don Enzo Pacini, "Una guarigione che è come un sacramento"

Una guarigione che è come un sacramento
Domenica 9 settembre - XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. «Emise un sospiro e gli disse: Effatà, cioè: Apriti!»

06/09/2018 di Enzo Pacini Cappellano del carcere di Prato
L'episodio della guarigione del sordomuto che la liturgia oggi ci presenta (Mc 7,31-37) va al di là della semplice narrazione di un evento prodigioso ed acquisisce una valenza di tipo sacramentale; Gesù compie dei gesti che veicolano una parola potente, e sono a loro volta da essa illuminati, che compie quello che annuncia: «apriti!». È la struttura che ritroviamo in ogni sacramento e in Gesù stesso, sacramento per eccellenza, che racchiude nella sua persona, parole e azioni, la pienezza del Verbo divino. Oltretutto i gesti compiuti in questa guarigione sono stati inseriti tali e quali nella celebrazione del Battesimo, dove il celebrante invoca che il Signore Gesù «che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede».

Sarebbe però sbagliato ritenere tutto ciò un semplice rito di contorno: nella sua semplicità esso ci annuncia la funzione fondamentale della parola di Cristo che apre i nostri orecchi e l’intera vita al suo annuncio. Potremmo domandarci come possa realizzarsi questa apertura: da questo brano appare chiaro che essa è opera del Signore, poiché la situazione dell’uomo è bloccata da una totale incapacità di ascoltare e di esprimere alcunché. E’ vero anche che non può trattarsi di un’operazione magica, che vi è una situazione di partenza sulla quale Cristo innesta il suo operato, non fosse altro che la coscienza della propria condizione. Se l’uomo è confinato nella sua situazione «catacombale» è vero anche che da quella situazione è possibile elevare l’invocazione: «dal profondo a te grido, Signore, ascolta la mia voce»(Sal 129,1); perfino se la voce non trova modo di esprimersi Egli è capace di ascolto perché è colui che scruta i cuori (cf. Rm 8,27). E’ quindi questa presa di coscienza il punto di partenza per un rapporto fecondo con Cristo, ed è quanto esprime l’apostolo Giacomo nella seconda lettura (Gc 2,1-5) quando cerca di far riflettere gli ascoltatori senza limitarsi a enunciare precetti, ma cercando di ricondurli all’ottica di Dio: se fate discriminazioni...non siete giudici perversi? Dio non ha forse scelto i poveri?

Non sono solo domande retoriche, dalla risposta scontata, tanto è vero che l’apostolo, nel prosieguo del brano, dirà che è proprio quello che hanno fatto, hanno disprezzato il povero. Di più, per cercare di distinguersi da coloro che non sono più visti come i prediletti di Dio, hanno fatto comunella proprio con chi non ha alcuna intenzione di sposare la causa del vangelo ma la osteggia (cf. Gc 2,6), tentativo maldestro di darsi un tono, di entrare nella cerchia di quelli che contano dimenticando la logica del Vangelo. Sono argomenti di una certa attualità che è facile ritrovare in fatti e avvenimenti di ogni giorno: le guerre fra poveri che vengono continuamente alimentate, una lettura moralistica della povertà (sono fannulloni, parassiti, incapaci e forse mentalmente inferiori), l’abbandono dell’impegno per i diritti umani (universali, trasversali, incondizionati) in favore di quelli acquisiti (cittadinanza, residenza, circolazione) sottoposti a requisiti e a restrizioni fino ad arrivare, come già accade in alcuni paesi europei, a configurare come reato l’assistenza data a migranti o altre categorie marginali. Il rischio di adeguarsi a tutto ciò e di ripiombare in una situazione di mutismo e sordità alla parola evangelica è tutt’altro che remoto, per questo la liturgia di oggi ci riguarda, in quest’uomo bisognoso di «apertura» possiamo riconoscerci.

Fonte:www.toscanaoggi.it/

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