Mons. Francesco Follo, LECTIO Accogliere il Figlio di Dio come ha fatto San Giuseppe, il Custode del Redentore e “vicario” del Padre celeste.

Accogliere il Figlio di Dio come ha fatto San Giuseppe, il Custode del Redentore e “vicario” del Padre celeste.
Rito Romano
4ª Domenica di Avvento -  Anno A – 22 dicembre 2019
Is 7,10-14; Sal 23; Rm 1,1-7; Mt 1,18-24
Rito Ambrosiano
6ª Domenica di Avvento – Domenica dell’Incarnazione o della Divina Maternità della Beata Vergine Maria
Is 62,10-63,3b; Sal 71; Fil 4,4-9; Lc 1,26-38a


1) Accogliere Cristo come ha fatto San Giuseppe.
Solo due giorni separano questa quarta Domenica di Avvento dal Natale. Dopodomani notte ci raccoglieremo per celebrare il grande mistero dell'amore infinito, che non finisce mai di stupirci: Dio si è fatto Figlio dell'uomo perché noi diventiamo figli di Dio.
Per aiutarci a ben accogliere il Messia, la Liturgia di oggi ci propone l'esempio di San Giuseppe. Come lui  dobbiamo accogliere il Dio fatto uomo che giunge a noi come dono fatto in Maria, la Vergine Madre. Come Giuseppe, noi dobbiamo "semplicemente" accoglierlo.
Raccontandoci i fatti che precedettero la nascita di Gesù, il vangelo di oggi aiuta ad imparare questo "come" messo in atto da Giuseppe per accogliere il dono di Dio e viverlo come vocazione e non come problema
Nel suo racconto l'evangelista Matteo non spiega quali fossero i pensieri di San Giuseppe, ma ci dice l’essenziale sul  Custode del Redentore. Questo Santo del silenzio (i vangeli non registrano nessuna sua parola e davanti al fatto stupefacente della maternità di Maria, non denuncia la sua sposa di infedeltà. Tace perché crede nella sua innocente purezza) cerca di fare la volontà di Dio ed è pronto alla rinuncia radicale di non prendere in casa sua la sua legittima sposa, che aveva affascinato la sua mente ed il suo cuore. Infatti, invece di far valere i propri diritti di sposo, Giuseppe sceglie una soluzione che per lui rappresenta un sacrificio enorme . E il vangelo dice: "Poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto" (Mt. 1,19).
 Questa breve frase riassume un vero e proprio dramma interiore, se pensiamo all’amore che Giuseppe aveva per Maria. Ma anche in una tale circostanza, Giuseppe intende fare la volontà di Dio e decide, sicuramente con gran dolore, di mandare via Maria di nascosto. Questo versetto va meditato con profonda attenzione, per capire quale sia stata la prova che Giuseppe ha dovuto sostenere nei giorni che hanno preceduto la nascita di Gesù. Una prova simile a quella del sacrificio di Abramo, quando Dio gli chiese il figlio Isacco (cfr  Gen 22): rinunciare alla cosa più preziosa, alla persona più amata.
Ma, come nel caso di Abramo, il Signore interviene: ha trovato la fede che cercava e apre una via diversa, una via di amore e di felicità: "Giuseppe – gli dice – non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo" (Mt 1,20).
Il brano evangelico di questa Domenica  ci mostra tutta la grandezza d’animo di san Giuseppe. Egli stava seguendo un buon progetto di vita, ma Dio riservava per lui un altro disegno, una missione più grande. Giuseppe era un uomo che dava sempre ascolto alla voce di Dio, profondamente sensibile al suo segreto volere, un uomo attento ai messaggi che gli giungevano dal profondo del cuore e dall’Alto. Non si è ostinato a perseguire quel suo progetto di vita, non ha permesso che il rancore gli avvelenasse l’animo, ma è stato pronto a mettersi a disposizione della novità che, in modo sconcertante, gli veniva presentata. E’ così, era un uomo buono. Non odiava, e non ha permesso che il rancore gli avvelenasse l’animo. Ma quante volte a noi l’odio, l’antipatia pure, il rancore ci avvelenano l’anima! E questo fa male.
Non permetterlo mai: lui è un esempio di questo. E così, Giuseppe è diventato ancora più libero e grande. Accettandosi secondo il disegno del Signore, Giuseppe trova pienamente se stesso, al di là di sé. Questa sua libertà di rinunciare a ciò che è suo, al possesso sulla propria esistenza, e questa sua piena disponibilità interiore alla volontà di Dio, ci interpellano e ci mostrano la via. Come San Giuseppe, accogliamo Cristo, vangelo vivente, facciamo esperienza del fatto che il Vangelo non distrugge niente. Il Vangelo non lascia fuori nessuna realtà, consacra tutto, rivela tutto, compie tutto, dà alla vita una dimensione infinita, meravigliosa e lieta.
In questa domenica prepariamoci ad accogliere Gesù bambino come ha fatto San Giuseppe. Il premio che lui ricevette fu l'amore di Maria e di Gesù, divenendo il suo padre putativo (sarebbe meglio dire: legale) e il vicario in terra del Padre celeste.
Però, teniamo uniti  Maria e Giuseppe. Dunque con un unico sguardo contempliamo la Vergine Madre, la donna piena di grazia che ha avuto il coraggio di affidarsi totalmente alla Parola di Dio, e Giuseppe, l’uomo fedele e giusto che ha preferito credere al Signore invece di ascoltare le voci del dubbio e dell’orgoglio umano. Con loro, camminiamo insieme verso il presepe, con loro costruiamo il presepe per deporvi Cristo, Dono di Dio, Verità che salva la nostra vita.



