Abbazia Santa Maria di Pulsano, Lectio DOMENICA «DEL RICCO SCEMO»

DOMENICA «DEL RICCO SCEMO»
XVIII del Tempo per l’Anno C

Luca 12,13-21; Qoèlet 1,2; 2,21-23; Sal 89; Colossesi 3,1-5.9-11

Uno dei bisogni fondamentali dell’uomo è la sicurezza. Da sempre l’umanità ricerca appassionatamente e necessariamente un fondamento stabile su cui poggiare la propria esistenza. Una preferenza antica quanto l’uomo è quella di chi sceglie come pietra angolare nella propria vita le cose, il denaro. Quando il denaro diventa dio è la fine dell’uomo. Il denaro è davvero una falsa sicurezza!
Il denaro è tutto, si dice. Il denaro è potere, è il potere. Senza denaro non si può far nulla. Il denaro dà all’uomo il senso della sicurezza, della possibilità di fare tutto. Scatta allora il meccanismo dell’accumulazione: il denaro non è mai troppo, diventa idolatria. Quando il denaro diventa il proprio dio, per averlo si è disposti a tutto. La sete del denaro oppone l’uomo all’uomo. Se uno cerca di avere la parte maggiore, l’altro diventa un concorrente da superare o da eliminare. La divisione dell’eredità è sempre stata un momento difficile per le famiglie. Fare le parti giuste è quasi impossibile. La divisione dell’eredità diventa la divisione della famiglia.
Il denaro è la sorgente di tutte le gerarchie sociali, di tutte le discriminazioni: chi ha di più è più in alto; gli uomini non sono più uguali, si distinguono per quello che hanno. L’uomo del denaro diventa un uomo «solo», un uomo alienato, schiavo. Il denaro diventa una prigione. L’uomo del denaro è l’uomo vecchio.
Il problema della divisione della ricchezza è uno dei più gravi a tutti i livelli. Come interviene Cristo in questa situazione? Perché Cristo rifiuta di farsi giudice fra i due? Perché non è la sua missione fare giustizia mediante la via del potere. Il potere si giustifica moralmente quando si mette a servizio della giustizia. Cristo non lo condanna in quanto potere. Solamente che il potere non è la via che egli ha scelto per «fare giustizia».
Cristo innanzi tutto riprende l’insegnamento della saggezza umana, espresso già nell’Antico Testamento, traducendolo nella parabola del ricco scemo (Lc 12,16-21). Le cose sono una falsa sicurezza. Il possesso è realtà illusoria. Il ricco è posseduto dalle cose, ma in fondo non le possiede. La morte rivela in modo evidente questa verità. La meditazione della morte compie nell’uomo la liberazione da un’illusione, una prima liberazione dalle cose.
Non è però una meditazione di tipo moralistico. Gesù non vuole inculcare nei suoi ascoltatori abbienti il timore di una morte improvvisa e individuale che manderebbe in fumo le loro speranze. In realtà la visione che si ha qui della morte è escatologica ed è collegata col giudizio di Dio.
Il fondamento sicuro dell’esistenza è Dio solo. In lui acquista significato anche l’uso delle cose, in sé buone. Non saranno più strumento di divisione, ma di comunione. L’uomo non le tiene egoisticamente per sé, ma le trasforma in «segno» d’amore.

Dall’eucologia:
Antifona d'Ingresso Sal 69,2.6
O Dio, vieni a salvarmi.
Signore, vieni presto, in mio aiuto.
Sei tu il mio soccorso, la mia salvezza:
Signore, non tardare.

L'Antifona d'ingresso è tratta dal Sal 69,2.6cd, SI. All'inizio di questa celebrazione l'Orante aiuta l’assemblea a pregare degnamente, chiedendo con due epiclesi parallele che il Signore si appresti ad intervenire in soccorso, anzi che si affretti ad aiutare (v. 2; dr v. 6; 30,3; 68,18; Mt 8,5). Le necessità dei suoi fedeli anzi sono così urgenti, che l'Orante reitera l'epiclesi per la Presenza, chiedendo al Signore, l'unico Soccorso e l'unico Liberatore, che non tardi, se non vuole che si perisca (v. 6cd). Questo celebre testo è posto anche all'inizio dell'officiatura delle sante Ore. Il «Non tardare» è un tipico tratto dell'Avvento.

