Frati Domenicani d'Italia settentrionale, "Chi mangia di questo pane vivrà in eterno"
XVIII Domenica del tempo ordinario
Chi mangia di questo pane vivrà in eterno
Le omelie
da una collaborazione di un gruppo di frati del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano
5 agosto 2018
LETTURE: Es 16,2-4.12-15; Sal.77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
Paura e scoraggiamento emergono nelle letture di questa domenica, nei vari personaggi che interpretano la propria storia e non sanno comprendere o ritenere adeguato l’aiuto che Dio offre loro. Questa è la prima e cocente reazione dinanzi alle difficoltà della vita, nel peregrinare in una vicenda che ha sempre dei risvolti nuovi e inaspettati. Questi risvolti contrastano con la ricerca di un Dio che soddisfi più l’opportunità o l’occasione di una realizzazione, piuttosto che l’investimento spirituale e profondo di un incontro di vera gioia nella vita eterna. Tutte le letture, infatti, sono segnate da un lato dalla grandiosità dell’amore di Dio che si manifesta in tutta la sua donazione nella vita quotidiana, e dall’altro lato, dall’incapacità degli uomini di cogliere il significato e la portata spirituale dell’opera che viene realizzata non solo quotidianamente, ma anche attraverso un itinerario pedagogico di gradualità.
La lezione di vita che rappresenta il cammino del popolo d’Israele descritto nel libro dell’Esodo, affronta il risvolto cruciale e inevitabile di confrontarsi con la propria storia, soprattutto nella dimensione della fatica e della ripetitività degli eventi, dell’incapacità dell’uomo di uscire da un significato solo superficiale della realtà di sempre. Ecco il cammino in un deserto dove il paesaggio non varia mai, dove le risorse alimentari sono scarsissime, dove l’itinerario della ricerca della terra promessa sembra un circolo vizioso o un tondo vagare nel nulla. La colpa di una storia che precipita, di un itinerario in un vicolo cieco, è sempre colpa degli altri, in particolare delle guide, Mosè e Aronne. Ecco la mormorazione, il primo grande peccato dell’uomo che digrigna i denti dinanzi all’insoddisfazione per le progettualità fallite, dove la propria responsabilità è proiettata nell’incapacità dell’altro. E se non fosse andato così, ma come io avrei voluto?
Il secondo risvolto negativo nella considerazione della propria storia è l’apertura degli universi paralleli che si dispiegano nelle ipotesi fantasiose del “se fosse”, il congiuntivo imperfetto dei rimpianti. Il sogno della pentola di carne del recente passato, il tradimento di un presente costituito dalla fatica della vita, da un’aridità che è proprio l’accidia, la scarsa voglia di trovare l’amore di Dio nei momenti difficili, di rimanere credenti anche dinanzi agli schiaffi di una vita che non produce nulla: tutte queste situazioni non sono altro che il racconto del decadimento dell’essere, di un dilemma privo del significato e della bellezza del trovarci anche in questo mondo, dell’esserci qui e ora.
Dinanzi al grido disperato del perché di tutto questo, perduti e abbandonati nel deserto, interviene la mano provvidenziale di Dio che offre il cibo per nutrire gli Israeliti, offrendo loro quaglie per la sera e manna al risveglio. La manna, – Man hu –, termine ebraico che risponde alla domanda: “cos’è?”, mostra in questa sola locuzione tutta la delusione di chi ritiene insufficiente questo aiuto provvidenziale. Questo pane solo all’apparenza, brina granulosa e minuta, è cibo nauseabondo, non può essere la risposta gastronomica tanto attesa di un Dio, che dovrebbe corrispondere pietanze come il genio della lampada tipico delle culture mediorientali. La lettura dell’Esodo getta, in tal modo, una straordinaria luce nell’incomprensione dell’uomo moderno davanti all’Eucarestia, la carne per la vita del mondo offerta da Gesù, identificata ancora oggi come manna – Man hu (cos’è?) – che sembra non offrire significati dinanzi ad un’umanità sfinita nell’uso di ragione e nella comprensione di fede.
Questo pane eucaristico genera nel credente la vita eterna, quella vera, non la vita di un mondo caratterizzato dall’odio e dalla menzogna. Ecco il cambiamento tanto atteso, quello che forma l’uomo nuovo descritto da Paolo nella lettera composta per la chiesa di Efeso, cambiamento che è caratterizzato dal “rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”. Questa nuova creatura che si apre a Dio per mezzo della maggior comprensione di fede, cerca in Cristo non il cibo che permette il sostentamento per la sola sopravvivenza fisica, ma la vita vera, quella eterna, che inizia nel “già” di questo mondo, che si mette in attesa nel “non ancora” di un futuro segnato dalla speranza.
Ecco il pane dal cielo, pane che trascende la realtà, che origina l’uomo celeste. Sembra paradossale la bellezza della teologia narrativa raccontata nel vangelo di Giovanni, in cui un pane materiale, il corpo di Cristo, che è la vera carne per la vita del mondo, forma l’uomo spirituale, in una straordinaria identificazione di bellezze e congiunture dell’unità della persona. Infatti lo stesso individuo del genere umano è persona tanto in questo mondo quanto nell’altro, ed è unico anche il suo corpo nutrito eucaristicamente tanto materialmente quanto spiritualmente. “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!” La fede coglie questa grandezza e prorompe nella gioia dell’eucaristia, pur nello sfondo drammatico descritto nello sconcerto iniziale. Ora la fede ha prevalso, ma ogni giorno questo stupore generato dall’eucarestia deve rinnovarsi. Ora anche noi possiamo gridare di gioia insieme ai discepoli, nelle nostre preghiere: “Signore, dacci sempre questo pane”.
