Alberto Vianello"Credere vuol dire ricredersi "

Letture: Ez 18,25-28; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32
Monastero Marango Caorle (VE)
Gesù racconta la parabola di due figli che rispondono all’invito del padre ad andare a lavorare nella vigna: uno dice «no» e poi fa «sì», l’altro dice «sì» e poi fa «no». Ambedue non sono perfetti e coerenti. Questo sta a dirci che l’uomo, in rapporto a Dio, non può aspirare ad una perfezione, che non può raggiungere e che lo fa schiantare davanti alle proprie imperfezioni:
sempre deluso e tradito da se stesso.
Forse questo è il caso del secondo figlio: quello che dice «sì» al padre, ma poi non fa. Il suo «sì» può non esprimere una falsa disponibilità immediata, e, invece, essere stato dettato dalla considerazione di quello che avrebbe dovuto rispondere un figlio perfetto. Solo che lui non lo era, come si vede poi nel suo comportamento, e come non lo siamo tutti noi. Così sperimenta la sua incoerenza tra il dire e il fare, che viene dalla non corrispondenza tra il figlio perfetto che vorrebbe presentare di sé e il figlio imperfetto che invece è.
Nella nostra relazione con il Signore sperimentiamo tante nostre ipocrisie e falsità. Non sempre perché noi siamo tali di natura: ma perché vorremmo atteggiarci a persone umane perfette e corrispondenti di fronte a Dio. E invece non lo siamo. La via giusta non è quella della perfezione, ma quella della disponibilità a mettersi in discussione e a ricredersi quando sperimentiamo le nostre imperfezioni.

È quello che fa il primo figlio: «Rispose: “non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò». Il verbo del pentimento qui usato da Matteo è meno forte di quello tradizionale, presente nel caso più tragico: «Giuda, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso (letteralmente: «pentitosi»), riportò le trenta monete…» (Mt 27,3). Invece, nel nostro testo, il pentimento non nasce dal veder crollare tutto davanti alle conseguenze esterne negative del proprio comportamento sbagliato, come per Giuda. Il verbo usato indica, invece, un cogliere se stessi attraverso un modo diverso di sentire o sentirsi. È il convertire, rimettere in discussione la presunzione e l’affermazione del “faccio ciò che mi sento”: quello che faccio, forse, è dettato da un sentire sbagliato, che devo essere capace di mettere in discussione.
Convertirsi non vuol dire da cattivi diventare buoni, da imperfetti diventare perfetti. Il primo passo da fare – quello sufficiente ad aprirci le porte del Regno, dice Gesù - consiste semplicemente nella disponibilità a ricredersi sul sentire che detta le nostre relazioni e i nostri comportamenti.
Il primo figlio va nella vigna con l’umiltà di ogni gesto del suo lavoro che smentisce la sua presa di posizione di fronte al padre, il suo precedente dire e quindi tutto quello che era stato il suo modo di sentire. Avrebbe salvato la faccia se fosse rimasto coerente con il suo «no» iniziale e avesse presentato tutte le ragioni che lo giustificavano, se avesse poi dato la sua disponibilità a condizioni diverse. Così, invece, smentisce se stesso. Ma proprio questa è la via del successo: quella di mostrare la forza umana, per Dio, del ricredersi.

Poi Gesù applica la parabola alla realtà: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Sono le due categorie sociali peccatrici per antonomasia. Il «passare avanti» non indica solo un precedere: significa, invece, che vi entrano per primi, occupano il posto che spettava ad altri. In sostanza vuol dire: «prendono il vostro posto».
Più forte e provocatorio di così Gesù non poteva essere: ma è la sua figura e la sua missione che sono tali. Egli sta parlando «ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo» (v.23): le persone religiosamente più perfette e più in vista (a quali categorie si potrebbe applicare oggi?!...). Proprio a questi Gesù dice che i peggiori peccatori prenderanno il posto che a loro spettava nell’ambito di Dio e nella realizzazione di tutta la sua opera (il Regno). Semplicemente perché loro «almeno si sono pentiti». Hanno accolto in Giovanni Battista e poi in Gesù l’occasione per ricredersi, per mettere in discussione se stessi, per cogliersi in maniera diversa, per rendersi disponibili al cambiamento.
Purtroppo, certi apparati religiosi (anche molto sofisticati e teologicamente organizzati) finiscono col diventare delle fortezze inespugnabili, che nemmeno Dio sa scalfire, nelle certezze della propria perfezione: «Io sono preparato, ho ricevuto incarichi importanti, mi sono impegnato… sono gli altri che devono cambiare e progredire…».
La via insieme a quelli che sperimentano, nella propria vita tanti «no» a Dio e per questo si colgono tanto imperfetti da mettersi in discussione è la via più autentica della fede, per mettere in atto un «sì» che trasformi poi anche il proprio dire in un «sì» al Signore.

Alberto Vianello

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