Canto all’Evangelo Mt 5,3
Alleluia, alleluia.
Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Alleluia.
La beatitudine di Mt 5,3 è l’introduzione per orientare la proclamazione dell’Evangelo di oggi. Il Regno di Dio appartiene solo ai poveri in quanto allo spirito. I poveri che nulla possiedono. Il loro vuoto sarà colmato dal Regno. Essi sono resi beati dal Signore proprio perché poveri che da Lui attendono tutto e sono gratificati da Lui del possesso beatificante delle Realtà divine.
Anche oggi, ancora, la prodiga ricchezza dell’Evangelo viene distribuita fra gli uomini: è la carità del Regno che non solo mostra ma dona le ricchezze del Regno valide per la salvezza eterna. Come ci ricorda la conclusione della pericope e la II colletta: arricchire davanti a Dio è più importante che accumulare tesori per se:
O Dio, principio e fine di tutte le cose,
che in Cristo tuo Figlio
ci hai chiamati a possedere il regno,
fa’ che operando con le nostre forze
a sottomettere la terra
non ci lasciamo dominare
dalla cupidigia e dall’egoismo,
ma cerchiamo sempre ciò che vale davanti a te.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Luca narra ancora di Gesù mentre prosegue la sua difficile «salita a Gerusalemme», descritta solo dal 3° evangelista (Lc 9,51 - 19,28; e vedi la Domenica XIII). Lì si deve consumare in pienezza, con la Croce e la Resurrezione, il suo "esodo" al Padre (Lc 9,31). Lungo questo complicato itinerario Gesù elargisce la ricchezza della dottrina che scaturisce dall’Evangelo annunciato. L’Evangelo con le opere della Carità del Regno è la parte preponderante del suo programma battesimale nello Spirito Santo. Adesso impartisce una catechesi evangelica sui beni che non procurano affatto la vita, anche attraverso la parabola che si deve intitolare del «ricco scemo».
Abbiamo un legame con la pericope di Domenica scorsa nel detto finale, Lc 11,13, che diventa così preludio e prepara la Domenica attuale: il padre che regala cose buone ai figli, figura parabolica del Padre che regala lo Spirito Santo è la chiave interpretativa che ci consente di leggere e comprendere la pericope di oggi. In greco abbiamo lo stesso termine per «cose buone» di 11,13 e «miei beni» di 12,18 (agathós).
Per il contesto ricordiamo che il capitolo 12 di Luca riporta una serie di insegnamenti di Gesù ai suoi discepoli durante il cammino verso Gerusalemme. Tema unificante è la sequela e potrebbe essere diviso in tre parti:
1. persecuzione (vv. 1-12);
2. possesso (vv. 13-34);
3. ritorno del Signore (vv. 35-48).
Una richiesta, proveniente dalla folla, diviene il punto di passaggio dalla prima alla seconda parte: «Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità» (v. 13).
Il nostro testo può essere strutturato in tre momenti:
a. La domanda dell’interlocutore (vv. 13-14)
b. Un avvertimento (v. 15)
c. Una parabola (vv. 16-20).
Sappiamo bene che cosa può provocare un problema di eredità anche nelle famiglie più unite, portando alla luce l'avidità nascosta. Come si comporterà Gesù di fronte alla questione che gli viene presentata? Potremmo pensare che interverrà, secondo il suo solito, a difesa della giustizia, sostenendo la causa dell'uomo che si ritiene defraudato da suo fratello. Invece Gesù risponde con un netto rifiuto. Indubbiamente avrebbe qualcosa da dire sull'argomento, ma non tollera che ci si possa servire della sua autorità morale per sostenere la rivendicazione di interessi particolari. Piuttosto che appellarsi a Gesù, bisogna che quell'uomo si assuma le proprie responsabilità. Questa è la prima lezione che dobbiamo trarre. Siamo tentati troppo spesso di mettere Dio dalla parte dell'autorità, della patria, della prosperità, dell'una o dell'altra opzione politica. Non dimentichiamo che Gesù si rifiuta di prendere il posto dell'uomo, di sostituirsi alla sua libertà, di decidere per lui. Ciascuno viene rimandato a se stesso, alla propria dignità umana, alla propria coscienza.
Ma Gesù va oltre, perché intuisce nell'iniziativa del suo interlocutore la molla segreta che lo spinge: la sete di guadagno, l'amore per il denaro. Il problema di fondo, dice Gesù, è sapere che cosa assicura la vita. La disavventura di un ricco proprietario terriero fa vedere come può essere poco lungimirante la previdenza umana: quell'uomo credeva di aver trovato la propria assicurazione sulla vita nelle abbondanti riserve accumulate nei suoi granai. Ma improvvisamente la morte lo ghermisce... E Gesù denuncia la sua imprevidenza, la sua follia: limitando le proprie aspirazioni a questo mondo, praticamente ha rinnegato Dio. Davvero è folle chi pensa che l'essenziale, quaggiù, sia produrre e accumulare, chi affida la propria vita alla sicurezza di un buon conto in banca. «Arricchire davanti a Dio» significa donare e condividere, sapendo verso che cosa e verso chi scorre la propria esistenza: questo è ciò che conta, non altro.

