Abazzia di pulsano XXIX Dom. Tempo Ord. C

Domenica “della parabola della vedova importuna e del giudice iniquo”
XXIX Dom. Tempo Ord. C
Lc 18,1-8; Es 17,8-13; Sal 120; 2 Tm 3,14-4,2
Antifona d’Ingresso Sal 16,6.8
Io t’invoco, mio Dio: dammi risposta,
rivolgi a me l’orecchio e ascolta la mia preghiera.
Custodiscimi, o Signore, come la pupilla degli occhi,
proteggimi all’ombra delle tue ali.
Iniziamo la divina liturgia nella consapevolezza che il Signore ascolta sempre i suoi servi che
gridano a Lui e a cui dona la Parola della sua Legge santa e il convito di comunione.
Canto all’Evangelo Ebr 4,12
Alleluia, alleluia.
La parola di Dio è viva ed efficace,
discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Alleluia.
Il canto all’evangelo ci ricorda, con l’Autore dell’epistola agli Ebrei, che anche noi abbiamo ricevuto
in dono irreversibile la Parola di Dio, e siamo dunque esortati alla costanza nella fede sotto le prove
a cui siamo sottoposti. Essa è vivente, è onnipotente, è una spada terribile che penetra dentro il cuore per
scrutare I pensieri e le intenzioni, e distinguere così quelli buoni e quelli perversi.
Nel contesto della ‘"salita", dalla Domenica XIII alla Domenica XXXI si proclama infatti il grande
testo, proprio solo di Luca, dell’«esodo a Gerusalemme» che si attua nella «salita a Gerusalemme» (Lc
9,51 - 19,28), dove il Signore con la Croce e con la Resurrezione torna al Padre nella gloria dello Spirito
Santo, viene dunque in questione nella pericope di oggi un’altra delle continue catechesi del Signore

sulla preghiera e sulla sua necessaria assiduità pertinace. Infatti, in questo lungo itinerario verso
Gerusalemme, che ormai volge quasi al suo termine, in fondo Gesù senza avvertirlo insegna ai suoi
discepoli quanto Egli stesso fa da sempre, una vita silenziosa e intensa di preghiera unitiva con il Padre
nello Spirito Santo, e senza interruzione.
Durante questo Tempo liturgico, Gesù battezzato dallo Spirito Santo e inviato in missione dal Padre
suo per annunciare l’Evangelo e per compiere le prodigiose opere del Regno, appare come la chiave di
comprensione della proclamazione evangelica continua.
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della XXIX Domenica del Tempo Ordinario C 1/6
La parabola di questa domenica è centrata sulla figura di una vedova tenace, la quale riesce ad
espugnare l’indolenza di un giudice che si disinteressa alla sua causa.
Un’ennesima catechesi sulla preghiera e sulla sua dovuta assiduità; in fondo Gesù senza dirlo indica ai
discepoli quanto egli stesso fa: una vita di preghiera unitiva con il Padre nello Spirito, senza
interruzione.
È un tratto centrale del N. T. : cf Lc 11,5-10; 21,36; Rom 12,12; Ef 6,18; Col 4,2; non meno nell’A. T. :
Es 17,8-16 (1a lettura); Sir 18,22; il Salmista spesso nei Salmi.
Il venire meno della preghiera è un fatto constatabile, il primo segno della «crisi» che assale così
facilmente noi cristiani dell’età moderna. E proprio la vita di preghiera poco seguita, la sua rarefazione,
poi il definitivo abbandono che segna l’oscuramento del cuore e la rovina chi sa per quanto tempo.
Il contesto lo abbiamo più volte esaminato (cf ultime Dom.); nella pericope distinguiamo:
1. una didascalia dell’evangelista (v. 1);
2. i vv. 2-5 contengono la parabola dell’insistenza esaudita;
3. i vv. 6-8 sono l’applicazione di Gesù.
