Giuseppe Di Stefano"Sogni, delusioni e ostinatezza di Dio"

5 ottobre 2014
XXVII Domenica
«Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna» (Is 5,1). È così che si apre la liturgia della Parola di oggi, suggerendo al nostro cuore il volto di un Dio innamorato, inguaribilmente innamorato della sua creatura, un Dio che canta il suo amore per il suo popolo. Sì, perché l’amore è canto, ritmato dallo Spirito sulle corde del nostro spirito, è passione, ostinata passione di Dio per il suo diletto, per ciascuno di noi.

Nella parabola che oggi ci viene proposta, Gesù riprende l’immagine della vigna presente nel poema del profeta Isaia, e la rilegge alla luce della storia della salvezza. È la storia di Dio e del suo popolo, un intreccio di fedeltà e rifiuto. La vigna è il popolo d’Israele, il padrone è Dio, i contadini sono i capi del popolo, i servi sono i profeti e il figlio è lo stesso Gesù. Al centro di tutto c’è il sogno di Dio, la sua passione, il suo amore ostinato per l’umanità. Amore che si traduce nel prendersi cura della vigna: circondandola con una siepe, scavando un frantoio, costruendo una torre per vigilare su di essa e custodirla, come una sentinella. Il padrone della vigna fa tutto il possibile, non lascia nulla al caso…. L’amore non si improvvisa, è frutto di piccole attenzioni che ti fanno percepire speciale, desiderato, semplicemente amato.
Ma ad un certo punto siamo spiazzati dall’agire di questo padrone, che, dopo tanta cura e tanti sacrifici, affida la sua vigna a dei contadini e parte per un viaggio. Chi di noi l’avrebbe fatto? Chi mai avrebbe agito così? Eppure, il tempo dell’«assenza» del padrone è il tempo della responsabilità, della nostra risposta a Dio, al suo agire premuroso nei nostri confronti, a fare nostro lo stile di Dio: prendersi cura dell’altro, senza possederlo. Perché l’amore, quando è vero, genera orizzonti di libertà, spazi sconfinati in cui ritrovarsi o perdersi…
Al tempo opportuno, il padrone, dopo tanta cura e tanto lavoro, invia un servo nella vigna per raccogliere i suoi frutti, ma la faccenda, immediatamente, precipita. I contadini bastonano il povero servo che torna a casa malconcio e a mani vuote. I ripetuti e ostinati tentativi del padrone, che invia altri servi, ottengono un risultato sempre peggiore: sono picchiati, rifiutati e persino uccisi. C’è un fortissimo contrasto tra la tenerezza appassionata del padrone, che pianta e si prende cura della vigna, e la furia omicida dei contadini che fanno piazza pulita dei servi. Siamo di fronte alla storia di Dio e del suo popolo, storia del sogno di Dio, del suo inguaribile e ostinato amore che non si ferma neppure davanti alla delusione, al tradimento, al rifiuto da parte del popolo e dei capi, e continua a mandare i suoi profeti.
Ma ecco il secondo e più drammatico colpo di scena: il padrone non stermina i vignaioli ribelli, anzi a loro invia il proprio figlio amato, il quale non si sottrae alla stessa sorte degli altri servi. Così facendo, il figlio, pur accomunato nella morte a tutti i testimoni scomodi della verità, passati e futuri, svela con la sua morte, i tratti di una inattesa, quanto inaudita novità.
Gesù sulla croce non mette fine alle contraddizioni e alle storture della storia, ma si mette dentro fino in fondo. E lì, appeso al legno della croce, illumina la storia del mondo e degli uomini e si fa solidale con essi, escluso tra gli esclusi, raggiunge e abbraccia tutti.
Ecco la vendetta di Dio: inviare il Figlio amato, l’unico Figlio, amare l’uomo ostinatamente, fino alla follia. Gesù sulla croce, non cede al meschino ricatto dei suoi crocifissori che vorrebbero una dimostrazione di forza e di potenza da parte sua. Lui non scende dalla croce, rimane lì inchiodato, osteso, nudo, impotente, e da quel legno infamante, svela al mondo la vera e inaudita potenza della debolezza, la potenza scomoda e disarmante dell’amore.
Dio avrebbe potuto dirci il suo amore in molti modi, ma non ha voluto lasciare spazio alle interpretazioni, ai fraintendimenti…. Altro è usare dolci e consolanti parole, altro è appenderle a tre chiodi, sospesi tra cielo e terra. E sulla croce, da quel corpo reso irriconoscibile dalla barbarie umana, arato dai flagelli, tumefatto dai colpi e dalla tortura, è torchiato il vino nuovo, il vino della misericordia scaturito dal fianco trafitto di Cristo, sangue versato per noi e per tutti.

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