2) L’Angelo portò l’annuncio a Giuseppe.
Il Vangelo di questa domenica ci parla dell’annuncio a Giuseppe, padre legale di Gesù, che nasce perché anche questo artigiano di Nazareth ha detto di sì e ha dato una dimora sicura dove il Verbo di Amore incarnato potesse essere l’Emmanuele. C’è una stretta relazione tra l’Annuncio a Maria e quello a Giuseppe. Apparendo in sogno a questo uomo giusto, l’Angelo lo introduce nel mistero della maternità verginale di Maria: questa giovane donna, che secondo la legge è sua “sposa”, è diventata madre in virtù dello Spirito Santo rimanendo vergine.
L’Angelo si rivolge a Giuseppe come allo «sposo di Maria», a colui che a suo tempo dovrà imporre il nome di “Gesù” al Figlio che nascerà dalla Vergine di Nazareth a lui sposata. Si rivolge, dunque, a Giuseppe affidandogli i compiti di un padre terreno nei riguardi del Figlio di Maria: “Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù1; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,20-21).
La risposta del santo Falegname di Nazareth all’Angelo non fu data con delle parole, ma con l’obbedienza fattiva: “Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sè la sua sposa” (Mt 1,24), e dunque ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all'educazione di Gesù Cristo (cfr. S. Ireneo, Adversus haereses, IV, 23, 1: S. Ch. 100/2, 692-694). Non risulta che Gesù abbia seguito scuole particolari, ma ha avuto, oltre Maria, tre maestri, più grandi di quelli diplomati: Giuseppe lavoratore, la Natura e la Sacra Scrittura.
Non va dimenticato che Gesù fu un lavoratore e figlio legale di un lavoratore. Non va dimenticato che Gesù nacque povero e visse tra gente che lavorava con le proprie mani, che guadagnava il suo pane con l’opera delle mani. Mani che benedissero i bambini, i poveri, assolsero i peccatori, guarirono i malati. Mani che prima di essere bagnate dal sangue suo versato per noi, furono bagnate di sudore e che sentirono l’indolenzimento della fatica. Mani che sapevano quanta forza ci vuole per conficcare i chiodi. Mani che “sono il paesaggio del Cuore” (B. Giovanni Paolo II).
Non va dimenticata la Natura, che ci insegna Dio mostrando il suo splendore. Se studiamo il libro della Natura, percepiamo in essa l’impronta di Dio e la nostra preghiera si fa contemplazione del Creatore e diciamo: “Benedetto sei tu, Signore, nel firmamento, degno di lode e di gloria nei secoli” (Dn 3,56). Con questa preghiera il cristiano esprime la sua gratitudine non solo per il dono della creazione, ma anche perché si percepisce come destinatario della paterna premura di Dio, che in Cristo lo ha elevato alla dignità di figlio. Un premura paterna che fa guardare con occhi nuovi allo stesso creato e ne fa gustare la bellezza, nella quale intravede, come in filigrana, l’amore di Dio.
Non va dimenticata la Sacra Scrittura, che per Gesù fu evidente alimento per cui rispose al diavolo che lo tentava: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. La Parola di Dio si intreccia con l’Eucaristia, come scrive Origene: “Noi leggiamo le Sante Scritture. Io penso che il Vangelo è il Corpo di Cristo; io penso che le sante Scritture sono il suo insegnamento. E quando egli dice: “Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue” (Gv 6,53) benché queste parole si debbano intendere anche del Mistero eucaristico, tuttavia il corpo di Cristo e il sangue di Cristo è veramente la parola della Scrittura, è l’insegnamento di Dio. Quando ci rechiamo al Mistero eucaristico, se ne cade una briciola, ci sentiamo perduti,. E quando stiamo ascoltando la Parola di Dio, e ci viene versata nelle orecchie la Parola di Dio e la carne di Cristo e il suo sangue e noi pensiamo ad altro, in quale grande pericolo incappiamo”2.

