padre Ermes Ronchi "Dio non si merita, si accoglie"
XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Vangelo: Mt 20,1-16
Il Vangelo è pieno di vigne, forse perché fra tutti i campi, la vigna è il preferito di ogni contadino, quello che coltiva con più cura e intelligenza, in cui si reca più volentieri. Questa parabola ci assicura che il mondo, il mondo nuovo che deve nascere, è vigna e passione di Dio; che io sono vigna e passione di Dio, il suo campo preferito, di cui ha cura uscendo per ben cinque volte, da
un buio all'altro, a cercare operai.
Il punto di svolta del racconto risiede nel momento della paga: comincia dagli ultimi della fila e dà a chi ha lavorato un'ora sola lo stesso salario concordato con quelli dell'alba. Finalmente un Dio che non è un «padrone», nemmeno il migliore dei padroni. Non è un contabile. Un Dio ragioniere non converte nessuno. È un Dio buono (ti dispiace che io sia buono?).
È il Dio della bontà senza perché, che crea una vertigine nei normali pensieri, che trasgredisce le regole del mercato. Un Dio che sa ancora saziarci di sorprese. «E mentre l'uomo pensa secondo misura, Dio agisce secondo eccedenza» (cardinale Carlo Maria Martini). Non segue la logica della giustizia, ma lo fa per eccesso, per dare di più. Vuole garantire vite, salvare dalla fame, aggiungere futuro. Mi commuove questo Dio che accresce vita, con quel denaro immeritato, che giunge benedetto e benefico, a quattro quinti dei lavoratori.
Gli operai che hanno lavorato fin dal mattino protestano, sono tristi, dicono «non è giusto». Non riescono a capire e si trovano lanciati in un'avventura sconosciuta: la bontà: «ti dispiace che io sia buono?». È vero: non è giusto. Ma la bontà va oltre la giustizia. La giustizia non basta per essere uomini. Tanto meno basta per essere Dio. Neanche l'amore è giusto, è altra cosa, è di più. Perché non si accende la festa davanti a questa bontà, perché non sono contenti tutti, i primi e gli ultimi? Perché la felicità viene da uno sguardo buono e amabile sulla vita e sulle persone. Se l'operaio dell'ultima ora lo sento come mio fratello o mio amico, allora sono felice con lui, con i suoi bambini, per la paga eccedente. Se invece mi ritengo operaio della prima ora e misuro le fatiche, se mi ritengo un cristiano esemplare, che ha dato a Dio tanti sacrifici e tutta la fedeltà, che ora attende ricompensa adeguata, allora posso essere urtato dalla retribuzione uguale data a chi ha fatto molto meno di me. Drammatico: si può essere credenti e non essere buoni!
Nel cuore di Dio cerco un perché al suo agire. E capisco che le sue bilance non sono quantitative, davanti a Lui non è il mio diritto o la mia giustizia che pesano, ma il mio bisogno. Allora non calcolo più i miei meriti, ma conto sulla sua bontà. Dio non si merita, si accoglie!
Vangelo: Mt 20,1-16
Il Vangelo è pieno di vigne, forse perché fra tutti i campi, la vigna è il preferito di ogni contadino, quello che coltiva con più cura e intelligenza, in cui si reca più volentieri. Questa parabola ci assicura che il mondo, il mondo nuovo che deve nascere, è vigna e passione di Dio; che io sono vigna e passione di Dio, il suo campo preferito, di cui ha cura uscendo per ben cinque volte, da
un buio all'altro, a cercare operai.
Il punto di svolta del racconto risiede nel momento della paga: comincia dagli ultimi della fila e dà a chi ha lavorato un'ora sola lo stesso salario concordato con quelli dell'alba. Finalmente un Dio che non è un «padrone», nemmeno il migliore dei padroni. Non è un contabile. Un Dio ragioniere non converte nessuno. È un Dio buono (ti dispiace che io sia buono?).
È il Dio della bontà senza perché, che crea una vertigine nei normali pensieri, che trasgredisce le regole del mercato. Un Dio che sa ancora saziarci di sorprese. «E mentre l'uomo pensa secondo misura, Dio agisce secondo eccedenza» (cardinale Carlo Maria Martini). Non segue la logica della giustizia, ma lo fa per eccesso, per dare di più. Vuole garantire vite, salvare dalla fame, aggiungere futuro. Mi commuove questo Dio che accresce vita, con quel denaro immeritato, che giunge benedetto e benefico, a quattro quinti dei lavoratori.
Gli operai che hanno lavorato fin dal mattino protestano, sono tristi, dicono «non è giusto». Non riescono a capire e si trovano lanciati in un'avventura sconosciuta: la bontà: «ti dispiace che io sia buono?». È vero: non è giusto. Ma la bontà va oltre la giustizia. La giustizia non basta per essere uomini. Tanto meno basta per essere Dio. Neanche l'amore è giusto, è altra cosa, è di più. Perché non si accende la festa davanti a questa bontà, perché non sono contenti tutti, i primi e gli ultimi? Perché la felicità viene da uno sguardo buono e amabile sulla vita e sulle persone. Se l'operaio dell'ultima ora lo sento come mio fratello o mio amico, allora sono felice con lui, con i suoi bambini, per la paga eccedente. Se invece mi ritengo operaio della prima ora e misuro le fatiche, se mi ritengo un cristiano esemplare, che ha dato a Dio tanti sacrifici e tutta la fedeltà, che ora attende ricompensa adeguata, allora posso essere urtato dalla retribuzione uguale data a chi ha fatto molto meno di me. Drammatico: si può essere credenti e non essere buoni!
Nel cuore di Dio cerco un perché al suo agire. E capisco che le sue bilance non sono quantitative, davanti a Lui non è il mio diritto o la mia giustizia che pesano, ma il mio bisogno. Allora non calcolo più i miei meriti, ma conto sulla sua bontà. Dio non si merita, si accoglie!
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