don Luciano Cantini, "Manna, pane, carne"
Manna, pane, carne
don Luciano Cantini
XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (12/08/2018)
Visualizza Gv 6,41-51
Si misero a mormorare
Quando parliamo di Dio, di religione, di spiritualità finiamo sempre per parlare in astratto, di cose che ci riguardano ma che non ci coinvolgono, di cose del cielo e non della terra, di sentimenti e di pensieri. Eppure, siamo consapevoli che anche le idee e i sentimenti non rimangono nel mondo delle astrazioni ed hanno bisogno di concretezza per essere comunicati, prima a noi stessi che agli altri. Non a caso Giovanni raccomanda: Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (1Gv 3,18). Nei suoi scritti non troviamo la parola “fede” che tende alla astrazione dei concetti ma il verbo “credere” molto più dinamico e attinente alla realtà delle cose: chi crede ha la vita eterna.
Comunque, per evitare qualsiasi tentativo di allontanamento dalla concretezza della vita, Giovanni usa una successione di immagini molto tangibili.
La manna nel deserto
Quando gli ebrei nel deserto videro per la prima volta la manna si domandarono «che cosa è» (man hu): un dono inaspettato e gratuito di Dio. Quel dono non fu accolto nella pienezza del suo significato (cfr Nm 21,5) e la generazione che partì dall'Egitto non raggiunse la terra promessa. Gesù prende le distanze dai vostri padri che pure si sono nutriti del dono di Dio senza penetrane il mistero, per questo dice sono morti, e si propone come il pane della vita.
È anche altrettanto facile, oggi, davanti a quel pane fermarsi alla esteriorità del gesto perdendone il significato più profondo; un rito religioso, una devozione che lascia in tempo che trova, non ci nutre a tal punto da trasformare la nostra esistenza, cogliamo il senso del pane senza riconoscere la vita di cui è segno: perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna (1Cor 11,29).
Io sono il pane vivo
L'idea del pane vivo, quando il pane era conservato a lungo tra una panificazione e l'altra, è quella del pane appena sfornato fragrante di profumi e sapori, invitante. Nel mondo le tradizioni del pane sono assai diverse ma rimane comunque il nutrimento principe della umanità. Non a caso in toscana ciò che oggi è il piatto forte del pasto si chiamava “companatico” (che accompagna il pane), nell'opulenza dei nostri giorni invece si preferisce mangiare “senza pane” sacrificando così anche il cumulo di tradizioni e di significati legati al pasto, momento essenziale di vita familiare e di convivialità che nello “spezzare il pane” (cfr. At 2, 42.46) è capace di riconoscere la presenza del Signore.
Mangiare ci dà la dimensione del credere: come il cibo diventa parte di noi stessi, rinnova le nostre cellule e ci permette di vivere, così è per il mistero di Cristo se lasciamo che esso penetri la nostra vita, gli dia forma e sostanza: Gustate e vedete quanto è buono il Signore (Sal 34,9).
Se osserviamo le nostre Eucarestie hanno tutta l'apparenza di un panino consumato in fretta in un fast-food dove la relazione col cibo è nello stretto necessario e quella con i commensali del tutto assente. Quando la fretta ci costringe a un tramezzino industriale scaricato da una macchina automatica, forse c'è da ripensare alla nostra relazione col Signore perché non soddisfi i bisogni di un momento ma davvero nutra di vita tutta la nostra esistenza.
La mia carne
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14). Fin dall'inizio il vangelo Giovanni ci racconta del Verbo di Dio che penetra la condizione fragile dell'umanità. Il Figlio di Dio non si è fatto solo uomo: il mistero della incarnazione raggiunge ogni uomo nella sua debole pochezza - spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo (Fil 2,7) - fino a diventarne scarto, e proprio per questo è fonte della vita del mondo. È la sua umanità che incontra e si mischia con la nostra, che entra nel nostro tessuto e che si fa nutrimento, sconvolge le nostre logiche umane, ne fonda di nuove, rovescia le relazioni, le scale di valori, le aspirazioni dell'uomo, trasforma la vita della storia in vita eterna.
Credere che il Signore è carne per la vita del mondo significa riconoscere nella debolezza della carne la potenza di Dio: infatti quando sono debole, è allora che sono forte (2Cor 12,10).
È proprio l'assurdità della sua proposta che la rende universale, non una idea, una filosofia, una via mistica, neppure una religione, non un gesto o un rito sacramentale, ma lasciare coinvolgere la nostra vita dalla sua.