3) L’Emmanuele è un miracolo di obbedienza.
Di fronte al prodigio della concezione verginale, San Matteo mette in rilievo le parole della profezia di Isaia e l'obbedienza di Giuseppe, uomo giusto. 
Il testo di Isaia 7,14 nel suo contesto originale si riferiva alla nascita del figlio del re Acaz, un segno che la sua casata avrebbe avuto un futuro.
L'evangelista lo utilizza per indicare in primo luogo la verginità3 di Maria. 
In secondo luogo il testo gli fornisce il nome Emmanuele, Dio con noi, che riafferma l'identità di Figlio di Dio e introduce l'idea della presenza costante di Gesù presso i suoi che verrà esplicitata dal Risorto al momento dell'ascesa al cielo (vedi Mt 28,20). L’apostolo Paolo dirà più tardi: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”(Rm 8,32s). 

Grazie all’obbedienza di fede di Giuseppe e di Maria, grazie alla loro accoglienza della parola che Dio ha rivolto loro attraverso il Suo Angelo, essi accolsero in casa l’Emmanuele, il Dio con noi. Giuseppe come Maria si aprì al dono di Dio perché Dio potesse fare nascere nella storia la salvezza promessa. Giuseppe prese con sé Maria, la sua sposa, e insieme a lei la missione di dare carne alla Parola di Dio. 
Il brano evangelico si conclude in realtà con il v. 25 dove San Matteo afferma: “Senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù”. 
In Giuseppe abbiamo l'esempio dell'uomo di fede che ascolta e mette in pratica la Parola di Dio (cfr. Mt 7,24) e che accogliendola entra a far parte della famiglia di divina, come ci assicura Giovanni: “A quanti l'hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).
Le Vergini consacrate sull’esempio di Maria, accolgono la Parola di Dio, obbedendo con amore verginale. In un mondo, almeno quello cristiano in cui la castità viene ammirata anche se non sempre capita, in un mondo dove l’obbedienza viene disprezzata, queste donne sono chiamate a mostrare che l’obbedienza è dire di sì a Dio come ha fatto Giuseppe, come ha fatto Maria. La loro è un’obbedienza sponsale e un gesto di libertà. L’obbedienza è adeguata all’amore di Cristo, che non ci dona qualcosa, ma se stesso, come Sposo della Chiesa.
L’obbedienza conviene all’Amore, perché è condivisione dell’indivisibile, partecipazione creata alla perfezione di Dio, dismisura di Dio nelle misure dell’uomo. La vocazione obbediente delle Vergini Consacrate è la prontezza ad accogliere l’agire di Dio, che è amato sopra ogni cosa e persona.
L’obbedienza è la risposta della persona consacrata che, in contatto orante con la Parola incarnata, scopre la volontà particolare di Dio sulla sua vita, la ratifica e fa esperienza che “in sua volontà è nostra pace” (Dante Alighieri).