Fonte:http://www.domenicani.it
Chi mangia di questo pane vivrà in eterno
Le omelie
da una collaborazione di un gruppo di frati del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano
5 agosto 2018
LETTURE: Es 16,2-4.12-15; Sal.77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
Paura e scoraggiamento emergono nelle letture di questa domenica, nei vari personaggi che interpretano la propria storia e non sanno comprendere o ritenere adeguato l’aiuto che Dio offre loro. Questa è la prima e cocente reazione dinanzi alle difficoltà della vita, nel peregrinare in una vicenda che ha sempre dei risvolti nuovi e inaspettati. Questi risvolti contrastano con la ricerca di un Dio che soddisfi più l’opportunità o l’occasione di una realizzazione, piuttosto che l’investimento spirituale e profondo di un incontro di vera gioia nella vita eterna. Tutte le letture, infatti, sono segnate da un lato dalla grandiosità dell’amore di Dio che si manifesta in tutta la sua donazione nella vita quotidiana, e dall’altro lato, dall’incapacità degli uomini di cogliere il significato e la portata spirituale dell’opera che viene realizzata non solo quotidianamente, ma anche attraverso un itinerario pedagogico di gradualità.
La lezione di vita che rappresenta il cammino del popolo d’Israele descritto nel libro dell’Esodo, affronta il risvolto cruciale e inevitabile di confrontarsi con la propria storia, soprattutto nella dimensione della fatica e della ripetitività degli eventi, dell’incapacità dell’uomo di uscire da un significato solo superficiale della realtà di sempre. Ecco il cammino in un deserto dove il paesaggio non varia mai, dove le risorse alimentari sono scarsissime, dove l’itinerario della ricerca della terra promessa sembra un circolo vizioso o un tondo vagare nel nulla. La colpa di una storia che precipita, di un itinerario in un vicolo cieco, è sempre colpa degli altri, in particolare delle guide, Mosè e Aronne. Ecco la mormorazione, il primo grande peccato dell’uomo che digrigna i denti dinanzi all’insoddisfazione per le progettualità fallite, dove la propria responsabilità è proiettata nell’incapacità dell’altro. E se non fosse andato così, ma come io avrei voluto?
Il secondo risvolto negativo nella considerazione della propria storia è l’apertura degli universi paralleli che si dispiegano nelle ipotesi fantasiose del “se fosse”, il congiuntivo imperfetto dei rimpianti. Il sogno della pentola di carne del recente passato, il tradimento di un presente costituito dalla fatica della vita, da un’aridità che è proprio l’accidia, la scarsa voglia di trovare l’amore di Dio nei momenti difficili, di rimanere credenti anche dinanzi agli schiaffi di una vita che non produce nulla: tutte queste situazioni non sono altro che il racconto del decadimento dell’essere, di un dilemma privo del significato e della bellezza del trovarci anche in questo mondo, dell’esserci qui e ora.
Dinanzi al grido disperato del perché di tutto questo, perduti e abbandonati nel deserto, interviene la mano provvidenziale di Dio che offre il cibo per nutrire gli Israeliti, offrendo loro quaglie per la sera e manna al risveglio. La manna, – Man hu –, termine ebraico che risponde alla domanda: “cos’è?”, mostra in questa sola locuzione tutta la delusione di chi ritiene insufficiente questo aiuto provvidenziale. Questo pane solo all’apparenza, brina granulosa e minuta, è cibo nauseabondo, non può essere la risposta gastronomica tanto attesa di un Dio, che dovrebbe corrispondere pietanze come il genio della lampada tipico delle culture mediorientali. La lettura dell’Esodo getta, in tal modo, una straordinaria luce nell’incomprensione dell’uomo moderno davanti all’Eucarestia, la carne per la vita del mondo offerta da Gesù, identificata ancora oggi come manna – Man hu (cos’è?) – che sembra non offrire significati dinanzi ad un’umanità sfinita nell’uso di ragione e nella comprensione di fede.
Questo pane eucaristico genera nel credente la vita eterna, quella vera, non la vita di un mondo caratterizzato dall’odio e dalla menzogna. Ecco il cambiamento tanto atteso, quello che forma l’uomo nuovo descritto da Paolo nella lettera composta per la chiesa di Efeso, cambiamento che è caratterizzato dal “rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”. Questa nuova creatura che si apre a Dio per mezzo della maggior comprensione di fede, cerca in Cristo non il cibo che permette il sostentamento per la sola sopravvivenza fisica, ma la vita vera, quella eterna, che inizia nel “già” di questo mondo, che si mette in attesa nel “non ancora” di un futuro segnato dalla speranza.
Ecco il pane dal cielo, pane che trascende la realtà, che origina l’uomo celeste. Sembra paradossale la bellezza della teologia narrativa raccontata nel vangelo di Giovanni, in cui un pane materiale, il corpo di Cristo, che è la vera carne per la vita del mondo, forma l’uomo spirituale, in una straordinaria identificazione di bellezze e congiunture dell’unità della persona. Infatti lo stesso individuo del genere umano è persona tanto in questo mondo quanto nell’altro, ed è unico anche il suo corpo nutrito eucaristicamente tanto materialmente quanto spiritualmente. “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!” La fede coglie questa grandezza e prorompe nella gioia dell’eucaristia, pur nello sfondo drammatico descritto nello sconcerto iniziale. Ora la fede ha prevalso, ma ogni giorno questo stupore generato dall’eucarestia deve rinnovarsi. Ora anche noi possiamo gridare di gioia insieme ai discepoli, nelle nostre preghiere: “Signore, dacci sempre questo pane”.
Fonte:http://www.domenicani.it