padre Raniero Cantalamessa, "Io sono il pane vivo"

XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (12/08/2018)
1 Re 19, 4-8; Efesini 4, 30 – 5, 2; Giovanni 6, 41-51

Il discorso eucaristico del capitolo sesto di Giovanni si sviluppa secondo un andamento tutto particolare che possiamo chiamare a spirale, o a scala a chiocciola. Nella scala a chiocciola, si ha l’impressione di girare sempre su se stessi, ma in realtà a ogni giro ci si ritrova a un livello un po’ più alto (o più basso, se si scende). Così qui. Gesù sembra ritornare continuamente sugli stessi temi, ma, a guardare bene, ogni volta viene introdotto un elemento nuovo che ci porta sempre più in alto (o ci fa scendere sempre più in profondità) nella contemplazione del mistero.
L’elemento nuovo e la nota dominante del brano di oggi ha a che fare con il pane. Ben cinque volte vi ricorre questa parola:
“Io sono il pane della vita… Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
I sacramenti sono segni: “producono ciò che significano”. Di qui l’importanza di capire di che cosa è segno il pane tra gli uomini. In un certo senso, a capire l’Eucaristia, prepara meglio il mestiere del contadino, del mugnaio, della massaia o del panettiere, che non quello del teologo, perché costoro, sul pane, ne sanno infinitamente di più dell’intellettuale che lo vede solo al momento in cui arriva sulla tavola e lo mangia, magari anche distrattamente.
Facciamo dunque una bella cosa: andiamo a scuola da questi insoliti maestri per imparare qualcosa sul pane. Se chiediamo a un contadino cosa evoca nella sua mente la parola pane, ci dirà: la semina in autunno, l’attesa, la sarchiatura, la ripulitura, la trepidazione al momento in cui le messi biondeggiano e una tempesta le può gettare a terra, e infine la dura fatica della mietitura e trebbiatura. Ma non solo questo. Molti ricorderanno cos’era un tempo, per la famiglia, il giorno in cui si faceva il pane: una festa, un rito quasi religioso. L’ultimo tocco era la croce che veniva tracciata su ogni pagnotta e che il calore del forno dilatava e trasformava in solchi profondi e dorati. Poi il profumo del pane fresco che la fame, specie durante la guerra, rendeva ancora più desiderabile.
E cos’è il pane quando arriva sulla mensa? Il papà o la mamma che lo spezza, o lo mette semplicemente in tavola, somiglia a Gesù. Anche lui, o lei, potrebbe dire ai figli: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo offerto per voi”. Il pane quotidiano è davvero un po’ il suo corpo, il frutto della sua fatica e il segno del suo amore.
Di quante cose, dunque, è segno il pane: di lavoro, di attesa, di nutrimento, di gioia domestica, di unità e solidarietà tra quelli che lo mangiano… Il pane è l’unico, tra tutti i cibi, che non dà mai nausea; lo si mangia tutti i giorni e ogni volta il suo sapore ci riesce gradevole. Si sposa con tutti i cibi. Le persone che soffrono la fame non invidiano ai ricchi il caviale, o il salmone affumicato, invidiano soprattutto il pane fresco.
Bene, vediamo ora cosa succede quando questo pane arriva sull’altare ed è consacrato dal sacerdote. La dottrina cattolica lo esprime con una parola. Vi avverto che è una parola difficile, ma ci sono casi (rari, però ci sono), in cui non possiamo evitare di usare una parola difficile, senza rinunciare a penetrare al cuore del problema. Non si può parlare di Eucaristia senza mai pronunciare la parola transustanziazione con cui la Chiesa ha espresso la sua fede. Cosa vuol dire transustanziazione? Vuol dire che al momento della consacrazione il pane cessa di essere pane e diventa corpo di Cristo; la sostanza del pane – cioè la sua realtà profonda che si percepisce, non con gli occhi, ma con la mente – cede il posto alla sostanza, o meglio alla persona, divina che è il Cristo risorto e vivo, anche se le apparenze esterne (nel linguaggio teologico, gli “accidenti”) restano quelle del pane.
Per capire transustanziazione, chiediamo aiuto a una parola ad essa imparentata e che ci è più famigliare, la parola trasformazione. Trasformazione significa passare da una forma a un’altra, transustanziazione passare da una sostanza a un’altra. Facciamo un esempio. Vedendo una signora uscire dal parrucchiere con una acconciatura tutta nuova, viene spontaneo a volte esclamare: “Che trasformazione!”. Nessuno si sogna di esclamare: “Che transustanziazione!”. Giustamente. Sono cambiati infatti la sua forma e l’aspetto esterno, ma non il suo essere profondo e la sua personalità. Se era intelligente prima, lo è ora; se non lo era prima, mi dispiace ma non lo è neppure ora. Sono cambiate le apparenze, non la sostanza.