1 “Gesù” era un nome conosciuto tra gli Israeliti ed a volte veniva dato ai figli. In questo caso, però, si tratta del Figlio che - secondo la promessa divina - adempirà in pieno il significato di questo nome: Gesù - Yehossua', che significa: Dio salva.

2 Origene, Omelie sul libro dei Salmi, 74.

3 San Matteo si serve della traduzione dei LXX che utilizzano parthénos (vergine) per indicare il termine ebraico ‘alma che significa giovane donna.


Lettura Patristica

Propongo una parte di un Sermone di Sant’Agostino dove si spiega bene come Maria, così Giuseppe è chiamato ad accogliere un sorprendente piano divino. Egli si fa obbediente a ciò che è frutto dello Spirito e, proprio in forza di questa sua obbedienza, diviene collaboratore di Dio nella storia della salvezza. Egli sarà il padre legale di Gesù; ma il fatto di non aver partecipato al suo concepimento, non gli attribuirà tuttavia una paternità “di minor grado”. Agostino insiste a chiare lettere: Giuseppe è padre non per virtù della carne, ma della carità.

Dai "Discorsi" di Sant’Agostino d’Ippona
Serm. 51, 16.26; 20.30 – PL 38, 338
La vera paternità di Giuseppe
“La dignità verginale ebbe origine dalla Madre del Signore, quando cioè nacque il re di tutti i popoli; fu lei a meritare non solo d’avere il figlio ma anche di non soggiacere alla corruzione. Come dunque quello era vero matrimonio e matrimonio senza corruzione, così quel che la moglie partorì castamente, perché il marito non avrebbe dovuto accoglierlo castamente? Come infatti era casta la moglie, così era casto il marito; e come era casta la madre, così era casto il padre. Colui dunque che dice: "Giuseppe non doveva essere chiamato padre, perché non aveva generato il figlio", nel procreare i figli cerca la libidine, non l’affetto ispirato dalla carità. Giuseppe con l’animo compiva meglio ciò che altri desidera compiere con la carne. Così, per esempio, anche coloro che adottano dei figli, non li generano forse col cuore più castamente, non potendoli generare carnalmente? Vedete, fratelli, i diritti dell’adozione, per cui un uomo diventa figlio di uno dal quale non è nato, in modo che ha maggior diritto nei suoi riguardi la volontà dell’adottante che non la natura del generante.
Allo stesso modo che è casto marito, così [Giuseppe] è pure casto padre. Ciò che lo Spirito Santo effettuò, lo effettuò per ambedue. È detto: Essendo un uomo giusto (Mt 1, 19). Giusto dunque l’uomo, giusta la donna. Lo Spirito Santo, che riposava nella giustizia di ambedue, diede un figlio ad entrambi. (…) L’Evangelista dice anche: E gli partorì un figlio (Lc 2, 7), parole con cui senza dubbio si afferma che Giuseppe è padre non per virtù della carne, ma della carità. Così dunque egli è padre e lo è realmente. (…) E perché è padre? Perché tanto più sicuramente padre, quanto più castamente padre. In realtà si credeva ch’egli fosse padre di nostro Signore Gesù Cristo in modo diverso; lo fosse cioè come tutti gli altri padri che generano carnalmente, non come quelli che accolgono i figli con il solo affetto spirituale. Difatti anche Luca dice: Era opinione comune che Giuseppe fosse il padre di Gesù (Lc 3, 23). Perché era opinione comune? Perché l’opinione e il giudizio della gente era portato verso ciò che di solito fanno gli uomini. Il Signore dunque non è discendente di Giuseppe per via carnale, sebbene fosse ritenuto tale. Tuttavia alla pietà e alla carità di Giuseppe nacque dalla vergine Maria un figlio, e proprio il Figlio di Dio.

