Card. Angelo Scola COMMENTO "A DUE VOCI" SUL COMANDAMENTO BIBLICO “NON RUBARE”


S.E. REV.MA CARD. ANGELO SCOLA
ARCIVESCOVO METROPOLITA DI MILANO

ECC.MO RAV GIUSEPPE LARAS
PRESIDENTE DEL TRIBUNALE RABBINICO DEL CENTRO NORD ITALIA

GIOVEDÌ, 16 GENNAIO 2014
MILANO, SALA DELLE COLONNE DEL NUOVO MUSEO DEL DUOMO
Card. Angelo Scola
Arcivescovo di Milano


Non ruberai (Es 20,15)

D’intesa con l’Assemblea dei Rabbini d’Italia, la Conferenza Episcopale Italiana ha proposto quest’anno come tema della XVIII Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, il
comandamento divino «Non ruberai» (Es 20, 15). Su questo argomento è intervenuto papa Francesco, che nella sua prima Enciclica Lumen fidei ha descritto con queste parole lo stretto rapporto che lega la fede, la preghiera, il Decalogo e la coerenza di vita: «Il Decalogo non è un insieme di precetti negativi, ma di indicazioni concrete per uscire dal deserto dell’ “io” autoreferenziale, chiuso in se stesso, ed entrare in dialogo con Dio, lasciandosi abbracciare dalla sua misericordia. La fede confessa così l’amore di Dio, origine e sostegno di tutto, si lascia muovere da questo amore per camminare verso la pienezza della comunione con Dio. Il Decalogo appare come il cammino della gratitudine, della risposta di amore, possibile perché, nella fede ci siamo aperti all’esperienza dell’amore trasformante di Dio per noi»[1].
In questo impegno di reciproca fedeltà all’Alleanza divina, la Chiesa cerca il dialogo e la collaborazione con il popolo d’Israele, per percorrere con coraggio strade sempre nuove incontro a tutti gli uomini nel mondo. Anche nella sua Esortazione apostolica Evangelii gaudium il Papa insiste molto sulla necessità di “uscire” con amore verso il nostro prossimo, senza steccati e senza pregiudizi.
Numerosi e decisivi sono gli esempi di questa “uscita” nelle sacre Scritture; basta pensare ad Abramo che esce dalla sua terra, a Giacobbe o a Giobbe, definiti entrambi come “uomini semplici” (ish tam, in Gen 25, 27 e in Gb 1, 1), integri e retti davanti a Dio: una semplicità e integrità di cuore e di vita che implica l’uscita, l’appello a rivolgere il proprio volto verso il volto dell’Altro. Una uscita che Emanuele Levinas, nelle sue celebri Letture talmudiche, aveva così interpretato.

La coscienza è l’urgenza d’una destinazione che porta all’altro, non l’eterno ritorno su di sé. […] Rettitudine che ha nome Temimùth, essenza di Giacobbe. L’integrità, intesa in senso logico, e non come caratteristica d’un’infantile semplicità, delinea, pensata sino in fondo, una configurazione etica. […] La rettitudine, fedeltà originaria a un’alleanza irresolubile, appartenenza, sta nel confermare quest’alleanza […] La Torà è un ordine da cui l’io dipende senza che sia dovuto entrarci, un ordine dell’essere al di là dell’essere e della scelta.
Prima dell’io-che-si-decide, sta il suo uscire dall’essere. […] Essere io vuol dire essere responsabili al di là di ciò che possiamo aver commesso. La rettitudine (Temimùt) sta nel sostituirsi agli altri[2].

Un tale appello rigoroso alla responsabilità, di fronte all’altro e al mondo, trova riscontro e eco in parole che già 17 secoli fa risuonavano in Milano sulla bocca del vescovo Ambrogio, quando esortava i singoli e il popolo a intervenire per ristabilire equità e giustizia. Le sue parole commoventi, raccolte soprattutto nel Commento biblico all’episodio di Nabot, ucciso per rapina dal re Acab (1 Re 21), riecheggiano quanto mai attuali ai nostri orecchi se consideriamo le tragedie dell’immigrazione e degli esuli in mezzo a noi:
Non un solo Nabot povero è stato ucciso; ogni giorno un Nabot viene oppresso, ogni giorno un povero è ucciso. Così terrorizzata l’umanità abbandona le sue terre, il povero emigra con i suoi figlioletti, portando il più piccolo in braccio; la moglie segue piangendo, come se accompagnasse il marito al sepolcro. In verità minor dolore prova colei che piange la morte dei suoi cari, perché, anche se ha perduto il marito che le dava sostegno, possiede la sua tomba, anche se non ha più i figli, però non soffre per il loro esilio, non è afflitta dal digiuno dei figli ancora piccoli, che è più insopportabile della morte. […]  La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri[3].

Nella nostra società globalizzata, non solo permangono, ma crescono molte di queste ingiustizie, e a queste occorre reagire con determinazione e solidarietà gioiosa; in particolare come cristiani e come ebrei possiamo fare molto insieme per testimoniare l’esortazione alla santità contenuta nelle Dieci Parole, santità che riguarda sia la dimensione personale che quella pubblica, e costruire una “globalizzazione della solidarietà” che superi il rischio della globalizzazione dell’indifferenza.
Le Dieci Parole infatti sono espressione dell’Alleanza. Lo dice bene il fatto che le tavole saranno collocate dentro l’arca dell’Alleanza. Le dieci parole sono consegnate ad un popolo. Ed «il patto sinaitico non può essere considerato superato nella nuova alleanza perché è contratto anche con coloro che oggi non sono qui» (cfr Dt 29,14)[4].
In questa chiave strettamente legata alla storia e alla comune umana esperienza la tradizione pedagogica cristiana ha individuato, proprio nell’approfondimento dei comandamenti, una via adeguata per l’educazione integrale dei fedeli. L’esposizione dettagliata del decalogo costituisce una parte importante del Catechismo della Chiesa Cattolica[5].

