Abbazia S.Maria di Pulsano Lectio Divina Domenica “della parabola della zizania”

XVI del Tempo Ordinario A
Mt 13,24-43; Sap 12,13.16-19; Sal 85; Rm 8,26-27
Antifona d’Ingresso Sal 53,6.8
Ecco, Dio viene in mio aiuto,
il Signore sostiene l’anima mia.
A te con gioia offrirò sacrifici
e loderò il tuo nome, Signore, perché sei buono.
Nell’antifona d’Ingresso (Sal 53,6.8, SI) con
l’Orante i fedeli all’inizio della celebrazione riconoscono che il loro unico aiuto sta nel Signore (Sal 117,7), sempre operante, che li accoglie sempre e li difende (v. 6). Perciò con animo devoto vogliono offrirgli il sacrificio divino, e confessare al mondo il Nome suo, nel quale si trova l’unico bene (51,11), poiché è l’unico Nome che salva (v. 8).

Canto all’Evangelo Cf Mt 11,25
Alleluia, alleluia.
Ti rendo lode, Padre,
Signore del cielo e della terra,
perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno.
Alleluia.
L’alleluia all’Evangelo è Mt 11,25, adattato e già usato all’Evangelo della Domenica XIV. È la benedizione del Figlio al Padre per aver rivelato i Misteri del Regno solo ai piccoli. Il testo ovviamente va riletto nel contesto della pericope evangelica: la parabola del seminatore (letta domenica scorsa) introduce il discorso centrale dell’evangelo di Matteo, mettendo in evidenza il tema della rivelazione dei misteri del Regno dei cieli (cfr. Mt 13,11), ovvero la presentazione della realtà nascosta dell’intervento divino in Gesù di Nazaret e la dinamica storica della sua crescita.
Le tre parabole che seguono, infatti, sono abitualmente chiamate «parabole della crescita», in quanto presentano il mistero del Regno con immagini che presentano fenomeni naturali di crescita; tuttavia l’elemento che caratterizza le parabole di questa domenica è il contrasto.
L’alleluia all’Evangelo richiama l’intermezzo redazionale (vv. 34-35) che può diventare la chiave di lettura di tutta la costruzione:
1. viene dunque sottolineato che l’uditorio è la folla;
2. che con essa Gesù non usa altro mezzo comunicativo che non sia parabolico;
3. tale metodo trova riscontro in un versetto salmi [Sal 77 (78),2] che Matteo cita come detto profetico, per sottolinearne il valore di parola ispirata e relativa al Cristo.
Prosegue il paradosso di una salvezza nascosta agli scribi e ai farisei, ma rivelata agli umili che seguono Gesù, il Figlio eterno del Padre.
L’intento di queste parabole è dunque una rivelazione e i destinatari privilegiati sono i discepoli: al v. 36a, infatti, la scena cambia, Gesù lascia la folla e si ritira in casa coi soli discepoli e a loro in privato «spiega». Il contrasto che noteremo nei racconti parabolici è già presente nella cornice narrativa che inquadra l’evento storico di Gesù.
Nel grande «discorso di parabole», dopo quella del seme della Parola, viene la parabola relativa al seme buono ed alla zizania, intervallata da altre due, del granello di senape e del lievito. Per la struttura e il contesto del brano evangelico si veda la Dom. XV. Tuttavia la seconda parte del «giorno delle parabole» di Matteo è una combinazione di materiale tratto da Marco, dalla speciale tradizione matteana e dallo stesso Matteo: la parabola del grano e della zizzania (13,24-30), la parabola del seme di senape (13,31-32), la parabola del lievito (13,33), i motivi per cui Gesù parla in parabole (13,34-35), la spiegazione della parabola del grano e della zizzania (13,36-43), la parabola del tesoro nascosto (13,44) e della perla (13,45-46), la parabola della rete da pesca (13,47-50), e la parabola del padrone di casa (13,51-52). Matteo ha utilizzato Marco per 13,31-32.34-35. Probabilmente ha composto personalmente le due spiegazioni (13,36-43.49-50). Il resto (13,24-30.33.44-48) è molto probabilmente da attribuire alla speciale tradizione che si trova solo in Matteo.
La parabola della zizania, ossia: il mistero della convivenza, nel regno dei cieli, dei buoni e dei cattivi. Questa parabola, di cui sarà data una esplicita interpretazione dal Signore in questo stesso «discorso» (vv. 36-43), ha per scopo principale di inculcare nei «figli del Regno» (v. 38a) la necessaria pazienza nel sopportare la presenza e la convivenza dei «figli del male» (v. 38c), e allo stesso tempo, la fede nel giudizio finale di Dio che assegnerà a ciascuno la sorte che si sarà meritata.
La parabola è propria di Matteo: ad essa si avvicina in parecchi punti la parabola, propria di Marco, del seme che cresce senza che il contadino sappia come (4,26-29); ma il suo insegnamento specifico è diverso.

