MONASTERO MARANGO, "La vocazione è una risolutezza d'amore"
La vocazione è una risolutezza d'amore
Briciole dalla mensa - 13° Domenica del Tempo Ordinario (anno C) - 30 giugno 2019
LETTURE 1Re 19,16.19-21 Sal 15 Gal 5,1.13-18 Lc 9,51-62
COMMENTO
Una risolutezza d'amore: è quella che caratterizza Gesù nel suo andare a Gerusalemme. Infatti, Luca racconta che «prese la ferma decisione» di questo viaggio «nei giorni in cui sarebbe stato elevato». Il testo letterale dice: «doveva essere tolto». Evidentemente ci si riferisce alla sua morte, ma il termine allude anche alla sua accoglienza presso il Padre: perché la morte non è separabile dalla risurrezione. Soltanto che la nostra traduzione («elevazione») sembra nascondere un po' la dimensione drammatica di ciò che si compirà per Gesù a Gerusalemme. In effetti, Egli si mostra risoluto non tanto perché sa che dopo la morte il Padre lo farà salire al cielo, ma perché si assume in prima persona il peso di ciò che di negativo dovrà affrontare, come passaggio al Padre. «La morte deve essere, nella grazia del Signore, un atto per quanto possibile volontario, compiuto con un'offerta al Signore voluta e consumante perché è l'atto supremo della nostra vita. La nostra educazione all'amore ci dovrebbe portare, una volta riconosciuto la volontà di Dio e il momento da Lui decretato per la nostra fine, a compiere il supremo atto d'amore, consegnando la vita senza aspettare che il male ce la strappi» (G. Dossetti).
Gesù ha preso coscienza e ha deciso di morire per amore nostro, più che per il fatto che i giudei tramavano contro di Lui: è la sua risolutezza nel dono di sé, per conquistarci a sé, al suo amore che apre al Padre. Perciò la sua risolutezza non consiste in un volontarismo velleitario che non sa assumere la drammaticità e la sconfitta. Ma è la qualità della vita non tenuta stretta come una «tesoro geloso», bensì donata con larghezza di generosità e di gratuità, sapendo di perdersi, ma per ritrovarsi.
Ora che ha assunto la sua morte non come sconfitta ma come occasione di dono, Gesù si avvia verso Gerusalemme con i tratti della regalità e dell'umiltà che saranno manifesti nel suo ingresso nella città santa (cfr. Lc 19,28-40). Infatti, manda avanti alcuni dei suoi discepoli per preparare il suo ingresso in un villaggio di Samaritani: come si faceva quando arrivava un re. Solo che il loro rifiuto non lo porta a una reazione vendicativa e violenta - come volevano Giacomo e Giovanni -, ma all'assunzione della docilità e della mitezza che lo portano semplicemente a cambiare direzione verso un altro villaggio. In questo modo, Gesù ha sperimentato il dolore della non accoglienza per il suo essere straniero: come molte persone oggi drammaticamente vivono. Mentre la chiusura mentale e l’ottundimento del cuore portano certuni ad accusare di buonismo e di mancanza di senso di realtà chi denuncia le politiche inumane di non accoglienza. Invece, la reazione di Gesù risulta negativa verso i due discepoli che volevano scatenare il fuoco vendicativo di Dio: Egli interrompe il viaggio («si voltò») e reagisce con loro come aveva fatto con il ragazzo epilettico («rimproverò lo spirito impuro», Lc 9,42).
In questo cammino verso la sua chiamata a donarsi completamente, Gesù esprime, nel breve dialogo con tre persone, le esigenze della vocazione a camminare dietro a Lui. Innanzitutto è necessario non lasciarsi guidare da un facile e superficiale entusiasmo. Gesù avverte chi vuole seguirlo «dovunque vada», che Egli non gli potrà offrire onori e successi, in quanto non ha nemmeno un luogo «dove posare il capo». Il discepolo di Gesù deve prendere coscienza che, in questo mondo dominato dalla ricerca del potere e del valere, egli sarà sempre «straniero e pellegrino»: cioè molto marginale, assolutamente non considerato, privo di qualsiasi appoggio su ciò che umanamente conta. Oggi, «non avere dove poggiare il capo» significa, per il cristiano, dare un luogo umano dove gli immigrati, che vengono rifiutati da certi sobillatori degli istinti negativi delle persone, possono appoggiare il loro capo; sapendo di venir rifiutati per questo gesto di accoglienza.
In secondo luogo, è necessario, nella sequela di Cristo a cui ogni cristiano è chiamato, non porre delle condizioni per le proprie "prestazioni" di discepolo. Gesù arriva a negare il permesso del sacro dovere di seppellire il proprio padre. Non è da prendere alla lettera. In effetti, molti cristiani si rivelano «tiepidi» e prudenti nella sequela, perché hanno paura di affidarsi veramente al Signore e cercano, nel loro dirsi credenti, una qualche forma di soddisfazione a livello puramente umano.
Infine, è necessario non vivere di ricordi del passato, che finiscono per paralizzare il proprio cammino cristiano: è il detto su chi mette mano all'aratro e poi si volta indietro. Chi ha paura di lasciare ciò in cui ha sempre confidato, chi teme di lasciar diventare il Signore il tutto della propria vita, ovvero il proprio riferimento fondamentale e ineludibile, tenderà sempre a volgersi indietro verso ciò che ha lasciato dello stile di vita precedente, ma che ha ancora tenuto ben saldo dentro il proprio cuore.
