Luca Desserafino sdb"Fammi conoscere, Signore, le tue vie."

   28 settembre 2014 | 26a Domenica A | T. Ordinario | Omelia di approfondimento
La liturgia di questa XXVI domenica del tempo ordinario, sulla scia delle scorse domeniche continua a chiederci di seguire il Signore in un modo che pare fuori da una logica umana, perché trova il fondamento di ogni credere in quell'amore "folle" della croce, per il
quale il Figlio di Dio è passato e ci ha rivelato l'amore del Padre. In questo vengono prospettate due vie che si aprono davanti a ciascun credente: la via del rifiuto e la via dell'assenso filiale alla volontà del Padre.

L'umanità che cammina nel tempo e nella storia verso la meta dell'incontro con il suo Signore è chiamata ad attuarsi, cioè a con-formare, a plasmare, il suo esistere sull'esistenza del Risorto, riconoscendo in Lui quel legame d'amore col Padre che pone il senso e indica la giusta direzione.

Il profeta Ezechiele, nella prima lettura odierna, invita i suoi contemporanei ad "ascoltare il Signore". In un tempo di sofferenze e deportazioni per il popolo d'Israele, la speranza delle promesse che il Signore aveva fatto con esso, vacillava. Ora che la situazione pareva fosse stabilizzata, sembra che il Signore, con nuove vicende e avvenimenti, voglia mostrare qualcosa d'altro al suo popolo.

Ezechiele è mandato a manifestare al popolo una verità; la verità che il Signore, Dio d'Isarele non è legato ad un luogo o ad un tempio. La gloria del Signore si manifesta anche in quella terra pagana di deportazione in cui il popolo si trova. In questo modo la promessa di essere sempre con il popolo, non decade da parte di Dio, ma anzi viene, con chiarezza affermata la sua sovrana universalità.

Il Signore è un Dio vicino al popolo, e per contro a tutti i credenti in Lui, in ogni parte del creato, perché non è il luogo di culto ciò che principalmente conta, ma vivere la personale relazione con Lui.

La seconda lettura, tratta dalla lettera di san Paolo ai Filippesi, non ci è nuova, in quanto è stata proclamata qualche domenica fa, per la festa dell'esaltazione della croce. Nonostante abbiamo già commentato la seconda parte del brano in quell'occasione, vorei soffermarmi sulla prima parte della pericope.

Paolo invita i cristiani della comunità all'unità, unità che è fondata da Cristo stesso e alla quale ogni credente deve riferirsi. "Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso". E poi indica tale atteggiamento come parametro del vivere di ciascuno, questo perché il riferimento a cui egli guarda è Cristo stesso, il quale "non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini"; è la logica dell'amore che si dona fino in fondo, dell'atteggiamento delineato nel farsi servo, cioè del farsi carico nell'amore e per amore, dei fratelli e delle sorelle; ma di questo già ci siamo occupati nel precedente commento.

Quello che ora vorrei mettere sotto l'attenzione di ciascuno è proprio il versetto che apre questo inno cristologico, e recita "Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù".

L'Apostolo ricorda a tutti i battezzati che ciò a cui essi devono tendere, in qualsiasi condizione si è chiamati a vivere, è la profonda unità con Cristo. Il coltivare questa relazione di fede in maniera così profonda da avere e possedere nella vita, quel "sentire" amorevole del cuore di Gesù. Certo a questo siamo chiamati come uomini, come umanità in cammino, redenta dalla croce di Cristo, e di questo bisogna esserne consapevoli per non lasciare spazio a interpretazioni false e falsanti della Scrittura e ingenerare comportamenti non idonei alla fede in Cristo.

Ma nonostante ciò, ogni credente è chiamato, ci ricorda Paolo, a vivere il suo essere cristiano, nella condizione storica in cui si trova, guardando a quell'amore pieno che Gesù stesso ci manifesta e a fare altrettanto, a riproporre in noi, nella nostra vita e con i fratelli che ci stanno accanto, questi santi sentimenti che scaturiscono dal cuore stesso della Rivelazione.

Il brano del Vangelo di Matteo, proposto in questa liturgia, è uno dei brani propri di questo Vangelo; un testo, probabilmente che si riferiva alla cosidetta tradizione orale e poi fissato in forma scritta in tale Vangelo.
All'inizio del brano c'è una condizione che salta subito all'occhio: "un uomo aveva due figli". Si tratta di una relazione che mette sullo stesso piano i due, essi condividono una figliolanza diretta con questo padre, hanno una comune provenienza. La situazione presentata dopo, seppur di identica presentazione, differisce dal risultato.

Un figlio, dopo essersi sentito chiamare proprio con l'appellativo che rimarca la relazione essenziale della sua vita, si sente dare un ordine forte e immediato. La prima reazione è dettata dall'impulso non riflesso, da una passionalità soltanto emotiva e trasparente: la volontà di non andare a fare quanto gli era stato indicato. La prima risposta, però, non risulta "quella che conta". Infatti subentra un'analisi pura e semplice di quanto egli aveva appena detto e questo suscita rimorso e una decisione esattamente contraria.

La seconda interpellazione è piuttosto diversa rispetto alla prima. Egli mette la sua persona al centro di tutto, mostrando una identità di rapporto per nulla filiale, ma servile nei confronti del proprio genitore, come se stesse difronte al proprio padrone al quale non può opporre un rifiuto.

Questo figlio dai connotati poco filiali conclude la sua presenza nella narrazione facendo esattamente il contrario di quello che aveva promesso. Da qui la precisa domanda di Gesù sull'accaduto diretta all'agire concreto dei personaggi del racconto. La risposta degli interlocutori è chiara: la realtà indica che soltanto il primo dei due figli ha realizzato quanto il genitore gli aveva ordinato e quindi non è possibile per nessuno rispondere diversamente.

La risposta della "classe dirigente" giudaica è precisa, ma insoddisfacente. Applicando il detto sul regno alla parabola il testo fa capire che nel figlio che dice di sì e disubbidisce sono simboleggiati gli interlocutori giudaici di Gesù, mentre in quello che dice di no e si pente i pubblicani e le prostitute.

Nel quadro della versione matteana anche questo brano risulta una rilettura della decisione degli umani difronte alla proclamazione del regno di Dio. Da qui il testo evangelico propone due livelli di discorso. Il primo, parabolico, nel quale vengono posti in gioco i rapporti basilari nell'esperienza di ogni essere umano, quelli intrafamigliari. In ciò, fare la volontà di Dio significa, portare avanti la sua opera nella propria vita e nella storia. Il secondo livello interpreta il primo, radicandolo direttamente nella concretezza esperienziale della vita cristiana.

Si tratta della fede autentica, poiché per entrare nel regno di Dio, occorre non anzitutto dire la verità, ma preoccuparsi che essa sia fatta, accogliere Gesù attraverso la propria sequela nei suoi confronti, cioè essere figli degni della libertà d'amore del Padre, il quale non pretende degli assensi istantanei ad ogni costo.

Fare la volontà del Padre implica capire quale essa sia, dunque operare un discernimento costante e quotidiano nelle nostre giornate, settimane, mesi, anni, eccetera.

Chi tenta di essere cristiano deve porsi un solo obiettivo: non cercare di prendere a Dio un'aureola, prima ancora di essersi resi utili all'instaurazione del regno dei cieli, né pretendere da Dio riconoscimenti e plausi prima di aver compiuto qualcosa di realmente buono.

                                                                                    Luca Desserafino sdb

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