I Lettura - Qo 1,2; 2,21-23
Nell'A. T. esiste un gruppo di testi sapienziali come Giobbe e Qoelet (o Ecclesiaste), e un gruppo di Salmi (una «Supplica individuale», 38; due «Didattici sapienziali», 48 e 72, e qualche altro), oltre a diversi passi profetici, che dalla critica si sono chiamati talvolta la «contestazione atea» della Bibbia. Nel senso che riportano il punto di vista pessimistico e quasi disperato dell'"ateo" che si ribella alla situazione di rovina in cui si trova per varie cause, e per questo interpella in modo violento, o remissivo, o anche ironico, il Signore e i suoi decreti misteriosi. Naturalmente gli autori biblici discutono le questioni, e poi danno i principi "sapienziali" di soluzione.
Qoelet è a suo modo un autore in apparenza cinico e disincantato, che vuole suscitare problemi sulla vita umana e sulle sue manifestazioni. Si pone come un uomo normale, e vede che l'esistenza umana non pare rispondente a una supposta razionalità divina, e neppure alla ragione umana oggettivamente intesa. La vita umana è inutile, è vana, «è sprecata», come dice la retorica di certo esistenzialismo moderno. E il «tutto è vano», suona come una monotona inflessione dell’Ecclesiaste. È vano il bene in ogni suo aspetto. Altrettanto è vano il male in ogni suo aspetto. Ecco il disincanto. Certo. Ma poi l'autore misterioso alla fine offre la soluzione positiva ai vv. 12,1: «Fa' memoriale del Creatore tuo...», e in 12,13-14 dà anche la soluzione certa e serena, richiamando alla realtà vera:
Temi Dio e osserva i suoi comandamenti...
e quanto avviene, Dio porterà nel Giudizio,
per ogni errare, sia esso buono, sia esso malvagio.
Tenuto conto di questo, si comprende il «Vanità delle vanità..., e tutto è vanità», ripetuto dal sapiente come un ritornello monotono e fastidioso (Qo 1,1.2.11.14.17.19.21.23.26; 7,20; 12,8, etc; vedi anche Sal 38,6). Davanti a Dio, è vano che l'uomo si agiti senza portare a nulla, poiché tutto finisce, nulla resta. Ecco, ad esempio un uomo fatica per conseguire la sapienza, la dottrina vitale, il prodigarsi utile, mentre l'ozioso attende tranquillo che quello muoia e lasci tutto a lui, che non ha mosso un dito per conseguirlo. E il contenuto della parabola evangelica vista poco sopra. L'autore esclama in modo ironico, e anche doloroso: perciò anche questo è vanità, un grande male (v. 2,21). Infatti, si chiede ancora, mentre vedeva la luce del sole quello ha tribolato con tutta la sua attività faticosa, materiale e spirituale, anzi nella sofferenza e nella tensione spirituale (1,3; anche 1,14), e a che gli è giovato? A nulla (v. 2,22). L'analisi della sua vita rivela che lungo la sua esistenza egli conobbe solo dolori e amarezze, e per questo non dorme neppure la notte (Gb 5,7; 14,1). «E questo forse non è vanità?» (v. 2,23). L'esistenza è breve, è problematica, non si sa se valga la pena di viverla.
Il «vanitas vanitatum» è stato per duemila anni oggetto di infinite riflessioni filosofiche e psicologiche, e teologiche, morali, spirituali. Talvolta queste hanno portato a negare molti valori autentici biblici e cristiani, ma anche umani e a un'ascetica di tipo platonico, gnostico e manicheo, che rigetta la creazione e la materia. Oppure, al contrario, si è arrivati agli eccessi contrari.
Oggi ci si deve domandare se si è più equilibrati e se si tiene conto del paolino «fare, agire, possedere tutto come se» non fosse un fatto tuo (1 Cor 7,29-31; Sal 38,7). I cristiani debbono lavorare per il Regno di Dio, anche materialmente. Non si deve estrapolare una frase dall'Ecclesiaste, e farne un motto di vita, che in effetti nei secoli portò via via al «disprezzo del mondo». Il mancato equilibrio in questo ha portato molto malessere e alla diffidenza della cultura contro la Chiesa; la quale per fortuna non si identifica affatto con l'ascesi platonica. Si veda qui l'autentico pensiero sociale moderno della Chiesa.
L’Ecclesiaste nel suo straordinario interesse va riletto perciò nel contesto biblico generale, per cui la creazione è buona, il lavoro dell'uomo è ottimo, e proprio per questo è obbligatorio, secondo il precetto originario divino (Gen 1,26-27.28). Paolo vi aggiunge: «Chi non lavora, neppure mangi!» (2 Tess 3,10). L'Evangelo di oggi aiuta a situare in prospettiva giusta tutta la questione.