Pubblicato da Francesco Follo a 14:15 Nessun commento:
Invia tramite email
Postalo sul blog
Condividi su Twitter
Condividi su Facebook
Condividi su Pinterest
VENERDÌ 13 DICEMBRE 2019
La vera gioia non nasce dall'avere delle cose ma dall'incontro con Cristo che viene con amore.
Rito Romano
3ª Domenica di Avvento  –  Anno A –  Domenica “Gaudete”, 15 dicembre 2019
Is 35,1-6.8.10; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11
La domenica della Gioia
Rito Ambrosiano
5ª Domenica di Avvento
MI 5,1. Ml 3,1-5a.6-7b; Gal 3,23-28; Gv 1,6-8.15-18
Giovanni Battista, il Testimone della Verità e dell’Amore.

1) La gioia di un incontro vicino.
In questa terza domenica, detta anche domenica della Gioia e della speranza per l'imminente venuta del Redentore, la liturgia ci invita a rallegrarci, perché le profezie si stanno avverando: il Messia che sta per nascere è veramente il Figlio di Dio annunciato. Il Natale è vicino e Cristo, sorgente di amore e di gioia, nasce per salvarci e farci vivere nella verità, nell'amore e nella pace.
Il "vangelo", cioè "buona e lieta notizia", è un annuncio di gioia per tutto il popolo; la Chiesa non è un rifugio per gente triste, la Chiesa è la casa della gioia perché è la casa della carità. E anche coloro che sono tristi trovano in essa la gioia, la vera gioia, la gioia di essere amati.
Scrive papa Francesco nell'Evangelii Gaudium: "La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall'isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia.
Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l'entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita".
Certo, quella del Vangelo non è una gioia qualsiasi. La gioia del vangelo trova la sua ragione nel sapersi accolti e amati da Dio. Come ci ricorda oggi il profeta Isaia, Dio è colui che viene a salvarci, e presta soccorso specialmente agli smarriti di cuore. La sua venuta in mezzo a noi irrobustisce, rende saldi, dona coraggio, fa esultare e fiorire il deserto e la steppa, cioè la nostra vita quando diventa arida. E questa gioia vera rimane anche nella prova, perché non è una gioia superficiale, ma scende nel profondo della persona che si affida a Dio e confida in Lui. La vera gioia non viene dalle cose, dall’avere, no! Nasce dall’incontro, dalla relazione con gli altri, nasce dal sentirsi accettati, compresi, amati e dall’accettare, dal comprendere e dall’amare; e questo non per l’interesse di un momento, ma perché l’altro, l’altra è una persona. "La gioia nasce dalla gratuità di un incontro” (Papa Francesco)