Nell’Eucaristia avviene esattamente il contrario: cambia la sostanza, ma non le apparenze. Il pane viene transustanziato, ma non trasformato; le apparenze infatti (forma, sapore, colore, peso) restano quelle di prima, mentre è cambiata la realtà profonda, è diventato corpo di Cristo. Si è realizzata la promessa di Gesù ascoltata all’inizio: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Ecco come Paolo VI spiegava, con un linguaggio più vicino all’uomo d’oggi, ciò che avviene al momento della consacrazione: “Questo simbolo sacro della vita umana che è il pane volle scegliere Cristo per farne simbolo, ancor più sacro, di sé. Lo ha transustanziato, ma non gli ha tolto il suo potere espressivo; anzi ha elevato questo potere espressivo a un significato nuovo, a un significato superiore, a un significato mistico, religioso, divino. Ne ha fatto scala per una ascensione che trascende il livello naturale. Come un suono diventa voce, e come la voce diventa parola, diventa pensiero, diventa verità; così il segno del pane è passato, dall’umile e pio essere suo, a significare un mistero; è diventato sacramento, ha acquistato il potere di dimostrare presente il corpo di Cristo” (Discorso tenuto nella festa del Corpus Domini del 1959).
Ma adesso basta con le cose difficili. Ridiscendiamo a valle, cioè alla vita di tutti i giorni. Anche se non avete capito gran che di quello che ho detto, non vi angustiate. Non è necessario, per fortuna, sapere tutto sul pane e sui suoi componenti chimici, per mangiarlo con gusto e riceverne beneficio! Vista nella luce che abbiamo detto, l’Eucaristia illumina, nobilita e consacra tutta la realtà del mondo e l’attività umana. Il significato nuovo, eucaristico, del pane non annulla infatti quello naturale, piuttosto lo sublima. Nell’Eucaristia la stessa materia – sole, terra, acqua – viene presentata a Dio e raggiunge il suo fine che è quello di proclamare la gloria del creatore. L’Eucaristia è il vero “cantico delle creature”.
“Frutto della terra e del lavoro dell’uomo”, il pane eucaristico ha qualcosa di importante da dire proprio sul lavoro umano, e non solo su quello agricolo. Nel processo che porta dal seme al pane sulla tavola, interviene l’industria con le sue macchine, il commercio, i trasporti e un’infinità di altre attività umane. Tutto il lavoro umano.
Secondo la visione marxista, il lavoro, così com’è organizzato nelle società capitalistiche, aliena l’uomo. Il lavoratore mette nel prodotto che esce dalle sue mani il suo sudore, un po’ della sua vita. Vendendo quel prodotto, è come se il padrone vendesse lui. Bisogna ribellarsi… A un certo livello, questa analisi può anche essere vera, ma l’Eucaristica ci dà la possibilità di rompere questo cerchio. Insegniamo al lavoratore cristiano a vivere bene la sua Eucaristia; diciamogli che, se offerto a Dio per il bene della famiglia e il progresso della società, il suo sudore non finirà nel prodotto che fabbrica, ma in quel pane che, direttamente o indirettamente, ha contribuito a produrre. Diventa anch’esso, in qualche modo, eucaristia, messo al sicuro per l’eternità, perché è scritto che “le loro opere li seguiranno” (Apocalisse 14, 13). Il lavoro non è più alienante, ma santificante. L’Eucaristia, come si vede, ricapitola e unifica ogni cosa. Riconcilia tra loro materia e spirito, natura e grazia, sacro e profano. Alla luce dell’Eucaristia, non ha più senso la contrapposizione tra mondo laico e mondo cattolico che tanto impoverisce la nostra cultura, rendendola “di parte”. L’Eucaristia è il più sacro e, nello stesso tempo, il più laico dei sacramenti.
La prima lettura ci offre lo spunto per completare questa riflessione e applicarla alla nostra vita di ogni giorno. Il profeta Elia sta fuggendo dall’ira della regina Gezabele che lo vuole uccidere. È sfinito fisicamente e moralmente; si getta sotto un ginepro chiedendo a Dio di farlo morire. Un angelo lo tocca, gli mostra un pane cotto su delle pietre e un orcio d’acqua e gli dice: “Alzati e mangia!”. Egli si alza, mangia e con la forza datagli da quel pane cammina ancora per quaranta giorni e quaranta notti, fino al monte di Dio, l’Oreb.
Non siamo anche noi, a volte, quell’Elia stanco e sfiduciato e desideroso di morire? Anche a noi viene detto perciò: “Alzati e mangia!”. Chi mangia di questo pane che è il corpo del Signore non camminerà solo “per quaranta giorni e quaranta notti”, ma “vivrà in eterno”. Dal tabernacolo, Cristo continua a far giungere all’uomo di ogni tempo quelle sue parole:
“Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò” (Matteo 11, 28).

Fonte:http://www.cantalamessa.org

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