si applicano come quella al mistero del regno di Dio nascosto e rivelato unicamente ai discepoli, durante il ministero di Gesù. Il seme che cresce da sé, parabola propria di Marco, sottolinea la forza nascosta di questo mistero fino alla costituzione definitiva del regno di Dio, rappresentato dalle messe. Da notare che nella parabola il seminatore è anche il mietitore.
Anche se oggi la scienza ci dice molto sul “come il seme germoglia e cresce”, meno può dire sul perché di questo mistero della vita che morendo porta frutto…
Non occorre cercare l’identità dell’uomo che semina. L’insegnamento è centrato sul regno, che le forze umane sono incapaci di far crescere. Dirà san Paolo (1Cor 3,6): «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio». Tutto avviene “spontaneamente”: il discepolo non è in grado di assicurare la crescita della Chiesa, ma riconoscere che tutto è compiuto da Dio e rimettersi con fiducia alla sua azione: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10; Gc 5,7). La mietitura finale simbolizza tradizionalmente il giudizio: «”Getta la tua falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura”. Allora colui che era seduto sulla nuvola gettò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta» (Ap 14,15-16).
L’ultima parabola sul regno di Dio è anch’essa tratta dalla vita rurale. Ma questa volta il granellino è preso come esempio per una delle sue caratteristiche, la sua piccolezza. Gesù sottolinea con questa parabola la modestia – dal punto di vista umano – dell’impresa nella quale impegna i suoi discepoli. Come prima questa parabola afferma il dinamismo proprio del regno di Dio. Con la sorpresa: un piccolo granellino che alla fine giunge a superare tutte le altre piante. Ma la parabola sottolinea ancor più il contrasto tra la piccolezza dell’esistenza di Gesù, l’umiltà del suo comportamento, l’abbassamento della sua passione da un lato e – dall’altro, paradossalmente – la grandezza dell’opera di Cristo Risorto nella sua Chiesa.
Sotto l’immagine della pianta che stende i lunghi rami – dove gli uccelli fanno nido – si riconosce il regno. Né il carattere umile degli insegnamenti evangelici, né la debolezza del gruppo apostolico devono illudere: il messaggio di Cristo è indirizzato a tutte le genti di ogni razza e nazione. Marco probabilmente riecheggia la parabola di Ezechiele: «Prenderò dalla cime del cedro, dalle punte dei suoi rami coglierò un ramoscello e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio… Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà» (17,22-23: prima lettura della liturgia odierna!). Ma alla visione grandiosa del profeta aggiunge un tono di umiltà: il vangelo riporta la speranza di Israele ai veri valori. Tutta la parabola è un invito alla fede senza paure: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno» (Lc 12,32).
E’ un esercizio che si fa spesso nei campi scuola o nei momenti educativi: si bendano gli occhi di qualcuno, lo si invita ad aprire una mano, vi si pone un piccolo oggetto (una caramella, un dado, un bullone, un pomodorino…) e lo si invita ad indovinare cosa sia l’oggetto posto nella mano. Dopo qualche esitazione, la risposta arriva e molto spesso corretta, pur ad occhi chiusi. Poi si mette un piccolo seme (anche non di senapa…): spesso la risposta è “ma non c’è nulla!”. Si toglie la benda, e si vede il minuscolo seme. Delusione, sconcerto, curiosità… Una “nullità” ha in sé tutto quanto serve per accendere una vita e darle forma grande e rigogliosa: se solo si ha la pazienza e il tempo di vederla crescere e dare frutti…
Frate Antonio di Padova, francescano – che abbiamo festeggiato pochi giorni fa – offre un pensiero originale nel commentare questo breve brano (nella versione parallela matteana): il Regno è Cristo, e Cristo è il seme della Parola. Seme piccolissimo, ma capace di essere pianta rigogliosa là dove può mettere radici, capace anche di dare ospitalità tra i rami robusti che sono i suoi insegnamenti…:
«[Gesù Cristo] fu come il granellino di senape, seminato nel giardino della beata Vergine Maria: per la povertà e l’umiltà fu il più piccolo di tutti i semi, cioè di tutti gli uomini, nella sua natività; crebbe quindi nella sua predicazione e nel compimento dei miracoli: e in questo fu più grande di tutte le piante, cioè di tutti i patriarchi dell’Antico Testamento. Diventò poi un albero nella sua risurrezione e allargò i suoi rami con la predicazione degli Apostoli, e così gli uccelli del cielo, cioè i fedeli della chiesa, accorrono per mezzo della fede, e per mezzo della speranza e della carità prendono dimora tra i suoi rami, cioè nel suo insegnamento e nei suoi esempi. Beati quindi coloro che vedono ora, per mezzo della fede, colui nel quale sono benedette tutte le genti, e che lo vedranno poi di presenza nella gloria celeste e lo sentiranno dire: “Venite, benedetti del Padre mio” (Mt 25,34). Cristo stesso si degni di condurci a questa visione e ad ascoltare questa voce, egli che è Dio benedetto nei secoli eterni. Amen» (Sermone Domenica XIII dopo Pentecoste).