Fonte:www.qumran2.net
don Luciano Cantini
XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (12/08/2018)
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Si misero a mormorare
Quando parliamo di Dio, di religione, di spiritualità finiamo sempre per parlare in astratto, di cose che ci riguardano ma che non ci coinvolgono, di cose del cielo e non della terra, di sentimenti e di pensieri. Eppure, siamo consapevoli che anche le idee e i sentimenti non rimangono nel mondo delle astrazioni ed hanno bisogno di concretezza per essere comunicati, prima a noi stessi che agli altri. Non a caso Giovanni raccomanda: Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (1Gv 3,18). Nei suoi scritti non troviamo la parola “fede” che tende alla astrazione dei concetti ma il verbo “credere” molto più dinamico e attinente alla realtà delle cose: chi crede ha la vita eterna.
Comunque, per evitare qualsiasi tentativo di allontanamento dalla concretezza della vita, Giovanni usa una successione di immagini molto tangibili.
La manna nel deserto
Quando gli ebrei nel deserto videro per la prima volta la manna si domandarono «che cosa è» (man hu): un dono inaspettato e gratuito di Dio. Quel dono non fu accolto nella pienezza del suo significato (cfr Nm 21,5) e la generazione che partì dall'Egitto non raggiunse la terra promessa. Gesù prende le distanze dai vostri padri che pure si sono nutriti del dono di Dio senza penetrane il mistero, per questo dice sono morti, e si propone come il pane della vita.
È anche altrettanto facile, oggi, davanti a quel pane fermarsi alla esteriorità del gesto perdendone il significato più profondo; un rito religioso, una devozione che lascia in tempo che trova, non ci nutre a tal punto da trasformare la nostra esistenza, cogliamo il senso del pane senza riconoscere la vita di cui è segno: perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna (1Cor 11,29).
Io sono il pane vivo
L'idea del pane vivo, quando il pane era conservato a lungo tra una panificazione e l'altra, è quella del pane appena sfornato fragrante di profumi e sapori, invitante. Nel mondo le tradizioni del pane sono assai diverse ma rimane comunque il nutrimento principe della umanità. Non a caso in toscana ciò che oggi è il piatto forte del pasto si chiamava “companatico” (che accompagna il pane), nell'opulenza dei nostri giorni invece si preferisce mangiare “senza pane” sacrificando così anche il cumulo di tradizioni e di significati legati al pasto, momento essenziale di vita familiare e di convivialità che nello “spezzare il pane” (cfr. At 2, 42.46) è capace di riconoscere la presenza del Signore.
Mangiare ci dà la dimensione del credere: come il cibo diventa parte di noi stessi, rinnova le nostre cellule e ci permette di vivere, così è per il mistero di Cristo se lasciamo che esso penetri la nostra vita, gli dia forma e sostanza: Gustate e vedete quanto è buono il Signore (Sal 34,9).
Se osserviamo le nostre Eucarestie hanno tutta l'apparenza di un panino consumato in fretta in un fast-food dove la relazione col cibo è nello stretto necessario e quella con i commensali del tutto assente. Quando la fretta ci costringe a un tramezzino industriale scaricato da una macchina automatica, forse c'è da ripensare alla nostra relazione col Signore perché non soddisfi i bisogni di un momento ma davvero nutra di vita tutta la nostra esistenza.
La mia carne
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14). Fin dall'inizio il vangelo Giovanni ci racconta del Verbo di Dio che penetra la condizione fragile dell'umanità. Il Figlio di Dio non si è fatto solo uomo: il mistero della incarnazione raggiunge ogni uomo nella sua debole pochezza - spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo (Fil 2,7) - fino a diventarne scarto, e proprio per questo è fonte della vita del mondo. È la sua umanità che incontra e si mischia con la nostra, che entra nel nostro tessuto e che si fa nutrimento, sconvolge le nostre logiche umane, ne fonda di nuove, rovescia le relazioni, le scale di valori, le aspirazioni dell'uomo, trasforma la vita della storia in vita eterna.
Credere che il Signore è carne per la vita del mondo significa riconoscere nella debolezza della carne la potenza di Dio: infatti quando sono debole, è allora che sono forte (2Cor 12,10).
È proprio l'assurdità della sua proposta che la rende universale, non una idea, una filosofia, una via mistica, neppure una religione, non un gesto o un rito sacramentale, ma lasciare coinvolgere la nostra vita dalla sua.
Fonte:www.qumran2.net