Alberto Vianello
Fonte:www.monasteromarango.it
Briciole dalla mensa - 13° Domenica del Tempo Ordinario (anno C) - 30 giugno 2019
LETTURE 1Re 19,16.19-21 Sal 15 Gal 5,1.13-18 Lc 9,51-62
COMMENTO
Una risolutezza d'amore: è quella che caratterizza Gesù nel suo andare a Gerusalemme. Infatti, Luca racconta che «prese la ferma decisione» di questo viaggio «nei giorni in cui sarebbe stato elevato». Il testo letterale dice: «doveva essere tolto». Evidentemente ci si riferisce alla sua morte, ma il termine allude anche alla sua accoglienza presso il Padre: perché la morte non è separabile dalla risurrezione. Soltanto che la nostra traduzione («elevazione») sembra nascondere un po' la dimensione drammatica di ciò che si compirà per Gesù a Gerusalemme. In effetti, Egli si mostra risoluto non tanto perché sa che dopo la morte il Padre lo farà salire al cielo, ma perché si assume in prima persona il peso di ciò che di negativo dovrà affrontare, come passaggio al Padre. «La morte deve essere, nella grazia del Signore, un atto per quanto possibile volontario, compiuto con un'offerta al Signore voluta e consumante perché è l'atto supremo della nostra vita. La nostra educazione all'amore ci dovrebbe portare, una volta riconosciuto la volontà di Dio e il momento da Lui decretato per la nostra fine, a compiere il supremo atto d'amore, consegnando la vita senza aspettare che il male ce la strappi» (G. Dossetti).
Gesù ha preso coscienza e ha deciso di morire per amore nostro, più che per il fatto che i giudei tramavano contro di Lui: è la sua risolutezza nel dono di sé, per conquistarci a sé, al suo amore che apre al Padre. Perciò la sua risolutezza non consiste in un volontarismo velleitario che non sa assumere la drammaticità e la sconfitta. Ma è la qualità della vita non tenuta stretta come una «tesoro geloso», bensì donata con larghezza di generosità e di gratuità, sapendo di perdersi, ma per ritrovarsi.
Ora che ha assunto la sua morte non come sconfitta ma come occasione di dono, Gesù si avvia verso Gerusalemme con i tratti della regalità e dell'umiltà che saranno manifesti nel suo ingresso nella città santa (cfr. Lc 19,28-40). Infatti, manda avanti alcuni dei suoi discepoli per preparare il suo ingresso in un villaggio di Samaritani: come si faceva quando arrivava un re. Solo che il loro rifiuto non lo porta a una reazione vendicativa e violenta - come volevano Giacomo e Giovanni -, ma all'assunzione della docilità e della mitezza che lo portano semplicemente a cambiare direzione verso un altro villaggio. In questo modo, Gesù ha sperimentato il dolore della non accoglienza per il suo essere straniero: come molte persone oggi drammaticamente vivono. Mentre la chiusura mentale e l’ottundimento del cuore portano certuni ad accusare di buonismo e di mancanza di senso di realtà chi denuncia le politiche inumane di non accoglienza. Invece, la reazione di Gesù risulta negativa verso i due discepoli che volevano scatenare il fuoco vendicativo di Dio: Egli interrompe il viaggio («si voltò») e reagisce con loro come aveva fatto con il ragazzo epilettico («rimproverò lo spirito impuro», Lc 9,42).
In questo cammino verso la sua chiamata a donarsi completamente, Gesù esprime, nel breve dialogo con tre persone, le esigenze della vocazione a camminare dietro a Lui. Innanzitutto è necessario non lasciarsi guidare da un facile e superficiale entusiasmo. Gesù avverte chi vuole seguirlo «dovunque vada», che Egli non gli potrà offrire onori e successi, in quanto non ha nemmeno un luogo «dove posare il capo». Il discepolo di Gesù deve prendere coscienza che, in questo mondo dominato dalla ricerca del potere e del valere, egli sarà sempre «straniero e pellegrino»: cioè molto marginale, assolutamente non considerato, privo di qualsiasi appoggio su ciò che umanamente conta. Oggi, «non avere dove poggiare il capo» significa, per il cristiano, dare un luogo umano dove gli immigrati, che vengono rifiutati da certi sobillatori degli istinti negativi delle persone, possono appoggiare il loro capo; sapendo di venir rifiutati per questo gesto di accoglienza.
In secondo luogo, è necessario, nella sequela di Cristo a cui ogni cristiano è chiamato, non porre delle condizioni per le proprie "prestazioni" di discepolo. Gesù arriva a negare il permesso del sacro dovere di seppellire il proprio padre. Non è da prendere alla lettera. In effetti, molti cristiani si rivelano «tiepidi» e prudenti nella sequela, perché hanno paura di affidarsi veramente al Signore e cercano, nel loro dirsi credenti, una qualche forma di soddisfazione a livello puramente umano.
Infine, è necessario non vivere di ricordi del passato, che finiscono per paralizzare il proprio cammino cristiano: è il detto su chi mette mano all'aratro e poi si volta indietro. Chi ha paura di lasciare ciò in cui ha sempre confidato, chi teme di lasciar diventare il Signore il tutto della propria vita, ovvero il proprio riferimento fondamentale e ineludibile, tenderà sempre a volgersi indietro verso ciò che ha lasciato dello stile di vita precedente, ma che ha ancora tenuto ben saldo dentro il proprio cuore.
Alberto Vianello
Fonte:www.monasteromarango.it
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