«Cristo fu come il grano di senape, di profondissima umiltà, ma poi crebbe e diventò un grande albero, tra i cui rami dimorano gli uccelli del cielo (cf. Mt 13,31-32), cioè coloro che contemplano le cose celesti» (Sermone Dom I dell’ottava di Epifania).
E rivolgendosi a coloro che hanno il servizio e compito della predicazione:
«Di buon mattino, cioè nel tempo della grazia che scaccia le tenebre del peccato, spargi, o predicatore, la semente della parola, la tua semente, cioè quella a te affidata. E vedi quanto giustamente la parola di Dio sia chiamata semente. Come infatti la semente, seminata nella terra, germoglia e cresce, e dapprima – come dice il Signore in Marco – produce quasi “un filo d’erba, poi la spiga, e quindi nella spiga il chicco pieno” (Mc 4,28), così la parola di Dio, seminata nel cuore del peccatore, produce dapprima l’erba della contrizione, della quale è detto nella Genesi: “La terra, cioè la mente del peccatore, germogli l’erba verdeggiante (Gn 1,11), la contrizione; poi la spiga della confessione, che si spinge verso l’alto per la speranza della remissione; e infine il chicco pieno della soddisfazione (cioè dell’opera penitenziale) della quale dice il Profeta: “Le valli”, cioè gli umili penitenti, “abbonderanno del frumento” della piena soddisfazione (Sal 64,14), affinché la penitenza sia proporzionata alla colpa. Giustamente quindi è detto: Uscì il seminatore a seminare la sua semente» (Sermone della Domenica di sessagesima).
Fonte:http://bibbiafrancescana.org
Le due parabole proposte in questa domenica riprendono la stessa immagine del seme della prima parabola marciana (vv. 3-9) e in Marco si applicano come quella al mistero del regno di Dio nascosto e rivelato unicamente ai discepoli, durante il ministero di Gesù. Il seme che cresce da sé, parabola propria di Marco, sottolinea la forza nascosta di questo mistero fino alla costituzione definitiva del regno di Dio, rappresentato dalle messe. Da notare che nella parabola il seminatore è anche il mietitore.
Anche se oggi la scienza ci dice molto sul “come il seme germoglia e cresce”, meno può dire sul perché di questo mistero della vita che morendo porta frutto…
Non occorre cercare l’identità dell’uomo che semina. L’insegnamento è centrato sul regno, che le forze umane sono incapaci di far crescere. Dirà san Paolo (1Cor 3,6): «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio». Tutto avviene “spontaneamente”: il discepolo non è in grado di assicurare la crescita della Chiesa, ma riconoscere che tutto è compiuto da Dio e rimettersi con fiducia alla sua azione: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10; Gc 5,7). La mietitura finale simbolizza tradizionalmente il giudizio: «”Getta la tua falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura”. Allora colui che era seduto sulla nuvola gettò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta» (Ap 14,15-16).
L’ultima parabola sul regno di Dio è anch’essa tratta dalla vita rurale. Ma questa volta il granellino è preso come esempio per una delle sue caratteristiche, la sua piccolezza. Gesù sottolinea con questa parabola la modestia – dal punto di vista umano – dell’impresa nella quale impegna i suoi discepoli. Come prima questa parabola afferma il dinamismo proprio del regno di Dio. Con la sorpresa: un piccolo granellino che alla fine giunge a superare tutte le altre piante. Ma la parabola sottolinea ancor più il contrasto tra la piccolezza dell’esistenza di Gesù, l’umiltà del suo comportamento, l’abbassamento della sua passione da un lato e – dall’altro, paradossalmente – la grandezza dell’opera di Cristo Risorto nella sua Chiesa.
