Alberto Vianello"Fatti per amare "

Letture: Es 22,20-26; 1Ts 1,5c-10 Mt 22,34-40
L’amore non lo si può comandare: penso che tutti condividiamo tale affermazione. Eppure l’amore non può essere lasciato alla spontaneità, al sentire immediato, al desiderio attuale: deve essere, appunto, in qualche modo impartito. Una delle caratteristiche della comunità cristiana di Tessalonica che Paolo lodava, nella seconda Lettura di domenica scorsa, era «la fatica dell’amore». Lavoro, impegno, sforzo, dedizione costante, pazienza, umiltà: sono le caratteristiche di un atteggiamento verso l’altro che sia dettato veramente dall’amore.

Così, nella prima Lettura di questa domenica, ci sono presentate delle «Leggi» che «comandano» l’amore verso alcune categorie di poveri. La legge codifica un atteggiamento dettato dalla carità.
Si deve accogliere il «forestiero», facendo memoria delle violenze subite come popolo, quando Israele era «in terra di Egitto»: tale ricordo nella carne spinge a far regnare nei rapporti la carità e non i diritti e i privilegi di cittadinanza. Questo prescrive la legge divina.
Anche riguardo a un credito non riscosso, non si può tenere in pegno «il mantello del tuo prossimo», a te debitore, «perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle, come potrebbe coprirsi dormendo?». Non prevalgono i diritti del creditore (il suo denaro, il suo prestito, la sua proprietà…): prevale la vita di un uomo, con la sua povertà. La Legge non si limita a difendere in qualche modo anche chi non ha diritti: essa afferma il prevalere comunque dell’umanità, e quindi della carità, su qualsiasi legittimo diritto.
Non c’è una legge che non spinga a quella perfezione di comportamento che è l’amore. E non c’è amore che non si lasci spingere da un «comandamento»: è una parola codificata da accogliere e mettere in pratica.

Nel brano del Vangelo, Gesù viene interpellato sulla dibattuta questione di «qual è il grande comandamento». Non è per far graduatorie, ma per stabilire una «gerarchia» nelle verità di fede e quindi nel proprio rapporto con il Signore.
Gesù afferma e dà esecuzione alla rivelazione dell’Antico Testamento: tutto deve essere caratterizzato dall’amore verso Dio. Questo è lo spirito con cui vivere il proprio rapporto con il Signore: in tutte le cose, grandi e piccole, ciò che le fa veramente grandi sta nel loro essere nell’amore e con amore. Tutto assume un senso dall’amore. Potrei fare le cose più grandi, ma senza vivere l’amore, «non sarei nulla… nulla mi servirebbe» (cfr. 1Cor 13,1-3). All’incontrario, il più piccolo gesto d’amore, come quello delle due monetine donate dalla povera vedova, possiede una pienezza di vita (cfr. Mc 12,41-44).

Ma Dio, nell’amore, non cerca tanto la reciprocità. Lui ci ama per primo: questa è l’essenza dell’amore (cfr. 1Gv 4,9-10). E noi siamo chiamati a riamarlo nei fratelli, suoi figli, come noi. È così che Lui si sente amato, tanto è estroverso nei confronti dell’uomo. Per questo Gesù aggancia al «grande e primo comandamento» dell’amore per Dio un «secondo che è simile: amerai il prossimo come te stesso». Costituiscono un unico e grande «comandamento»: dettato che viene da fuori di noi, perché non si ama veramente se non ci si mette applicazione, serietà, durata, compromissione, coraggio, dedizione…
Comandamento che non nasconde le altre persone dietro a una grande immagine di Dio. Al contrario, il volto di Dio si fa specchio perché, guardando a Lui, riconosciamo veramente il volto degli altri uomini, e li facciamo oggetto del nostro amore.
La rivelazione biblica è quella più radicale di tutte le religioni nel chiederci un vero culto, una vera dedizione non tanto a Dio, quanto ai fratelli. Se Dio è amore, e l’amore «non cerca il proprio interesse» (1Cor 13,5), ma quello di chi è l’oggetto del proprio amore, credo che Dio goda nell’essere trascurato nell’amore a vantaggio degli altri uomini. Non si amano i fratelli solo per amore di Dio (se Lui non ci fosse non li si amerebbe più!?). Si amano perché ci si riconosce amati da Dio e perché spinti ad amare gli altri, come Lui li ama.

L’amore verso Dio deve essere «con tutto il cuore, con tutta l’anima…». Implica una dedizione totale, senza riserve. Invece, per l’amore del prossimo, si usa un termine di paragone: «come se stessi». Ovvero: come ciò che ci è più vicino, come ciò che non possiamo fare a meno di amare, se no moriremmo. In tutti e due i casi, il riferimento è la propria umanità concreta: amare con tutte le proprie dimensioni personali e amare come si ama la propria vita. Tutto quello che siamo e tutto quello che sentiamo serve ad amare: Dio e gli altri. Uno ritrova se stesso essenzialmente amando, e nient’altro.

Alberto Vianello

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