Battista Borsato, "L’indifferenza e’ il vero peccato"
XXVI° DOMENICA del T. O.
L’indifferenza e’ il vero peccato
(Lc 16,19-31)
Questa parabola contiene una forza contestativa della società al tempo di Gesù, ma ancora di più, a mio avviso, ha un messaggio dirompente ed esplosivo anche per il nostro tempo nel quale le disuguaglianze sociali ed economiche hanno dello scandaloso. Ricordo che il profetico Vescovo Helder Camara diceva: “Quando questa parabola non sarà più letta in latino ma in lingua volgare (per noi l’italiano) non solo dovrà creare delle inquietudini nelle coscienze dei cristiani, ma nel modo stesso di essere e di fare Chiesa”.
Luca è l’evangelista più sensibile ai problemi della povertà e dei poveri ed è colui che invita a togliere lo squilibrio tra ricchi e poveri.
Soffermiamoci su alcune principali espressioni.
“C’era un uomo ricco che indossava vestiti di porpora …si dava a lauti banchetti”. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta coperto di piaghe…”. Il ricco non ha un nome. Non è degno di essere nominato perché pensa solo a sé e alla sua vita di piacere e di ricchezza. Chi si comporta così diventa anonimo davanti a Dio, cioè Dio non è dalla sua parte e non è dalla sua parte, non tanto perché è ricco, ma perché non fa nulla per Lazzaro; il suo peccato è l’indifferenza. Lazzaro è vicino, ma il ricco non lo vede, perché vede solo se stesso, il suo interesse, la sua soddisfazione. Anche nel nostro tempo ci sono tanti Lazzaro alle porte del nostro benessere che possono essere i disoccupati, i profughi, quelli con difficoltà di lavoro: sono i “crocifissi” della storia. E alcuni di noi si sbracciano per appendere i crocifissi di legno nelle aule scolastiche e non difendono i crocifissi della vita che sono in cerca di pane e libertà.
L’intento dell’evangelista è ricordare che nella storia c’è stato almeno uno che ha preso le difese di Lazzaro e dei poveri. Quest’uno è certamente Gesù e vorrebbe che i suoi discepoli facessero altrettanto.
Il fatto, invece, che il povero abbia un nome, è indicativo che Dio è dalla sua parte. Lazzaro era anche il nome dell’amico di Gesù, fratello di Marta e Maria, quasi a dire che ogni povero è amico di Gesù, e ogni povero dovrebbe essere per ciascuno di noi un amico.
“Il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto...”
Si dice che gli angeli portano Lazzaro accanto ad Abramo. Gli angeli sono un linguaggio per dire Dio. Dio si prende cura del povero. Abramo è il capostipite del popolo ebraico. Questo significa che Lazzaro era un credente, uno che faceva parte del popolo ebraico. Era amato da Dio perché credente o perché povero? Dio non guarda la fede, guarda la vita, e quando uno ha una vita dura fatta di sofferenze è oggetto dell’amore divino. Il prendersi cura delle sofferenze dell’altro è il modo di vivere la fede. Oggi si comincia a intuire che il vero cristianesimo non è religioso, perché non si identifica con i riti e le preghiere, ma deve esprimersi nel modo di vivere e nelle scelte di vita. Non è escluso che Lazzaro fosse un credente, ma non era questo il motivo della benevolenza divina, il motivo stava nel fatto che era povero e oppresso.
“Stando negli inferi tra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui”.
La parabola riporta la condanna del ricco. Perché è stato condannato? Egli non ha trasgredito a nessuno dei comandamenti: non si dice che fosse un ladro o adultero o omicida o non assolvesse agli obblighi religiosi. È stato condannato perché non ha condiviso i suoi beni con Lazzaro, cioè con i poveri.
Per Luca, i beni che Dio ha dato non sono solo per alcuni ma per tutti gli uomini: essi sono di Dio e non è lecita alcuna appropriazione.
Il peccato vero è non pensare agli altri, non prendersi cura di loro. Se ci confrontiamo solo con i dieci comandamenti ci può sembrare di avere la coscienza tranquilla: non abbiamo rubato, non abbiamo ucciso, non siamo stati adulteri. I “comandamenti” rimangono di sicuro una pietra miliare nella storia dell’umanità, e nella formazione della nostra coscienza, in quanto invitano a non fare del male al prossimo, ma Gesù li supera, non eliminandoli, piuttosto dichiarandoli insufficienti. Afferma che il cristiano non è tanto uno che non uccide, ma uno che fa vivere; non è tanto uno che non ruba, ma uno che condivide i suoi beni con gli altri. Chi non aiuta a vivere, non può ritenersi a posto: il ricco Epulone non ha derubato il povero Lazzaro, né può essere definito assassino di Lazzaro, certamente non lo ha aiutato a vivere. Il peccato sta nel non interessarsi ai problemi degli altri, nel non essere solidali con le speranze e le sofferenze dell’uomo.
Questa parabola ci induce a riscoprire la laicità della fede. “Laicità” è quasi in contrasto con “religiosità”. Anche Gesù, più che uomo “religioso”, è un uomo che vive per gli altri. Non è ligio alle espressioni rituali della religione, certamente avrà frequentato la sinagoga, ma il Vangelo, più che registrare la sua presenza alle cerimonie liturgiche e alle attività cultuali, ne riporta l’impegno a stare con gli uomini, a liberarli dai condizionamenti, a renderli sempre più persone. In questo senso, il suo è un impegno laico, “esistenziale”: è con la vita che dà culto al Padre. E quando incontra o guarisce la gente non invita mai, prima di tutto, ad andare in sinagoga o a rispettare il sabato, ma spinge i suoi interlocutori a cambiar vita, a non attaccarsi al denaro, ad amare. Forse, anche il ricco Epulone frequentava la sinagoga e osservava la legge, ma non per questo era bene accetto a Dio. Dio ci accoglie solo se, come dice Isaia, “si sciolgono le catene inique, si introducono in casa i miseri senza tetto, si veste chi è nudo”. (Is 58, 6-7).
Due piccoli impegni:
- Più che pensare ai crocifissi di legno, vedere i crocifissi della vita.
- La fede si manifesta nel prendersi cura dei poveri.
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