Il Salmo responsoriale è il Sal 89,3-4.5-6.12-13.14 e 17, SC e il versetto responsorio (dal v. 1): Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione professa che il Signore fu il perenne e fedele Rifugio del suo popolo lungo le generazioni.
Il contenuto di questa Supplica comunitaria è anche una profonda riflessione sapienziale. L'Orante, che di fatto è una comunità in preghiera, chiede al Signore di non ripetere il gesto della condanna che si ebbe in Gen 3,19, quando ad Adamo decretò che, essendo polvere, doveva tornare alla polvere (v. 3; anche Eccle 1,4; 12,7). È vero, il Signore non computa e non valuta il tempo come gli uomini, il suo eterno presente vede mille anni o un giorno o una notte come una medesima e identica realtà (v. 4; 92,2; 101,25, Ab 1,12; Gb 26,36: Dio è eterno; 2 Pt 3,8), come un nulla, una fluenza temporale, il cui scorrere non lascia traccia (v. 5).
In sé, l'uomo ha la consistenza dell'esile erba verde, che al mattino è virente (Gb 14,2; Sal 36,2; 1 Pt 1,24) nella sua bellezza (Gb 4,20; 14,2), ma la sera già è appassita, si dissecca e si disfa (v. 6; Is 38,12; Giac 1,11). Per questo l'Orante chiede il dono della sapienza, per conoscere come agisce la Destra del Signore (Sal 38,5), che per l'uomo è sempre imprevedibile e temibile (v. 12).
E osa anche chiedere al Signore che muti atteggiamento: «Convertiti, Signore, fino a quando» tacerai e starai inerte? (Sal 5,5; Is 63,17; Sal 73,11-12). Non solo, ma l'Orante rivolge al Signore un altro imperativo, affinché Egli finalmente sia pronto ad accogliere le preghiere dei suoi servi che stanno in necessità (v. 13; Sal 134,14; Es 32,12; Dt 32,36).
Infatti i suoi servi adesso gli innalzano l'azione di grazie per i doni della misericordia fin dal mattino della vita, per la gioia e per le delizie ricevute in continuazione (v. 14; Sal 84,7). Per questo, Egli deve seguitare a esaudire. Sì, un tempo il suo popolo fu giustamente umiliato, ma poi fu ricompensato di gioia, per gli anni nei quali esso vide solo rovina (v. 15). Adesso sale l'epiclesi: il Signore manifesti in modo benefico la sua Luce vivificante. Un'altra epiclesi chiede che dall'alto diriga Lui l'opera faticosa delle mani dei suoi fedeli (Is 26,12; 65,21-23), poiché essi senza di Lui nulla possono conseguire. La medesima epiclesi è ripetuta, come acclamazione finale di tutta l'assemblea (v. 17). Tutto questo va meditato e compreso alla luce dell'Evangelo di oggi.

