MONASTERO DI RUVIANO, COMMENTO QUINDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Il Buon Samaritano (miniatura dal Codex purpureus rossanensis sec. VI) Rossano: Museo diocesano e del Codex |
Dt 30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20; Lc 10, 25-37
La grande attenzione che oggi si deve fare dinanzi a questa pagina dell’evangelista Luca che è al cuore di questa domenica è quella di non ridurla a parola moralistica che dà buoni consigli religiosi e pii invitando a comportamenti solo etici … questa pagina infatti non è questo e se indica una via morale non è cero questo il suo primo scopo.
Il dottore della Legge che chiede a Gesù che cosa deve fare per avere la vita eterna si sente ricondotto da Gesù stesso verso il campo della Santa Scrittura di cui dovrebbe essere esperto; la risposta che dà a Gesù, pure esatta ed unificante (Luca pone sulle labbra di questo personaggio l’unificazione tra amore per Dio ed amore per il prossimo), attende ancora un compimento, un compimento che consiste nell’andare oltre quel “come se stessi”. Gesù conduce pian piano questo dottore della Legge verso questo compimento e lo fa sottolineando quella parola d’amore che Dio ha pronunciato sul suo popolo, una parola, che come oggi ascoltiamo dal passo del Deuteronomio, è stata posta sulle labbra e nel cuore del popolo perche sia fatta, sia fatta diventare vita. La parola dell’amore vuole concretezza e il dottore della Legge lo comprende; ecco, infatti, che il suo domandare, nato insidioso e malizioso (un dottore della Legge si alzò per tentare Gesù, cosi scrive Luca), pare che qui si trasformi in domanda sincera; la risposta a questa domanda è la celebre parabola del Buon Samaritano.
Il dottore chiede a Gesù, in fondo, dove, a chi, donare quell’amore preziosissimo che il cuore della Legge e Gesù, che rifugge dai mille casi e pure dalle rispostine pie e preconfezionate, risponde con il racconto di una storia, una storia precisa ma ampia, tanto ampia da avere il sapore della storia dell’umanità, da avere il sapore della storia della sua stessa vicenda di uomo tra gli uomini. Alcuni Padri, infatti, amano chiamare questa parabola non del Buon Samaritano ma Parabola del Figlio intendendo che in questo racconto è adombrata la vicenda del Figlio di Dio che si accosta compassionevole alle nostre piaghe. Così i Padri ne fecero una straordinaria allegoria per cui ogni elemento della narrazione divenne, nella loro lettura, un simbolo della vicenda della nostra salvezza, fino a parlare della locanda-Chiesa per arrivare ai due denari interpretati in svariati modi …
Senza entrare in questi particolari, quello che mi pare vada custodito è che certamente Gesù sta rispondendo alla domanda del dottore (Chi è il mio prossimo?) con una storia che non fa altro che raccontare il suo modo di agire con l’uomo. Infatti non è un caso che in questa parabola tutti i personaggi abbiano una specificazione che dà loro un nome: i briganti, un sacerdote, un levita, un samaritano, l’albergatore … tutti tranne uno: colui che non fa nulla tranne che lasciarsi amare e servire dal samaritano dopo essere stato vittima di briganti, lui è semplicemente un uomo. Di fronte all’uomo ci si può porre con rapina, con violenza, con indifferenza, col passare oltre oppure con compassione. Un samaritano passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione (in greco esplanchnìste dal verbo splanchìizo) dice Luca, usando un verbo che negli Evangeli è usato per dirci della commozione profonda di Gesù (cfr Mc 6,34; Lc 7,13); è il verbo della commozione della donna-madre dinanzi al dolore del proprio figlio, dinanzi al pianto del proprio figlio … è commozione viscerale, è dolore che parte dall’ “utero” dove quel figlio si è formato. Il verbo greco che Luca usa è lo stesso che traduce, nell’Antica Alleanza, il verbo ebraico che i profeti usano per dire che il Signore si commuove per il suo popolo (cfr Os 11,8). Questo verbo dunque tradisce l’identità del samaritano: adombra Gesù stesso, Gesù che si è accostato all’uomo ferito, abbandonato a se stesso, preda della violenza e della morte.
Capiamo così che la parabola è rivelativa; è necessario dunque leggerla non sul piano morale che resta sullo sfondo come conseguenza di quell’evento d’amore che è il Figlio di Dio venuto a cercarci sulle nostre strade di deserto e di morte.
La parabola ci invita a cambiare le prospettive delle nostre domande a Dio, domande sempre sul piano moraleggiante, sempre con lo scopo di farci rassicurare sulle cose da fare.
Chi è il mio prossimo?, aveva chiesto il dottore intendendo chiedere Chi devo amare?; la risposta di Gesù è una risposta assolutamente capovolgente: Il tuo prossimo è chi ha compassione di te! E’ una risposta sconvolgente: non bisogna cercare tanto a favore di chi agire e a chi dispensare la propria generosità, quanto è necessario farsi trovare da Colui che ha compassione di noi. Se non ci lasciamo trovare da Gesù, che è venuto a cercarci nella nostra povertà ferita e malata di morte, non potremo essere capaci di misericordia vera. Se non ci lasciamo afferrare da Lui che vuole farsi carico di noi, la nostra sarà sempre una parodia di misericordia, una parodia di amore per il prossimo. Una parodia perché il grande rischio è che i nostri siano gesti ed atti egoistici paludati da amore, gesti protesi a volersi sentire buoni e giusti. Questo non accade invece quando mi lascio trovare da Gesù, quando gli so mostrare le mie ferite, le mie solitudini senza speranza, le mie impotenze … allora dovrò abbandonare ogni autosufficienza, ogni pretesa di attività e dovrò lasciarmi vedere, amare, curare, caricare, affidare da Gesù. Riconoscendo in primo luogo che Gesù si è fatto a me prossimo fisserò lo sguardo su di Lui e sulla sua gratuità ad ogni costo … allora capirò che amare il prossimo come me stesso chiede un oltre, chiede un compimento: contemplando Colui che si è fatto buon samaritano per me capirò che l’amore parte dall’amare il prossimo come me stesso ma deve compiersi in un amare il prossimo più di me stesso, in un amore fino all’estremo.
Un amore così solo Gesù ce lo può dire e donare.
Il racconto allora è chiaramente rivelativo perché ci conduce alla contemplazione di Gesù, il Figlio di Dio nella nostra carne in cui, come dice l’autore della Lettera ai cristiani di Colosse di cui oggi leggiamo un tratto del primo capitolo, abita ogni pienezza e che ha riconciliato il mondo con il sangue della sua croce; ha amato con il suo sangue, nel suo sangue.
La via della vita eterna di cui il dottore della Legge chiede all’inizio del suo incontro con Gesù, passa per l’amore di Gesù; è il lasciarsi amare nella verità per camminare, pur se con fatica, verso un amore nella verità, un amore che non abbia paura di amare il prossimo più di se stesso. Questa è la via di Gesù.
P. Fabrizio Cristarella Orestano
Fonte:http://www.monasterodiruviano.it/
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