Esaminiamo il testo

vv. 24-30 Mentre il racconto parabolico risale sostanzialmente a Gesù di Nazaret, la spiegazione che viene dopo è considerata una creazione della comunità cristiana primitiva.
La parabola si basa su una serie di contrapposizioni o antitesi tra il proprietario del campo e il suo avversario, tra il grano e la gramigna, tra il tempo presente della semina e della crescita e il tempo futuro della mietitura, tra il granaio dove finisce il grano e il fuoco dove è bruciata la zizania.
Il motivo centrale del racconto sembra essere il dialogo tra il proprietario e servi, più esattamente l’impazienza di questi e l’atteggiamento paziente di quello.
La parabola vuol evidenziare l’imprevidenza dei primi e la saggezza del secondo, che comprende come sia impossibile estirpare subito la zizania senza danneggiare anche il grano.
Che cosa intendeva dire Gesù?
Per trovare una risposta cerchiamo di ricostruire la specifica situazione della sua esistenza, nella quale collocare il racconto parabolico:
1. Cristo aveva annunciato la venuta del regno di Dio;
2. aveva anche compiuto i segni miracolosi che lo rendevano presente;
3. l’ora decisiva della salvezza era risuonata nella sua attività messianica;
4. una febbrile attesa aveva contagiato gli ascoltatori.
Secondo la parola dei profeti il messia avrebbe riunito intorno a sé una comunità di puri e di santi, dopo aver condannato i peccatori alla perdizione ultima. Un esempio è dato da Is 60,21-22.
Al contrario nessuna comunità di santi era stata da lui costituita; né egli aveva condannato al fuoco eterno i peccatori, anzi li accoglieva con misericordia, rifiutandosi di fare il giudice definitivo separatore dei buoni dai malvagi.
La crisi del Battista (cfr. 11,2-6) era causata appunto da questo suo sorprendente atteggiamento; lo stesso Giovanni Battista annunciava un Messia col ventilabro in mano per pulire la sua aia, raccogliere il grano e bruciare la pula (cfr. 3,12). Di fronte invece al ministero di Gesù, mite e umile di cuore (11,29), che non spezza la canna incrinata e non spegne il lucignolo fumigante (Is 42,3 applicato a Gesù in Mt 12,20), si poneva il problema della sua messianicità e la continuata presenza dei cattivi rendeva dubbia la presenza del Regno di Dio.
Questa parabola dunque risponde a tali obiezioni sommerse e con un linguaggio apocalittico presenta l’imminenza della mietitura e l’inevitabile separazione e diversità di sorte; ma tutto questo è prospettato come evento futuro, fa parte del discorso che il padrone rivolge ai servi sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’erbaccia. La separazione finale è chiaramente annunciata, ma l’attenzione è posta sul presente: «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura».
La pazienza è la nota che emerge dai contrasti fra il padrone e il nemico, il buon seme e la zizzania, la mentalità dei servitori e quella del padrone: ecco un mistero del Regno di Dio rivelato ai discepoli. L’umile presenza di Gesù, il seme della sua parola è in realtà l’intervento decisivo di Dio e la separazione è determinata dall’accoglienza o dal rifiuto di questa presenza, ma sarà palese, e drammatica, solo in futuro.
La parabola di Gesù raccontata dalle prime generazioni cristiane trovò nell’ambiente ecclesiale il terreno adatto per una interpretazione di attualità, ma ancora oggi la Chiesa continua a sentire come uno scandalo la presenza al suo interno di buoni e di cattivi e corre sempre il rischio di un integralismo fanatico o di un qualunquismo disimpegnato.
Gesù dovette fronteggiare dunque l’impazienza messianica dei suoi e lo fece con questa parabola, distinguendo fra il tempo presente, in cui buoni e cattivi vivono gomito a gomito nel mondo e il tempo futuro, l’ultimo, della separazione definitiva. Gesù rivela ai suoi «il mistero della pazienza», lasciando a Dio il compito del giudizio, senza dimenticare che tale giudizio sarà decisivo.