2)      La gioia del dono di carità.
Lo scopo dell’Avvento è di preparare noi cristiani al Natale, perché Cristo viene dove è atteso, desiderato e amato.
            Questa attesa, che va vissuta con “vigilanza” e  “discernimento” (cfr le precedenti domeniche di Avvento),  deve essere nella “gioia”, perché la venuta del Dio della Gioia che non finisce mai è imminente.
            Quando la festa del Natale si fa più vicina, la Liturgia della Messa di questa domenica ci offre un invito alla gioia: nella prima lettura, le immagini e le descrizioni coinvolgono tutto e tutti -noi compresi- nell’attesa di qualcosa di bello da parte del Signore, che ne è protagonista e che interviene nella storia per farsi Strada, che il Suo popolo può e deve percorrere per tornare a casa.
            Dio non ci lascia mai soli, ci libera da paure, ansie, dubbi, entra nella nostra storia, viene in casa nostra, portando pace e divenendo cammino sicuro ai nostri passi.  La vita degli uomini è da lui guarita: i ciechi vedono, i sordi odono, i muti parlano, il deserto fiorisce e la strada si chiamerà via santa (cfr prima lettura: Is. 35, 8).
            In questo troviamo la chiave di lettura del Natale: il Natale è speranza e gioia. Prendiamo esempio dai nostri bambini che attendono i doni con gioiosa speranza: sono il simbolo dell’attesa, che viene soddisfatta, che riempie di gioia: la gioia che viene dall’esperienza di essere amati, perché ci è donato Gesù.
            Questo dono dell’altro mondo, ci fa capire che la gioia cristiana non è solo umana, terrestre: è spirituale, come ci ricorda già l’inizio della antifona dell’Introito di questa Domenica: Gaudete in Domino (=Gioite nel Signore). Se ci rallegriamo nel Signore, troveremo la vera gioia. Esiste una gioia spirituale, dunque, che ha come oggetto l’amore non di cose create, ma di Dio.  Questa gioia spirituale viene non da noi stessi, ma dallo Spirito Santo.  La gioia a questo livello è soprannaturale, profonda, duratura. La gioia spirituale dipende dall’amore di Dio, dalla carità divina.  Questo tipo di gioia non è fragile come la gioia umana, ma forte, sicura, sempre affidabile, incrollabile.
            Oggi, terza Domenica di Avvento “romano”, la liturgia ci offre la possibilità di sperimentare la gioia soprannaturale. In che senso? San Paolo dice: “Gioite nel Signore, perché il Signore è vicino”.  Come sperimentiamo la gioia quando ci troviamo alla presenza della persona amata, così abbiamo di che gioire, proprio perché fra due settimane verrà “l’amato del mio cuore”, come dice la sposa nel Cantico dei Cantici. Lui uscirà come sposo dal talamo, dalla stanza nuziale e verrà per abitare in mezzo a noi.
            C’è un altro motivo per la gioia spirituale: la nostra partecipazione alla bontà divina. Ma nessuna partecipazione in Dio sarebbe mai possibile, se Dio stesso non avesse preso l’iniziativa, costruendo un ponte per colmare l’abisso che separa l’uomo da Dio.  Nell’Incarnazione, il Figlio di Dio ha preso su di sé la nostra natura umana, proprio per darci la possibilità di partecipare alla sua vita di carità divina, ora e per sempre. Ecco il motivo per la più grande gioia possibile: l’Amato del nostro cuore è vicino: viene per stare con noi sempre e ci permette di stare con lui, ora e sempre.
            Quando c’è la gioia umana è davvero molto bella, ma molto spesso è mescolata con la tristezza.  La gioia nel Signore, invece, non viene mai meno.
         