Punti salienti
Mi limito, in questa sede, a richiamare, attraverso uno schema per titoli, i tratti salienti dell’insegnamento che in esso è contenuto.

a) La VIII parola, (VII comandamento) nella tradizione cristiana intende in primo luogo educare ad un’adeguata comprensione del significato dei beni e del loro uso. Il comandamento “non rubare” non è comprensibile se non come espressione del bene comune. Ciò implica il primato della “destinazione universale dei beni”. Solo subordinatamente si deve parlare di diritto alla proprietà privata. Un test assai significativo del corretto rapporto tra questi due insegnamenti è rappresentato dalla dottrina tradizionale secondo cui la necessità urgente ed evidente permette di disporre in modo proporzionato dei beni altrui.
In questa visione viene escluso sia un collettivismo che neghi la dignità personale, sia un individualismo esasperato che misconosca il primato della famiglia umana. Qui non è in gioco solo la cosmo-visione che la Chiesa impara dalla rivelazione biblica, ma questa è anche una assai benefica proposta di vita buona per tutta la società.

b) In secondo luogo, ai cristiani appare oggi particolarmente urgente sottolineare che il comandamento “non rubare” prescrive, nella gestione dei beni materiali e del frutto del lavoro umano, tanto la giustizia che la carità. Non è sufficiente – a ben vedere non lo è mai stato – richiamare gli imprescindibili doveri di giustizia. Siamo chiamati all’esercizio effettivo della carità, senza la quale non si potrà mai rispondere in modo compiuto ai bisogni e alle necessità dei nostri fratelli. Sempre più attuali, in questo senso, sono le parole dell’enciclica Deus caritas est (n. 28) di Benedetto XVI: «L’amore — caritas — sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo». È il tema del “gratuito” per cui Benedetto XVI è giunto fino a parlare della necessità di allargare la “ragione economica” (cfr Caritas in veritate, nn. 32 e 36).
Siamo, quindi, chiamati a vivere la «virtù della temperanza, per moderare l’attaccamento ai beni di questo mondo; quella della giustizia, per rispettare i diritti del prossimo e dargli ciò che gli è dovuto, e della solidarietà, seguendo la regola aurea e secondo la liberalità del Signore, il quale “da ricco che era, si è fatto povero” per noi, perché noi diventassimo “ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9)»[6].

c) In terzo luogo, è opportuno rimarcare con forza che il precetto “Non rubare” implica il dovere morale della “restituzione”. La consapevolezza di questo dovere, ma soprattutto la sua effettiva pratica, sia a livello personale che a livello di istituzioni sociali, economiche, politiche e di interscambio tra nazioni, sono necessarie per la costruzione di un nuovo “ordine mondiale”. Solo la “restituzione” consente di riparare alla ferita inferta al diritto e alla giustizia lese nel furto. L’obbligo della restituzione, inoltre, esprime il nesso tra peccato e reato in vista del riscatto del soggetto, senza che venga meno la loro necessaria e rigorosa distinzione. In questa prospettiva la legalità sarà più facilmente perseguita.

Dialogo, profezia, testimonianza
Nella risposta all’appello alla santità contenuto nel Patto, come ebrei e come cristiani, abbiamo a cuore un dialogo che può divenire profezia e testimonianza per tutte le donne e per tutti gli uomini del nostro tempo. Essi continuano infatti, con maggiore o minore consapevolezza, ad interrogarsi sul significato dell’esperienza umana, dell’essere uomo e donna, padre e madre, sulla prova del dolore e della morte, sulla difesa dei deboli, sull’equilibrato rapporto con il creato, sull’edificazione della giustizia e della pace. Operando insieme rispondiamo alla vocazione di rendere presente la potenza del Patto nella storia umana.
Dialogo, profezia e testimonianza si sviluppano in armonia, illuminati dalla fede e dalla sapienza, riscaldati dalla tenerezza e dall’amore, sotto l’azione dello Spirito divino. Oggi come ieri, per distinguere i veri dai falsi profeti, occorre interpretare i “segni dei tempi”, tra i quali appunto si colloca il dialogo fra uomini e donne di buona volontà, in particolare fra persone animate dalla fede. In quanto credenti nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ci riconosciamo figli di un Unico Dio creatore e redentore, chiamati da Lui a un servizio per rendere pienamente partecipi dell’amore divino l’umanità intera e il mondo creato. Questo progetto di Dio sul mondo e sull’uomo, celebrato dai Profeti d’Israele, viene riproposto da ebrei e cristiani, mediante una comune e fraterna esperienza profetica, e l’impegno a testimoniare il Patto con opere di giustizia, di pace, di misericordia, come profetizza Isaia (66, 13-14. 18-21), con lo sguardo rivolto a Gerusalemme:
Come una madre consola un figlio,
così io vi consolerò;
a Gerusalemme sarete consolati.
Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore,
le vostre ossa saranno rigogliose come l'erba.
La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi,
Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria.
Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros, Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunceranno la mia gloria alle genti. Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari, al mio santo monte di Gerusalemme – dice il Signore –, come i figli d'Israele portano l'offerta in vasi puri nel tempio del Signore. Anche tra loro mi prenderò sacerdoti leviti, dice il Signore.

Questo è il nostro comune impegno con le Dieci Parole contenute nel Patto.


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