Esaminiamo il brano

v. 13 - «un tale tra la folla»: L’indeterminatezza dei personaggi e il motivo "eterno" di dissidio tra gli uomini lascia intendere (oltre ad una prassi abituale in Luca cf 10,30-35; 15,11; 16,1; 16,19 ecc.) che sia un problema emerso nella prima comunità e Luca cerca di risolverlo appellandosi all’autorità di Gesù che non era quella riconducibile ad altri rabbini, speso impegnati a dirimere questioni socio-economiche.
La richiesta appare del tutto legittima nel contesto culturale del I secolo. La Palestina era una società di tipo teocratico, dove non esisteva distinzione tra legge “canonica” e “civile”. Era quindi consueto rivolgersi ad un rabbino, ad un maestro della Legge, per risolvere contese di questo tipo. I codici legali antico-testamentari trattano della legge dell’eredità in luoghi diversi. Per esempio, Nm 27,1-11 sancisce il diritto delle figlie all’eredità del padre, in mancanza di un fratello; 36,7-9 stabilisce che nessuna eredità può passare da una tribù all’altra; 21,15-17 tutela il diritto di primogenitura nel matrimonio poligamo, ecc.
«dì a mio fratello»: att. imp. aoristo. il verbo e il modo dicono che non si tratta di emettere un arbitrato fra i due, ma di pronunciare una sentenza contro il fratello. Nel racconto evangelico si tratta probabilmente di un fratello minore che rifiuta di mantenere il regime di proprietà indivisa, molto comune all’epoca: vuole essere indipendente e chiede di avere la sua parte d’eredità. Non essendo il primogenito, ha bisogno di un sostegno autorevole, estraneo alla famiglia, per giungere ad un accordo con il fratello maggiore.
«che divida»: finora il fratello non aveva adempiuto questo dovere previsto anche dalla Legge (cfr Dt 21,15-17). Nel popolo di Dio l’eredità paterna è riconosciuta come sacra, poiché era stabilita dalla Legge santa del Signore in modo da non creare dissidi e incomprensioni (cf Nm 27,1-11). Questo legame era tanto forte che Nabot fu ucciso dalla spietata regina Gezabele, per non aver venduto al Re Acab il suo lotto ereditario (cfr 1 Re 21,1-16) suscitando l’ira divina portata al Re dal profeta Elia (1 Re 21,17-24).
v. 14 - «Egli rispose...»: Gesù rifiuta di farsi coinvolgere in quelle istanze che sono demandate agli organi appositi in seno alla comunità e rispondendo in modo molto “secco”, esprime la volontà di non farsi coinvolgere. Ci chiediamo tuttavia: com’è possibile che Gesù, normalmente molto attento verso tutto ciò che concerne l’uomo, rifiuti di prendere posizione?
Questo rifiuto è comunque motivato.
v. 15 - «disse loro»: (si noti il passaggio dal singolare al plurale). La traduzione di meristēs (letteralmente: «divisore») con «mediatore» fa parte del contesto della spartizione dell'eredità. Il Vangelo di Tommaso 72 riporta questa parte del logion separata dalla dichiarazione sull'avidità e anche dalla parabola del ricco stolto, che è collocata in un altro contesto (Vangelo di Tommaso 63). Marco e Matteo omettono sia il dialogo introduttivo, che la parabola.
«guardatevi»: attivo imperativo presente. Il richiamo è a qualcosa d’importante che è si quello che Gesù tra poco dirà ma è anche (ancora) l’invito a riconoscerlo. Il verbo greco horáō negli evangeli non si trova mai in riferimento a qualità estetiche e in riferimento ad oggetti ma sempre riferito a persone: chi vede riesce a cogliere le singole persone nella loro individualità e spesso in un determinato modo di essere o di agire (cf ad es. Mt 11,7-11; Mc 1,16-20; Gv 20,8). Nei testi più antichi è usato per designare le apparizioni del Risorto. L’imperativo presente ci ricorda che Gesù si era già manifestato, ora si tratta di continuare su questa strada, seguirlo sempre.
«tenetevi lontano»: medio imperativo presente. La forma media ci dà la sfumatura di un’azione che si compie per un interesse personale.
«da ogni cupidigia»: Il termine pleonexia («cupidigia» o «avarizia») definisce il vizio dello sfrenato desiderio di possesso. Plutarco dice: «La pleonexia non si stanca mai di cercare to pleon [di più]» (Dell'amore della ricchezza 1 [Mor. 523 E]). Compare sempre negli elenchi dei vizi del NT (Mc 7,22; Rm 1,29; Ef 4,19; 5,3). Secondo Col 3,5 la pleonaxia si identifica con l'idolatria e l'equazione ha molto di vero. La brama insaziabile di arricchirsi, di possedere in abbondanza a scapito di altri è il culto di satana col pretesto del denaro e del successo nella vita. L’interesse personale è dunque la salvezza della propria vita; il pericolo è un peccato mortale!