Gli esegeti sono concordi nel mettere in luce il carattere redazionale del primo versetto del c. 18; esso
introduce una parabola che appartiene esclusivamente a Luca, ma con un vocabolario che lascia
indovinare un substrato aramaico. Dopo il discorso che precede, questo versetto indica la prospettiva in
cui dobbiamo leggere il racconto parabolico: a causa della tribolazione che mette radicalmente in
pericolo la fede, il discepolo non deve abbandonare mai la preghiera.
L’analisi del testo suggerisce che la parabola, in origine, metteva l’accento sulla certezza della
salvezza finale. Completandola con un’ultima domanda (18,8b), l’evangelista Luca richiama
l’attenzione sulla prova della fede: come vivere nella fedeltà a una salvezza donata in modo così
sconcertante? Dove attingere la forza di rendere grazie come il lebbroso samaritano (17,15)? Sapremo
pregare abbastanza da riconoscere «il regno che viene» (17,20-21), «il giorno in cui il figlio dell’uomo è
rivelato» (17,30)?
I due personaggi della parabola rappresentano, nel contesto della letteratura biblica, le figure
tipiche dell’oppressore e dell’oppresso, nel campo della giustizia sociale.
Esaminiamo il brano
v. l Per non entrare in tentazione, per non dubitare della venuta del regno, per non mancare di fede,
bisogna «pregare sempre» (pántote proseúchesthai: cf. l Ts 1,2; Col 1,3). Si deve pregare sempre perché
ogni momento è quello della sua venuta. La salvezza avviene in questo nostro tempo profano, in cui si
mangia, si beve, ci si sposa, ecc.
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Per questo Paolo dice «Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto
per la gloria di Dio». (1 Cor 10,31)
Si può pregare sempre perché la preghiera non si sovrappone a nessuna azione (cf Detti dei Padri del
deserto). Le illumina tutte e le indirizza al loro fine.
La preghiera è importante perché è desiderio di Dio.
«Siamo tutti nati nel fango, ma alcuni di noi guardano le stelle». Così affermava lo scrittore inglese
dell’Ottocento Oscar Wilde, intuendo nella creatura umana la capacità di ascendere al trascendente. Ora,
una delle espressioni più alte del nostro anelito verso le stelle è indubbiamente la preghiera, che è il
respiro della fede, un dialogo tra Dio e uomo in cui ci si dà del «tu». Se questa è la preghiera, allora essa
prevede innanzitutto l’ascolto di ciò che il Signore dice al nostro cuore. Nella vita del credente, questo
dialogo diventa così naturale e indispensabile da poter essere paragonato al respiro. E dal respirare non
ci si stanca!
«senza stancarsi»: senza «scoraggiarsi» (non lasciar cadere le braccia mḕ enkakeîn: cf. 2Ts 3,13; Gal
6,9; 2 Cor 4,1.16; Ef 3,13): si tratta di espressioni tipicamente paoline.
Ritroviamo anche il «bisogna» lucano, che indica abitualmente la passione come passaggio obbligato
verso la risurrezione (9,22; 13,33; 17,25; 24,26; cf. 15,32). L’espressione “deî = bisogna, è necessario”
ricorre spesso in Luca e nella sua opera è usata 41 volte su 102 in tutto il N.T.
La preghiera sembra tempo perso! Un puro desiderio, povero e in grado di fare nulla.
Quando si prega si lotta con leoni e draghi; la preghiera è lotta: cfr. Rm 15,30; Col4,12; Es 17,8ss; Gen
32,23ss).
v. 2 È presentato il primo dei due personaggi: la prima impressione è di antipatia: crudele, empio, senza
religione e senza umana comprensione; in una parola: «ingiusto»,che è il colmo per un magistrato.
v. 3 Le vedove, insieme con gli orfani, gli stranieri e i pellegrini, godevano di una speciale protezione di
Dio e della legge di Mose in quanto erano gli emarginati per eccellenza.
La situazione di miseria delle vedove diventa simbolo della povertà; ma alcuni miracoli le
predispongono già all’abbondanza messianica: cf 1 Re 17,8-15; 2 Re 4,1-7; Sal 145,9.