«Un’altra parabola»: con questa formula sono introdotte le tre parabole del primo gruppo (cfr. vv. 31 e 33) indirizzate alle folle, mentre le altre tre del secondo gruppo (del tesoro, della perla e della rete) che hanno per uditori i soli discepoli sono prive di ogni formula introduttiva.
«espose loro»: Dopo aver insistito all’inizio sul carattere pubblico dell’insegnamento di Gesù (vedi Mt 13,l-3a), la parte principale delle istruzioni di Gesù fino a questo punto (13,10-23) è stato un insegnamento privato ai discepoli. Dal punto di vista narrativo, il «loro» dovrebbe riferirsi ai discepoli di Gesù. Ma Mt 13,34 («Tutte queste cose Gesù disse alla folla con parabole») presuppone che il pubblico di Mt 13,24-33 sia appunto la folla.
«Il regno dei cieli è...»: con questa frase hanno inizio tutte e sei le parabole che, perciò, sono chiamate «del Regno». Naturalmente il paragone del «regno dei cieli» con una data realtà o situazione della vita di quaggiù tocca via via dei singoli aspetti della complessa realtà del Regno.
«è simile a un uomo che»: Il regno dei cieli è simile al quadro complessivo tracciato in Mt 13,24b-30, non al solo seminatore. Come in Mt 13,3b-9, il seme e il ciclo di crescita vengono usati per illustrare la natura del regno di Dio. L’espressione tipicamente matteana «il regno dei cieli» sta per «il regno di Dio».
v. 25 «mentre tutti dormivano»: Dato che un motivo analogo si trova nella parabola del seme che cresce da solo (Me 4,26-29), molti vedono in questa parabola di Matteo uno sviluppo o un sostituto della parabola di Marco. Le due parabole però danno ciascuna un quadro diverso del presente in attesa della pienezza del regno: crescita senza intoppi (Mc 4,26-29) e un misto di bene e di male (Mt 13,24-30).
«la zizania»: zizania è un vocabolo greco plurale che ha dato origine al nostro "zizzania". E’ una graminacea i cui semi si coprono di una specie di muffa lievemente inebriante, donde il nome latino "ebriacum".; i suoi chicchi, se misti al grano, ne rendono amara e malsana la farina. Il termine ebraico è zùn e quello aramaico zuna, che i rabbini associavano alla radice znh («commettere fornicazione») alla quale attribuivano gli eccessi sessuali nel mondo vegetale prima del diluvio.
Il termine italiano più specifico è "loglio" e deriva dal latino, ma è stata la parola "zizzania" a vincere proprio sulla base dell’odierna parabola di Gesù. Si pensi all’espressione "seminare zizzania" da noi usata per definire l’opera di chi genera discordia e odio.
Come in molte altre occasioni, Gesù attinge alla vita quotidiana dei suoi ascoltatori ai quali fa balenare il mistero di Dio attraverso paragoni, immagini e simboli desunti dalla loro esperienza. In questo caso rievoca un dato ben noto ai contadini: il loglio, in primavera, non si distingue dal frumento o dall’orzo; al tempo della mietitura, invece, diventa più riconoscibile perché più corto, sgraziato e senza spighe.
La parabola diventa, così, facilmente trasparente.
Il grano e la zizania, cioè il bene e il male, crescono insieme in un intreccio che l’uomo non è in grado di districare: è solo il Signore che lo potrà fare a suo tempo.
Il bene e il male, i santi e i peccatori nella storia convivono gli uni accanto agli altri.
«Vuoi che andiamo ad estirparla»: C’è lo zelo ardente di chi vorrebbe fare giustizia da solo; non è diffìcile nello zelo di questi servi riconoscere l’attesa impaziente del giudizio escatologico, dominante in molti gruppi religiosi del giudaismo del tempo. Attesa che si faceva sentire sempre più forte alla vista del male trionfante nel «secolo» presente e spingeva i «giusti» a separarsene; tale il caso, almeno di nome, dei Farisei (= separati), tale in modo particolare il caso degli Esseni di Oumran che si erano rifugiati nel deserto e avevano intrapreso, quali «figli della luce», la loro «guerra» ai «figli delle tenebre» con il segreto intento di affrettare il «giorno» dell’ira purificatrice di Jahavè. Segni di tale impazienza non mancano né nella storia evangelica (cfr. Lc 9,54-55), né in quella della Chiesa primitiva (cfr. 2 Ts 2,2; 2 Pt 3,8-9; Ap 6,10).