Gesù non è venuto per risolvere i problemi spiccioli dell’uomo, per insegnarci a vivere nel miglior modo possibile su questa terra (il compromesso) ma per indicarci qual è il retto modo di vivere oggi per accumulare ed avere l’unico vero tesoro per sempre.
La reazione diviene chiara quando analizziamo la richiesta dell’uomo sullo sfondo dell’evangelo di Luca. Precisiamo che non si trattava di una questione di giustizia sociale - un orfano o una vedova derubati della loro eredità - ma di una disputa tra fratelli per problemi di “soldi”.
Nel terzo evangelo dunque:
I. la ricchezza è spesso dipinta come “iniqua” (16,11);
II. come un potere opposto a Dio;
III. come una pietra d’inciampo nel cammino verso Dio: «Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione» (6,24); «È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio» (18,25; cfr. 16,1-31).
Per questo la sequela di Cristo esige una scelta radicale: «Nessun servo può servire due padroni perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13).
Gesù rifiuta di lasciarsi coinvolgere in una disputa familiare, ma non esita ad invitare l’uomo a compiere un cammino per rispondere alla domanda che inconsapevolmente ha posto, la domanda a riguardo di ciò che dona valore alla vita: «Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede» (v. 15).
«la sua vita non dipende dai suoi beni»: La traduzione è resa difficile dall'ordine delle parole e dall'esatto rapporto sintattico tra le proposizioni. La distinzione fondamentale tra la vita e le ricchezze è però abbastanza chiara. La vita è un dono di Dio. Nessun possesso, per quanto abbondante, può renderla più grande o conferirle sicurezza. Gesù dunque, invita i suoi uditori a liberarsi dal desiderio di possesso, dando ad ogni realtà il giusto valore. Per facilitare il cammino racconta loro una parabola.
vv. 16-20 - Ecco il racconto esemplificativo. Nella parabola abbiamo:
a) v. 16 una introduzione;
b) v. 17-19 ben tre versetti dedicati al soliloquio del ricco;
c) v. 20 dedicato alla parola definitiva di Dio.
Nella parabola è presentata l’arguzia di un uomo, che grazie alla propria intrapendenza economica accumula una grande ricchezza. Il testo non parla di una ricchezza disonesta, ma del benessere che scaturisce dal proprio lavoro e dalla capacità di amministrare in modo accurato i propri beni.
Nel racconto non si mette in rilievo dunque la peccaminosità del comportamento del ricco ma la futilità del suo indaffararsi.
«Egli ragionava tra sé»: Abbiamo già visto che in Luca dialogismos e il verbo dialogizomai hanno una connotazione negativa (cf 2,35; 5,21-22; 6,8; 9,46-47). Visto che il protagonista del fatto è già stato definito «un uomo ricco» (che dal punto di vista di Luca è di per sé una caratteristica negativa), si deve dedurre che il «ragionamento» dell'uomo era sbagliato. Il suo soliloquio ci mostra la vera stoltezza: si confrontino altri soliloqui come ad es. Lc 15,17-19; 16,3; 18,4; 20,13.
La nota stonata nel racconto è rappresentata dalle parole che rivelano il centro intorno al quale ruotano i desideri dell’uomo ricco: è impressionante la serie di "miei" che ricorre in pochi versetti: «miei raccolti», «miei beni». Il discorso rivolto alla propria “anima” riflette una prospettiva egocentrica: futuro e sicurezza sono posti in ciò che ha accumulato. Manca la consapevolezza che il bene più grande, la vita, non gli appartiene: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?» (v. 20).
La vita è un prestito che occorre restituire a Dio. Quale vita si appresta l’uomo a restituire? La sapienza del ricco si rivela come “stoltezza”: ciò che ha accumulato apparterrà ad altri, e magari fomenterà lotte familiari come quella accennata all’inizio.
v. 18 «demolirò i miei magazzini...»: il verbo kathairéō non ha il senso punitivo che ha in Ger 49,10, dove indica la distruzione operata dal nemico. Qui l’abbattere per costruire più ampiamente ha un significato più radicale che non avrebbe avuto il semplice ampliamento dei magazzini già esistenti. Si vuole indicare una nuova condizione di vita, superiore alla precedente sotto tutti gli aspetti terreni.
v. 19 «riposati, mangia, bevi, datti alla gioia»: medio imp. presente. I quattro verbi formano un crescendo perfetto:
1. cessare dall’agitarsi (come si fa nel lavoro e nel commercio);
2. mangiare e bere (i piaceri immediati);
3. godersela (sintesi di tutti gli altri piaceri alternativi alla mensa).