Le vedove fanno parte dei poveri protetti dalla legislazione: cf Es 22,21-23; Dt 10,18; 24,17-21; 26,12-
13; 27,19; Is 1,17.23 Da questo fondo biblico emergono i due personaggi della parabola, ai quali gli
ascoltatori di Gesù erano perciò particolarmente sensibili.
La donna assume l’atteggiamento dei «pii» che presentano a Dio il loro lamento [cf. Sal 7,11; 86(85),3;
88(87),2], e supplica: «Vendicami (ekdíkēsón me) del mio avversario!» [cf. Gb 36,6; Sal 94(93);
140(139),13; 146(145),7], e quindi «sostieni la mia causa!» (cf. Ger 50,34; 51,36).
vv. 4-5 Il magistrato della parabola non ha intenzione di far giustizia, ma la vedova lo mette alle corde:
va e viene con querula insistenza.
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Dopo essersi ripetutamente rifiutato, il giudice decide finalmente di togliersela d’attorno, con
una giustificazione che non gli fa onore, neppure «in extremis». Infatti, egli si preoccupa solo della
propria quiete: «poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga a
«importunarmi».
Per «importunare». il testo greco dell’evangelo usa hupopiazêi un termine tecnico del pugilato che si
ritrova in Paolo (1 Cor 9,27) ed indicava un colpo portato in pieno viso, sotto gli occhi (rammenta il
"cesto" dei pugili greci e romani).
Chiaramente il vocabolo usato non intendere esprimere una volontà di violenza da parte della vedova
(ne era incapace del resto), ma è solo un modo, pittoresco forse, di esprimere un’insistenza terrificante
come un colpo da knock-out (da K.O.).
vv. 6-7 La parabola non è del tutto logica. Il giudice avrebbe potuto avere una reazione diversa: punire
la donna per la sua importunità e vietarle di tornare in tribunale.
L’immagine di questo giudice non è una rappresentazione di Dio, come abbiamo visto in altre occasioni,
ma solo un termine di paragone per mettere in luce il comportamento del Signore. Sempre a proposito
della preghiera, Gesù altrove dice: «Se voi, pur essendo cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli,
quanto più il Padre celeste darà lo Spirito Santo (ciò che è buono) a coloro che glielo domandano?»(Lc
11,13).
La conclusione, con il solito metodo «dal minore al maggiore» o «a fortiori», è la con considerazione
che se un piccolo, insignificante giudice della terra operò così, quanto più «il Giudice supremo!».
Questa conclusione è analoga a quella della parabola dell’amico disturbato in piena notte (11,5-8), e si
riallaccia alla letteratura sapienziale che presenta la giustizia divina in termini molto vicini a quelli della
parabola: «Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento... La
preghiera dell’umile penetra le nubi ... non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto, rendendo
soddisfazione ai giusti e ristabilendo l’equità. Il Signore non tarderà e non temporeggerà con loro» (Sir
35,11-24). Questo brano del Siracide, del resto, si conclude con un elogio della misericordia divina:
«Bella è la misericordia al tempo dell’afflizione, come le nubi apportatrici di pioggia in tempo di
siccità» (Sir 35,24).
Non solo ristabilirà la giustizia, ma si dimostrerà paziente e subito li vendicherà!
Il ritardo di Dio in nessun caso è, secondo la Bibbia, segno di indifferenza o di inerzia, ma risulta
ispirato a una volontà di misericordia, che concede ai cattivi il tempo di pentirsi invece di colpirli
appena essi si ribellano a Dio o ne ostacolano i piani (illuminante il testo di 2 Pietro 3,9-15 e Ap 6,9-11).
Nessuno ha il diritto di pensare ad un Dio indifferente o ha il diritto di pretendere che obbedisca ai suoi
desideri stabilendo i tempi e le forme di esaudimento.
Dio non è una macchina dove si introduce un gettone (la preghiera) per farla funzionare.
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v. 8 - «farà giustizia»: ekdíkēsin in greco e vindictam in latino = vendicherà, nel senso biblico di far
trionfare la causa dell’innocente. Tuttavia l’ultima parola di Gesù è sconcertante.