3)Il Precursore e martire della Gioia.
La gioia vera, quella del cuore, quella che dura sempre è l’incontro con il Signore. Giovanni Battista è arrivato all’incontro pieno e definitivo con il Signore, attraverso l’amore grande del martirio. Per questo la III domenica di Avvento ci propone la figura e l’esempio del Precursore dell’Amore.
            Quando Gesù andò sulle rive del Giordano per farsi battezzare, quest’uomo che si era ritirato volontariamente nel deserto, da dove era la Voce della Parola, riconobbe Cristo e di Lui disse: “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”. E, certamente fu pieno di gioia, perché l’Amico era arrivato. Ora, in prigione, involontario deserto dove era stato messo, Giovanni vuole sapere se Gesù è l’Amico tanto atteso e chiede ai suoi discepoli di domandare a Cristo: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». E Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». E il Battista,  colui che nell’oscurità del grembo di sua madre Elisabetta aveva sussultato di gioia alla presenza di Gesù nel grembo di Maria, colui che correva davanti (Precursore = colui che corre davanti) a Cristo per preparare la strada alla Via, non si scandalizzò, anzi accettò il martirio e divenne il protomartire (= il primo testimone) della carità del Salvatore. Come già Isaia nella prima lettura Gesù dice che qualcosa sta già capitando oppure è già successo: i ciechi che riacquistano la vista, i muti che parlano, i malati che sono risanati sono il segno che il regno di Dio è già presente in mezzo a noi, non è qualcosa che deve ancora venire. E’ un fatto presente. Nell’oscurità di un carcere il Battista intravide la Luce e la morte fu la drammatica fessura per entrare nella Luce.
            A questo fatto noi sia chiamati a parteciparvi con la costanza che conforta il cuore. Nella II lettura presa dalla lettera di san Giacomo c’è l’invito a mettersi nello stato d’animo dell’agricoltore, che non guarda a quello che sta facendo, ma al fine per cui sta lavorando. Questo contadino ha fiducia che il seme, che è stato messo sottoterra ed è curato con costanza, darà il suo frutto a tempo debito. Anche noi dobbiamo saper aspettare il tempo giusto, dobbiamo saper attendere e curare con la prospettiva di un bene più grande ma non immediato e prepararci per quello.
            Giovanni il Battista nel carcere ebbe una prova di fede che lo purificò e lo avvicinò ancora di più al cuore di Dio. Infatti, ispirato da Dio, Giovanni aveva annunciato la venuta del Messia. Il Messia davvero era venuto nel mondo. Però Dio, come sempre, si era riservato uno spazio di novità e di libertà che Giovanni non conosceva: il Messia, infatti, non era esattamente come Giovanni l’attendeva. Per questo Giovanni gli chiede: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” La risposta di Gesù crea un nuovo spazio per la fede di Giovanni: “… ai poveri è annunziata la buona novella e beato colui che non si scandalizza di me”. Giovanni non si scandalizzò, ma piegò la testa, rinunciò alla sua testa perché i pensieri di Dio non sono i pensieri dell’uomo (cfr “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” Is 55,8), e credette.
            Chi si mette in cammino alla ricerca di Dio, si aspetti sempre qualche sorpresa: Dio non sarà mai come noi l’aspettiamo; per questo motivo Dio si incontra solo nell’umiltà della fede, lasciandosi condurre da Lui per strade che noi non possiamo immaginare. Così fu per Giovanni, così è per tutti noi. Egli fu un martire che visse nella gioia, perché certo della presenza del Salvatore nella vita sua e del suo popolo.
            Le vergini consacrate sono chiamate – mediante la vocazione alla verginità – ad un martirio (= testimonianza) analogo a quello del Precursore, che seppe diminuire per far crescere Cristo (cfr Gv 3, 30). La loro appartenenza totale a Cristo mediante un amore indiviso testimonia che la vita è gioiosa e feconda (cfr Rito della consacrazione della Vergini, n. 36: Invio), quando tutto il nostro essere, anima e corpo, è a servizio dell’amore che nulla vuole per sé e che tutto dona nella gioia. Esse con atteggiamento sponsale stanno castamente accanto a Cristo con lui vivono la passione di attirare alla verità i fratelli e sorelle in umanità.