La mancanza di congiunzioni (nell’originale) fra i quattro imperativi li costituisce in un unico blocco: il più perfetto ideale terreno. Questo imperativo presente è la conseguenza dei primi tre aoristi: è un godimento personale (il medio) che si svolge in continuità di tempo e di situazioni.
v. 20 - «stolto»: ecco Dio che interviene. Il greco áphrōn è qui addolcito con il meno espressivo e quasi rispettoso "stolto"; ma l’alfa privativo qui indica che il ricco è mancante totalmente di intelligenza: uno scemo per l’appunto!
«ti sarà richiesta la tua vita»: accanto a psychḗ  [qui dunque non si parla solo della vita fisica (bìos) ma di una vita superiore, del principio vitale] nell’originale greco abbiamo un attivo indicativo presente 3a pl. Il futuro (che indica un’azione ancora da iniziare) per un influsso semitico (aramaico) è sostituito dal presente particolarmente nel futuro prossimo. Il presente aggiunge più rapidità ed efficacia al discorso: si tratta di cosa già in atto, che si sta compiendo. Il plurale impersonale indica Dio stesso, il quale non chiama per risentimento, ma per legge naturale: infatti qui non abbiamo il medio, ma l’attivo.
In cosa consiste la "scemaggine" del ricco? Non si tratta solo del fatto che non ha tenuto conto degli insegnamenti dei sapienti (cfr Sal 48 e Sir 11,18s) che avevano affermato l’inutilità delle ricchezze difronte alla morte (cfr ancora I lett.) ma di non aver pensato a ciò che avverrà dopo la morte. Ha pensato a sfruttare le ricchezze solo per la vita presente e non ha visto la possibilità di trarne vantaggio anche per la vita futura (cf 12,33).
v. 21 - «Così accade... chi accumula»: Ecco la conclusione. Il verbo tesaurizzare (sia il greco thēsaurízōn che il latino thesaurizat) ci ricorda che i "beni" per l’uomo sono trasformanti: Dove stà il vostro tesoro ivi stà anche il vostro cuore (Lc 12,34 e Mt 6,21). Ecco la scossa che oggi la Parola ci dà: diventate savi, comprendete le vie della salvezza coinvolgete i poveri nell’opera della comune salvezza.
«chi accumula tesori per sé»: Il contrasto è denso di significato; l'essere ricchi per se stessi è tutt'altra cosa che l’essere ricchi davanti a Dio. La ricchezza davanti a Dio per Luca ha due livelli di significato: il primo è la ricchezza della fede; il secondo è la condivisione dei beni come espressione di fede, il che significa farne partecipi gli altri, anziché accumularli per se stessi (cf 16,9-13).
L’evangelo ci mostra dunque la contrapposizione di due “sapienze”:
I. la prima è una sapienza umana, parziale, che coglie il bene per se stesso; produce “cupidigia”, intesa come idolatria dei beni, come il grande idolo a cui offrire tempo, energia, a cui sacrificare persone e vite.
II. la seconda è una sapienza divina, che gode ogni aspetto della realtà, che lavora, lotta, si impegna, assume le proprie responsabilità nel mondo, nella coscienza che la propria vita appartiene ad un altro. Utilizza la ricchezza come strumento al servizio del Regno, per rendere il mondo un pò più simile al sogno originario di Dio.
Si comprende in questa luce la martellante insistenza di Luca sull’importanza della libertà dai beni come segno dell’appartenenza a Cristo: «Una cosa sola ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli» (18,22, cfr. 19,8).
Nel libro degli Atti proprio il fatto che nessuno tra i “fratelli” era bisognoso, perché «quanti possedevano case o campi li vendevano e portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (4,34-35; cfr. 5,3-4), qualifica la comunità come il luogo dove è possibile iniziare a sperimentare il Regno.
La parabola di Gesù non è dunque contro l’avarizia, la cupidigia, ma riguarda il senso della vita: dove è la nostra sicurezza? Nei soldi che possediamo, nello status sociale, nell’idolo creato dalle nostre mani, o nel Dio vivente?
Gesù invita a chiederci a chi apparteniamo: creati ad «immagine e somiglianza di Dio», come possiamo trovare la nostra realizzazione in qualcosa che non porta il suo nome? (cfr Tributo a Cesare in Lc 20,20-26).
Niente può dare significato alla nostra esistenza se non Lui, se non il vivere nella relazione che ci costituisce. Lontano da Dio, la nostra vita è pura “scemaggine”.
Il testo non riporta la reazione del “fratello” o di “altri” tra la folla, non sappiamo se l’incontro con Gesù ha segnato un cambiamento nella direzione della sua esistenza. Ciò che sappiamo è che Luca lascia il brano aperto così che ognuno di noi possa porsi la medesima domanda: chi è il Signore della nostra esistenza?