Gesù, invece, invita a condividere la pazienza e l’attesa di Dio, a non essere fanatici giustizieri, invita a imparare dalla tolleranza divina che lascia al peccatore fino all’ultimo la possibilità della conversione (cfr. I lett. v. 19; Is 11,23).
«C’è una tolleranza che è sinonimo di indifferenza; non è certo il caso della parabola, che parla di una tolleranza generata dall’amore» (di B. Maggioni, biblista).
«al tempo della mietitura»: La mietitura era un simbolo usuale nell’A.T. per indicare il giorno del giudizio ultimo: cfr. Is 17,4-6; 27,12; Os 6,11; Gl 4,13; ripreso anche dagli evangelisti: Mt 3,12; Mr 4,29; Ap 14,14-20.
vv. 31-32 La parabola del granello si senape, comune a tutti e tre i Sinottici, è riferita da Luca, insieme all’altra del lievito, nella sezione del «grande inciso».
Il concetto base della parabola sta nel contrasto; il grano di senape deve essere stato proverbialmente piccolo (v. 17,20), ma non è il più piccolo dei semi, nè la pianta (più propriamente un cespuglio che cresce fino all’altezza di 3-4 m) è particolarmente alta. È una parabola profetica, che rimanda a testi molto densi.
Anzitutto a due parabole di Ezechiele: la prima 17,1-10 sulla deportazione di Joiachìn e l’incoronazione di Sedecia da parte di Nabucodònosor nel 597; a cui segue, dopo la spiegazione in prosa, l’annunzio della restaurazione futura relativa al Re messianico. Questi sarà come una piccola cima di cedro che il Signore pianterà e diverrà un albero imponente, in cui verranno gli uccelli a porre il loro nido, così che tutti gli alberi della foresta conosceranno il Signore, che abbatte i superbi ed innalza gli umili.
La seconda (31,1-18) è simile, di segno contrario e conclusione analoga. Questa volta l’albero maestoso è il faraone re d’Egitto (sicuramente dal v. 10 in poi) che esagerando nella sua spropositata superbia fu abbattuto dal Signore per mezzo di Nabucodònosor.
Una terza parabola profetica che si può richiamare è quella di Dan 4.7-24. dove l’albero in cui vengono gli uccelli a fare il nido per la sua maestà è Nabucodònosor, anche lui abbattuto per la sua superbia.
Altri esempi li troviamo nella profezia messianica di Is 10,33-11,1; Gdc 9,15; Bar 1,12.
v. 33 Questa parabola, più domestica, si trova in Qunràn ed è narrata anche da Luca; come la parabola del grano di senapa illustra la crescita irresistibile del regno da modesti inizi. La similitudine è ripresa da Gen 18,6, dove Sara prepara il pane per i Tre Personaggi che visitano Abramo.
Il tema del lievito è ripreso diverse volte nel N.T. (cfr. Lc 13,20-21; 1 Cor 5,6; Gal 5,9), per la sua familiarità e per il suo facile significato.
«in tre misure di farina»: la quantità di farina impastata (circa 145 Kg) è esagerata per far risaltare meglio il concetto. La piccola quantità di lievito fermenta con potenza tutta la farina (leggi omelia 46. 2-3 di San Giovanni Crisostomo, vescovo).
vv. 34-35 In Marco questi versetti concludono la raccolta delle parabole, mentre Matteo pur seguendo l’ordinamento generale vi aggiunge altre parabole. Le parabole sono una forma di rivelazione, non di occultamento. Il concetto è ulteriormente sviluppato da una citazione di compimento (come ad esempio in 1,22-23). Il testo citato è indicato come parola di un profeta, mentre la fonte è il Sal 77(78),2, il cui autore è Asaf, chiamato il «profeta» che dichiara di voler comporre un mashal (un racconto, una parabola appunto), cioè un poema didattico allo scopo di narrare e spiegare l’azione misteriosa di Dio lungo il corso della storia del suo popolo: il sapiente salmista inizia la lezione chiedendo l’ascolto attento del popolo e annunciando la presentazione delle antiche vicende, eventi lontani e sepolti nella memoria. Proprio questo interessa l’evangelista: l’oggetto dell’annuncio è presentato col participio greco «kekrymména», cioè «cose nascoste» ed in queste cose Matteo vede adombrati i «misteri del Regno», rivelati ai piccoli-discepoli e tenuti nascosti agli intelligenti-farisei.