Il Figlio dell’uomo verrà, è certo, ma «troverà la fede?».
Dunque si dubita che perfino i suoi discepoli mancheranno della fede, a causa della mancanza della vita
di preghiera. La constatazione, basata sui fatti - una statistica oggi, che direbbe su questo? -deve essere
presa come una forte esortazione ad avere fede fino alla sua Venuta. A pregare affinchè venga.
La parabola si presenta dunque come un invito a credere che il giorno del figlio dell’uomo
rappresenta un giudizio di salvezza. Si tratta dell’affermazione di un avvicinarsi liberatorio del regno di
Dio.
Con la sola potenza della sua Parola, con la "forza d’urto" della parabola, Gesù cerca di convincere degli
ascoltatori riluttanti, chiamandoli a fare propria la sua certezza che il regno si sta avvicinando anche per
loro. Il problema è se il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà «la fede» sulla terra. Si tratta
dell’adesione di fede, vissuta (cf. Mt 23,23) nella fedeltà della testimonianza resa attraverso la parola e
l’azione, e sorretta dalla risoluzione nella preghiera. In mezzo alle prove di una comunità perseguitata
(cf. At 4,23-31) o preoccupata per il ritardo della parusia (cf. 2Pt 3,9; Ap 6,9-11), la fede è l’accoglienza
della salvezza in cui si gioca il destino dell’uomo. E questa fede passa attraverso iniziative concrete,
come quella della vedova che non teme di assillare un giudice iniquo fino a fargli cambiare
atteggiamento.
È ancora oggi la preghiera della Chiesa e aveva ragione la tradizione cristiana quando parlava del
pregare comparandolo al respiro. Non ci si chiede né si comanda ai nostri polmoni di respirare: lo si fa
spontaneamente, altrimenti si morirebbe. La stessa cosa dovrebbe accadere per l’anima e per la fede. Se
si deve pianificare artificiosamente la preghiera, è segno che lo spirito è intisichito e ha bisogno di un
trattamento terapeutico. Tuttavia, a differenza del moto primo e naturale del respiro, il pregare è anche
un’arte ed esige esercizio, proprio come l’atleta che regola i moti fisiologici, calibrandoli sull’attività
agonistica: non per nulla in greco àskesis, da cui «ascesi», significa «esercizio».
Concludo con una seconda testimonianza1: una stupenda confessione autobiografica di Gandhi: «Non
sono un letterato né uno scienziato. Cerco soltanto di essere un uomo di preghiera. Senza la preghiera
avrei perso la ragione. Se non ho perso la pace dell’anima, malgrado le prove, è perché questa pace mi
viene dalla preghiera. Si può vivere alcuni giorni senza mangiare, ma non senza pregare. La preghiera
è la chiave del mattino e il chiavistello della sera». E bello infatti - quando cala la sera e tu sei più quieto
nella tua casa, spento il televisore - chiudere la tua giornata col suggello di una pausa orante. Oppure,
uscito dal grembo del sonno e della notte, aprire le porte del giorno con la chiave della preghiera che ti
spalanca davanti la vita illuminandola, anche se le ore che seguiranno saranno pesanti e forse tenebrose.
E sarà proprio con questo esercizio costante del chiudere e aprire la casa dell’anima, così come si fa per
1 Tratta dalla rubrica ”Parole di sempre” di G. Ravasi – Jesus anno XXXV - ott. 2013 - n. 10, pag. 88.
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quella di pietra ove abitiamo, che ci accadrà ciò che diceva il filosofo Jacques Maritain: «Il credente
perfetto prega così bene che ignora di pregare».
II Colletta
O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè
hai dato la vittoria al tuo popolo,
guarda la tua Chiesa raccolta in preghiera;
fa’ che il nuovo Israele
cresca nel servizio del bene
e vinca il male che minaccia il mondo,
nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti,
che gridano giorno e notte verso di te.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
lunedì 14 ottobre 2013
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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