Il pensiero della Chiesa
«Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli, così che i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, avendo come guida la giustizia e compagna la carità. Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli, in vista delle diverse e mutevoli circostanze, si deve sempre ottemperare a questa destinazione universale dei beni» (GS 69).

«Conosco la tua tribolazione, la tua povertà, tuttavia sei ricco» (Ap 2,9): così lo Spirito esalta la Chiesa di Smirne. Alla Chiesa di Laodicea, invece, rinfaccia: “Tu dici: ‘Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla ’, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3,17).
Il giudizio dello Spirito — si legge nel Catechismo degli adulti (pagg. 183-184) — riporta in primo piano l’insegnamento della croce. La Chiesa è “ricca “, quando, materialmente povera di risorse, è pronta a ricevere nella fede quelle risorse che provengono dallo Spirito di Cristo, suo Capo e Signore. È in realtà “povera” cioè “infelice, miserabile, cieca e nuda“, quando più che nello Spirito, confida nei mezzi umani di cui dispone.
La Chiesa influisce sul potere, ma ne viene contemporaneamente influenzata, a volte strumentalizzata. E non mancano le voci che denunziano il pericolo che la minaccia.
«Combattiamo contro un persecutore insidioso — scrive sant’Ilario di Poitiers nel IV secolo — un nemico che lusinga... non ferisce la schiena ma carezza il ventre; non confisca i beni per darci la vita, ma arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore».

I Colletta
Mostraci la tua continua benevolenza, o Padre,
e assisti il tuo popolo,
che ti riconosce suo pastore e guida;
rinnova l’opera della tua creazione
e custodisci ciò che hai rinnovato.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...


lunedi 29 luglio 2019
Abbazia Santa Maria di Pulsano

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