MONASTERO MARANGO, "A quale ricco guardiamo? "

A quale ricco guardiamo?

Briciole dalla mensa - 18° Domenica del Tempo Ordinario  (anno C) - 4 agosto 2019

LETTURE Qo 1,2;2,21-23   Sal 89   Col 3,1-5.9-11   Lc 12,13-21



COMMENTO

Pleonexìa: è la parola forte delle Letture di questa domenica. La usa Gesù per denunciare l'assurdità di chi ha tanta fiducia nelle proprie ricchezze da credere che queste gli assicurino il futuro eterno. La usa Paolo (nella seconda Lettura), alla fine e al culmine di un elenco di ciò che «appartiene alla terra», e dice che, in particolare, questo termine «è idolatria». In italiano, la parola greca viene tradotta con «cupidigia», vocabolo che ormai noi non usiamo più. Letteralmente è la brama ad «avere» (exìa) sempre «di più» (pléon). Non basta mai quello che si possiede e quello che si compra. Quindi non è solo il vizio del ricco o di chi ha passato una vita ad accaparrare, perché non consiste tanto nel voler «molto», ma, piuttosto, nel volere sempre «di più». Ma il campo che fornisce l'alimento dove far valere questa propria insaziabilità sono soprattutto le ricchezze.

Sorprende come la messa in guardia, da parte di Gesù, sulla sete di guadagno prende spunto dalla normale richiesta di un uomo: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità». Di per sé si tratta di una semplice e plausibile domanda di giustizia. Il fatto è che quest'uomo pretende un tale intervento da Gesù, che lui invoca come «Maestro»; quindi gli riconosce un'autorità religiosa: per quest’uomo, Gesù è uno che parla e insegna in nome di Dio. Ricorrere a Dio, mettere al primo posto del proprio rapporto con Lui la propria istanza riguardo ai beni materiali che spettano, è il segno della brama ad avere di più. Dio non può essere ridotto e strumentalizzato alla mia parte di eredità (che pur giustamente mi spetta). Vorrebbe dire confondere Dio con le proprietà che uno possiede.
Una delle cause dell'allontanamento delle persone dalla Chiesa è proprio l'atteggiamento di chi pretende come assoluto ciò che pensa  gli spetti. Si nota anche in certuni che frequentano la parrocchia, e pretendono servizi ecclesiali come e quando va bene a loro. La religione è posta a servizio dei propri desideri e bisogni. Più in generale, un «io» che assolutizza ciò che gli spetta finisce per rendere ingiusta la giustizia, ed elimina Dio e i fratelli dall'orizzonte della propria vita.

Per questo, Gesù racconta subito dopo la parabola di un uomo a cui la sorte materiale è andata tanto bene da non saper più nemmeno dove mettere i suoi beni. Perciò si propone di allargare le sue capienze e poi di godersi la vita, facendola durare in proporzione della ricchezza che ha acquisito. Più beni ho, più mi sono assicurato il futuro: «molti beni, per molti anni».
«Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita». Il Signore non minaccia la morte: rivela che la ricchezza non elimina la precarietà della vita. L'arroganza, la pretesa di valere, il senso di superiorità devastano il vivere della nostra società: sono un modo per farsi grandi, nella superficialità e nella inconsistenza, come quelle di chi, essendo ricco, pretende di essere anche ricco di giorni di vita. Nella morte, le ricchezze non possono garantire nulla: fanno passare dalla illusione alla più grande delusione.
Gesù arriva a sbeffeggiare la superba pretesa del ricco: «E quello che hai preparato di chi sarà?». Avere sempre di più dava la sicurezza al ricco di avere sempre più vita. In realtà, il vedere come le ricchezze abbandonano il ricco al momento della morte irride chi le aveva messe al posto di Dio. Perché solo Dio è datore di vita. L'uomo che si è riempito di una sovrabbondanza di beni, in realtà, non «è ricco presso Dio». Perché il rapporto con Dio va in senso posto: «Non c'è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che Lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano» (Rm 10,12). A quale ricco guardiamo: all'uomo che accumula o a Dio che dona? Le ricchezze non fanno ricchi davanti a Dio: è Lui che è sempre sovrabbondantemente e gratuitamente ricco verso di noi uomini.
Invece, le ricchezze che uno possiede devono andare verso gli altri. Infatti, colpisce, nella parabola, come il ricco parli solo con se stesso e ascolti solo se stesso: «Egli ragionava tra sé... Poi dirò a me stesso...». È totalmente solo. Invece, l'insegnamento di Gesù e la vita delle prime comunità cristiane rivelano che l'unico senso positivo delle ricchezze sta nella loro condivisione con gli altri uomini. I primi cristiani erano noti a tutti proprio per questo: per una comunione di vita profonda e concreta. Non si pretende che i ricchi diventino poveri, ma che non ci siano poveri in mezzo alla comunità dei credenti in Gesù. Tutto è basato sulla generosità, la disponibilità, la solidarietà e la condivisione. Se pensiamo al mondo di oggi - nel quale la stragrande massa di beni è in mano a pochi ricchi, mentre milioni di persone non hanno nulla nemmeno per sopravvivere - si comprende come nell'uomo moderno sia assente la fede: ma non perché non si va più in Chiesa, ma perché non si pratica la solidarietà con i poveri.

Alberto Vianello

Fonte:https://www.monasteromarango.it/


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