vv. 36-43 L’evangelista in questi versetti (propri di Matteo) dà alla parabola una spiegazione marcatamente allegorizzante, che fa pensare a una data di composizione posteriore e sembra rispondere ad un problema fortemente sentito nella Chiesa primitiva.
Gesù lascia le folle, entra in casa e la sua parola è riservata ai discepoli.
Il brano si divide in due parti: i vv. 37-39 sono una specie di arido vocabolario che identifica sette elementi della parabola; la seconda parte invece (vv. 40-43) è una sintetica descrizione di carattere apocalittico del giudizio ultimo.
Matteo in tutto il suo evangelo mostra uno speciale interesse per il tema del giudizio.
La parabola della zizania, che in origine contraddiceva l’impazienza messianica del popolo e dei discepoli, diventa ora una presentazione del giudizio nel suo esito opposto di condanna e glorificazione, descritto con immagini stereotipate di marca veterotestamentaria (cfr. Dan 12,3).
Il centro di interesse viene spostato dal presente, che il racconto di Gesù intendeva come tempo di coesistenza tra buoni e malvagi, al futuro.
L’evangelista è proteso a scuotere i credenti della sua comunità dal torpore e dalla tiepidezza, invitandoli a vivere secondo la volontà del Padre espressa nel comandamento dell’amore del prossimo. L’appartenenza alla comunità non garantisce infatti la salvezza finale; l’evangelista combatte la falsa sicurezza dei cristiani che, fiduciosi negli elementi istituzionali e sacramentali della chiesa, trascurano concretamente la legge rivelata dal Signore.
Inglobate da questa «duplice» parabola, le immagini della senape e del lievito vengono poi ad aggiungere una nota particolare alla rivelazione del Regno: c’è un enorme contrasto fra il punto di partenza e quello di arrivo, cioè fra la piccolezza del seme e la grandezza dell’albero, fra la pochezza del lievito e la massa trionfante della pasta lievitata. Il mistero della crescita del Regno è segnato da questo contrasto, ovvero dalla imprevedibilità dei suoi sviluppi. Quello che i discepoli vedono è piccola cosa rispetto alle grandi aspettative; eppure è già tutto lì, come nella potenzialità del seme e del lievito, la gloria del Regno che deve manifestarsi, superiore ad ogni desiderio o attesa.
v. 43 - «Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!»: Ed ecco finalmente la gloria dei beati. I giusti, i figli del Regno, il seme buono, brilleranno come il sole nel Regno (Dan 12,3). Essi sono trasformati dalla Luce divina increata, e la loro sorte annunciata (Sap 3,7; Pr 4,18), adesso avverata (1 Cor 15,41-42). E questa è la divinizzazione dei giusti, in uno dei suoi aspetti maggiori.
La clausola finale, che ripete il v. 9 (ma anche 11,15), è: «L'avente orecchi, ascolti». Di più non è da dire se non lodare e adorare.

Antifona alla Comunione Sal 110,4-5
Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi:
buono è il Signore e misericordioso,
egli dà cibo a coloro che lo temono.

Nell’antifona alla comunione: (Sal 110,4-5a, I) ci viene ricordato che il Signore va glorificato e magnificato sempre, poiché stabilì il memoriale perenne delle sue «gesta mirabili» (Es 12,14; 13, 9). Queste proseguono nel loro effetto, essendo Egli Gratificante e Tenero (Es 34,6; A. T., Domenica della SS. Trinità). Tra queste gesta, la prima è il Cibo divino della Parola e del Convito, donato ai fedeli, i suoi timorati, che vogliono eseguire la sua Volontà, per essere con il Figlio i «figli del Regno» nella Grazia dello Spirito Santo, la Chiesa comunità di amore e seme di bene.

II Colletta
Ci sostenga sempre, o Padre,
la forza e la pazienza del tuo amore;
fruttifichi in noi la tua parola,
seme e lievito della tua Chiesa,
perché si ravvivi la speranza
di veder crescere l'umanità nuova,
che il Signore al suo ritorno
farà splendere come il sole nel tuo regno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...





lunedì 14 luglio 2014
Abbazia Santa Maria di Pulsano

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