LETTURA SPIRITUALE
San Tommaso d’Aquino
SOMMA TEOLOGICA PARTE II-II 
Questione 28
LA GIOIA
“Passiamo a considerare gli effetti che accompagnano l’atto principale della carità, che è l’amore. In primo luogo gli effetti interiori; in secondo luogo quelli esteriori [q. 31]. Sul primo tema dobbiamo considerare tre argomenti: primo, la gioia; secondo, la pace [q. 29]; terzo, la misericordia [q. 30]. Sul primo argomento si pongono quattro quesiti: 1. Se la gioia sia un effetto della carità; 2. Se questa gioia sia compatibile con la tristezza; 3. Se questa gioia sia piena; 4. Se sia una virtù.
Articolo 1:Se la gioia sia in noi un effetto della carità. Sembra che la gioia non sia in noi un effetto della carità. Infatti: 1. Dall’assenza dell’oggetto amato segue più la tristezza che la gioia. Ora, finché siamo in questa vita Dio, che è l’oggetto della nostra carità, è assente, secondo le parole di S. Paolo [2 Cor 5, 6]: “Finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore”.Quindi in noi la carità produce più tristezza che gioia.2. La carità è la causa principale per cui meritiamo la beatitudine. Ma tra le cose con cui meritiamo la beatitudine troviamo il pianto, che accompagna la tristezza [Mt 5, 4]: “Beati quelli che piangono, perché saranno consolati”.Quindi è più effetto della carità la tristezza che la gioia.3. La carità, come si è visto [q. 17, a. 6], è una virtù distinta dalla speranza. Ma la gioia è causata dalla speranza, secondo l’espressione di S. Paolo [Rm 12, 12]: “Lieti nella speranza”.Perciò essa non è causata dalla carità.
In contrario: Come dice S. Paolo [Rm 5, 5], “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.Ma la gioia è causata in noi dallo Spirito Santo, come dice lo stesso Apostolo [Rm 14, 17]: “Il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”.Quindi anche la carità è causa di gioia.
Rispondo: Come si è visto nel trattato sulle passioni [I-II, q. 25, a. 3; q. 26, a. 1, ad 2; q. 28, a. 5, ad ob.], dall’amore nascono sia la gioia che il dolore o tristezza, ma in maniera diversa. Infatti dall’amore viene causata la gioia o per la presenza del bene amato, o anche perché la stessa persona amata possiede e conserva il proprio bene. E questo secondo aspetto appartiene specialmente all’amore di benevolenza, che ci fa godere della prosperità dell’amico, anche se assente. Al contrario invece dall’amore segue la tristezza o per l’assenza di ciò che si ama, o perché la persona di cui vogliamo il bene viene privata dei suoi beni, o è oppressa da un male. Ora, la carità è l’amore di Dio, il cui bene è immutabile, essendo egli la stessa bontà. E inoltre, per il fatto stesso che è amato, Dio si trova in chi lo ama col più nobile dei suoi effetti, secondo le parole di S. Giovanni [1 Gv 4, 16]: “Chi sta nell’amore dimora in Dio, e Dio dimora in lui”. Quindi la gioia spirituale, che ha Dio per oggetto, è causata dalla carità.
Soluzione delle difficoltà: 1. Si dice che siamo in esilio lontano dal Signore mentre siamo nel corpo in rapporto alla presenza con la quale Dio si mostra ad alcuni nella visione immediata. Infatti l’Apostolo [v. 7] aggiunge: “Noi camminiamo nella fede e non ancora in visione”. Ma egli è presente anche in questa vita a coloro che lo amano mediante l’inabitazione della grazia. 2. Il pianto che merita la beatitudine ha per oggetto ciò che contrasta con essa. Per cui si deve a uno stesso motivo che dalla carità nasca tale pianto e insieme la gioia spirituale di Dio: poiché il godere di un dato bene e il rattristarsi dei mali contrari procedono da uno stesso motivo.3. Di Dio si può godere spiritualmente in due modi: primo, in quanto godiamo del bene divino considerato in se stesso; secondo, in quanto godiamo del bene divino in quanto è partecipato da noi. Ora, il primo tipo di gioia è più perfetto, e deriva principalmente dalla carità. Il secondo invece deriva dalla speranza, con la quale aspettiamo la fruizione del bene divino. Tuttavia anche la stessa fruizione, sia perfetta che imperfetta, viene conseguita in base alla grandezza della carità.

Fonte:http://francescofolloit.blogspot.com/

Commenti

Post più popolari