Sotto l’immagine della pianta che stende i lunghi rami – dove gli uccelli fanno nido – si riconosce il regno. Né il carattere umile degli insegnamenti evangelici, né la debolezza del gruppo apostolico devono illudere: il messaggio di Cristo è indirizzato a tutte le genti di ogni razza e nazione. Marco probabilmente riecheggia la parabola di Ezechiele: «Prenderò dalla cime del cedro, dalle punte dei suoi rami coglierò un ramoscello e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio… Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà» (17,22-23: prima lettura della liturgia odierna!). Ma alla visione grandiosa del profeta aggiunge un tono di umiltà: il vangelo riporta la speranza di Israele ai veri valori. Tutta la parabola è un invito alla fede senza paure: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno» (Lc 12,32).
E’ un esercizio che si fa spesso nei campi scuola o nei momenti educativi: si bendano gli occhi di qualcuno, lo si invita ad aprire una mano, vi si pone un piccolo oggetto (una caramella, un dado, un bullone, un pomodorino…) e lo si invita ad indovinare cosa sia l’oggetto posto nella mano. Dopo qualche esitazione, la risposta arriva e molto spesso corretta, pur ad occhi chiusi. Poi si mette un piccolo seme (anche non di senapa…): spesso la risposta è “ma non c’è nulla!”. Si toglie la benda, e si vede il minuscolo seme. Delusione, sconcerto, curiosità… Una “nullità” ha in sé tutto quanto serve per accendere una vita e darle forma grande e rigogliosa: se solo si ha la pazienza e il tempo di vederla crescere e dare frutti…
Frate Antonio di Padova, francescano – che abbiamo festeggiato pochi giorni fa – offre un pensiero originale nel commentare questo breve brano (nella versione parallela matteana): il Regno è Cristo, e Cristo è il seme della Parola. Seme piccolissimo, ma capace di essere pianta rigogliosa là dove può mettere radici, capace anche di dare ospitalità tra i rami robusti che sono i suoi insegnamenti…:
«[Gesù Cristo] fu come il granellino di senape, seminato nel giardino della beata Vergine Maria: per la povertà e l’umiltà fu il più piccolo di tutti i semi, cioè di tutti gli uomini, nella sua natività; crebbe quindi nella sua predicazione e nel compimento dei miracoli: e in questo fu più grande di tutte le piante, cioè di tutti i patriarchi dell’Antico Testamento. Diventò poi un albero nella sua risurrezione e allargò i suoi rami con la predicazione degli Apostoli, e così gli uccelli del cielo, cioè i fedeli della chiesa, accorrono per mezzo della fede, e per mezzo della speranza e della carità prendono dimora tra i suoi rami, cioè nel suo insegnamento e nei suoi esempi. Beati quindi coloro che vedono ora, per mezzo della fede, colui nel quale sono benedette tutte le genti, e che lo vedranno poi di presenza nella gloria celeste e lo sentiranno dire: “Venite, benedetti del Padre mio” (Mt 25,34). Cristo stesso si degni di condurci a questa visione e ad ascoltare questa voce, egli che è Dio benedetto nei secoli eterni. Amen» (Sermone Domenica XIII dopo Pentecoste).
«Cristo fu come il grano di senape, di profondissima umiltà, ma poi crebbe e diventò un grande albero, tra i cui rami dimorano gli uccelli del cielo (cf. Mt 13,31-32), cioè coloro che contemplano le cose celesti» (Sermone Dom I dell’ottava di Epifania).
E rivolgendosi a coloro che hanno il servizio e compito della predicazione:
«Di buon mattino, cioè nel tempo della grazia che scaccia le tenebre del peccato, spargi, o predicatore, la semente della parola, la tua semente, cioè quella a te affidata. E vedi quanto giustamente la parola di Dio sia chiamata semente. Come infatti la semente, seminata nella terra, germoglia e cresce, e dapprima – come dice il Signore in Marco – produce quasi “un filo d’erba, poi la spiga, e quindi nella spiga il chicco pieno” (Mc 4,28), così la parola di Dio, seminata nel cuore del peccatore, produce dapprima l’erba della contrizione, della quale è detto nella Genesi: “La terra, cioè la mente del peccatore, germogli l’erba verdeggiante (Gn 1,11), la contrizione; poi la spiga della confessione, che si spinge verso l’alto per la speranza della remissione; e infine il chicco pieno della soddisfazione (cioè dell’opera penitenziale) della quale dice il Profeta: “Le valli”, cioè gli umili penitenti, “abbonderanno del frumento” della piena soddisfazione (Sal 64,14), affinché la penitenza sia proporzionata alla colpa. Giustamente quindi è detto: Uscì il seminatore a seminare la sua semente» (Sermone della Domenica di sessagesima).
Fonte:http://bibbiafrancescana.org
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