padre Raniero Cantalamessa"La regola aurea, sintesi del comportamento del discepolo di Cristo"

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La regola aurea, sintesi del comportamento del discepolo di Cristo
padre Raniero Cantalamessa

VII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) 

  Visualizza Lc 6,27-38
Il Vangelo di questa Domenica contiene una specie di codice morale che deve caratterizzare la vita del discepolo di Cristo. Il tutto è riassunto nella cosiddetta "regola aurea" dell'agire morale: "Ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro". Una regola, questa, che, se messa in pratica, basterebbe da sola a cambiare il volto della famiglia e della società in cui viviamo. L'Antico Testamento la conosceva nella forma negativa: "Non fare a nessuno ciò che non piace a te" (Tb 4, 15); Gesù la propone in forma positiva: "Fare agli altri quello che vorremmo che essi facessero a noi", che è molto più esigente.

Ma il brano evangelico fa sorgere anche degli interrogativi. "A chi ti percuote sulla guancia porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo non richiederlo...". Gesù comanda dunque ai suoi discepoli di non opporsi al male, di lasciare mano libera ai violenti? Come si concilia questo con l'esigenza di combattere la prepotenza e il crimine, di denunziarlo con energia, anche correndo dei rischi? Con la mettiamo con la "tolleranza zero", oggi invocata da più parti di fronte al dilagare della microcriminalità?

Il vangelo non solo non condanna questa esigenza di legalità, ma la rafforza. Vi sono situazioni in cui la carità non esige di porgere l'altra guancia, ma di andare diritti dalla polizia a denunciare il fatto. La regola d'oro che vale per tutti i casi, abbiamo sentito, è di fare agli altri quello che si vorrebbe fatto a se stessi. Se tu, per esempio, sei vittima di un furto, di uno scippo, di un ricatto, se qualcuno ti è venuto addosso e ti ha rovinato l'auto, saresti certamente contento se chi ha assistito al fatto fosse pronto a testimoniare in tuo favore. Il vangelo ti dice che questo è quello che anche tu devi fare agli altri, senza trincerarti dietro il solito: "Non ho visto niente, non so niente". Il crimine prospera sulla paura e sull'omertà.

Ma prendiamo le parole in certo senso più pericolose del vangelo di domani: "Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati". Dunque via libera all'impunità? E che dire allora dei magistrati che fanno i giudici a tempo pieno, per professione? Sono essi condannati in partenza dal vangelo? Il vangelo non è così ingenuo e irrealista come potrebbe sembrare a prima vista. Esso non ci ordina tanto di togliere il giudizio dalla nostra vita, quanto di togliere il veleno dal nostro giudizio! Cioè quella parte di astio, di rifiuto, di vendetta che si mescola spesso alla obbiettiva valutazione del fatto. Il comando di Gesù: "Non giudicate e non sarete giudicati" è seguito immediatamente, abbiamo visto, dal comando: "Non condannate e non sarete condannati" (Lc 6, 37). La seconda frase serve a spiegare il senso della prima.

Sono i giudizi "spietati", senza misericordia, che vengono banditi dalla parola di Dio, quelli che, insieme con il peccato, condannano senza appello anche il peccatore. Giustamente, la coscienza del mondo civile rigetta oggi quasi all'unanimità la pena di morte. In essa infatti l'aspetto di vendetta da parte della società e di annientamento del reo prevale su quello dell'autodifesa e di scoraggiamento del crimine che potrebbero essere ottenuti non meno efficacemente con altri tipi di pena. Tra l'altro, in questi casi si uccide a volte una persona completamente diversa da quella che ha commesso il crimine, perché nel frattempo essa si è pentita ed è radicalmente cambiata.

Fonte:www.qumran2.net


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