fr. Massimo Rossi, Commento XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)

Commento su Luca 17,11-19
fr. Massimo Rossi 
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (13/10/2019)


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Il Vangelo della scorsa domenica ci ricordava che il bene fatto da noi rientra nei doveri ordinari del cristiano e non merita, dunque, particolari attestazioni di merito.

Oggi la Parola del Signore sottolinea che rendere gloria a Dio per il bene ricevuto, anche questo è un dovere, un dovere normale, un dovere ordinario. Per il solo fatto che il bene ricevuto viene da Dio, dobbiamo ringraziarlo! Non a caso, il dono più grande che Dio ci ha fatto si chiama Eucaristia, letteralmente, rendimento di grazie, ringraziamento.

La gratitudine è “l'altro modo” di guardare al bene, alternativo all'apprezzamento del beneficio ricevuto, che “trattiene” per così dire l'attenzione su di sé. Il senso di gratitudine sposta lo sguardo su colui che ha compiuto il bene.

Secondo il Vangelo, ricevere gratitudine non può essere una pretesa, perché la gratitudine non è un diritto; al contrario, manifestare gratitudine non è solo un segno di educazione - uno dei primi che ci vengono insegnati, quando, da bambini, la mamma ripete: “Cosa si dice? si dice GRAZIE!” -; ma è (un atto) marcatamente cristiano, specie quando è reso a Dio.

Ritorna la provocazione del Signore: portare un samaritano come esempio di perfezione cristiana; in verità, la vicenda ha più di una relazione con la famosa parabola del buon samaritano, proprio sul tema della gratitudine: è fortemente probabile che il malcapitato incappato nei ladri, non abbia avuto la possibilità di ringraziare il suo benefattore sconosciuto, partito, sembra, quando il poveretto era ancora fuori conoscenza...

Tornando al Vangelo di oggi, sappiamo che la lebbra era una malattia infamante, forse la peggiore disgrazia che poteva capitare ad un'israelita: secondo la Legge di Mosè, chi era stato colpito dal morbo, era dichiarato socialmente morto; nel senso che doveva abbandonare la famiglia, non poteva partecipare alla vita pubblica; non gli era neppure consentito di celebrare la fede, partecipando alla liturgia nel Tempio, o in sinagoga. Era condannato a vivere lontano dal centro abitato; in caso avesse dovuto entrare in città, o in un villaggio, doveva avvertire, agitando una campanello, e urlando “immondo, immondo!”, affinché la gente potesse allontanarsi, tutelandosi dal rischio di contagio.

Il segno compiuto da Gesù aveva dunque un valore assai più che straordinario, paragonabile addirittura alla risurrezione di un morto. E dal momento che ai suoi tempi, di lebbra non si poteva guarire - oggi il virus non è ancora stato definitivamente debellato! -, la prescrizione di presentarsi al sacerdote per pagare l'imposta prescritta in caso di guarigione, costituiva la prova evidente di grazia ricevuta.

...E questo accresceva assai il dovere di tornare indietro a ringraziare; peccato; contrariamente al samaritano, quei nove israeliti persero (forse) l'unica chance per diventare credenti, cioè per allacciare con il Signore un legame che non si sarebbe più sciolto...

In fondo, che cos'è un miracolo in confronto alla vita intera? Perché in questo caso è l'intera esistenza ad essere chiamata in questione! vivere il resto dei giorni alla luce della fede, oppure andarsene per la propria strada, lasciando che tutto ritorni, in un certo senso, come prima...

Il miracolo, un dono enorme, certo, rimane così fine a se stesso, non condiziona il comportamento del beneficiario, né a livello di fede, tantomeno (a livello) di rapporti sociali. Egoismo puro!


La conclusione del Vangelo con le parole del Signore: “Alzati e va': la tua fede ti ha salvato!”, ci insegna che un miracolo è sempre funzionale alla conversione: o attiva la fede e dunque il servizio di Dio, oppure, ripeto, rivela soltanto egoismo e ingratitudine, offese gravi verso Dio e verso il prossimo.

Del resto, non è la prima volta che incontriamo nel Vangelo situazioni in cui un uomo riceve un favore straordinario, e soprattutto immeritato, ma poi si comporta in modo del tutto contrario con un suo simile (cfr. Mt 18,23-35).

Ebbene sì: fine di ogni miracolo è la carità, che si deve manifestare nelle sue due coordinate: verso Dio e verso gli altri.

La salvezza non è valutabile nei termini di un miracolo ricevuto, bensì (nei termini) della vita che segue... Non diamo per scontato che il comportamento degli uomini non sia determinante in ordine alla salvezza eterna... tanto, la misericordia di Dio è grande.

La misericordia di Dio non è un paracadute che ci preserva dalle cadute, e neppure una coperta calda che ci ripara comunque dalle conseguenze dei nostri errori. Questo va detto - e non lo si dirà mai abbastanza! - onde evitare spiacevoli equivoci e ancor più spiacevoli sorprese.

E proprio a proposito di sorprese, i Vangeli sono particolarmente chiari in fatto di responsabilità dell'uomo nell'edificazione della propria salvezza. A questo servono le facoltà superiori che il buon Dio ci ha dato: per collaborare in modo sostanziale a costruire la famosa casa sulla roccia, la quale reggerà alle intemperie e alle disavventure della vita, e, ultima, (reggerà) alla morte.

Fonte:https://www.qumran2.net

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