fr. Massimo Rossi"il Regno dei Cieli è come un banchetto di nozze "

  Commento su Matteo 22,1-14
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (12/10/2014)
L'inizio del Vangelo di oggi è quanto di più promettente si possa desiderare...
Apprendere che il Regno dei Cieli è come un banchetto di nozze è notizia a dir poco eccitante...soprattutto per gli amanti della buona tavola! Coloro che invece soffrono di gastrite, o
sono comunque condannati a diete frustranti e crudeli, anche per loro si profila un'eternità migliore, nella speranza che, almeno in paradiso, i piaceri possiamo goderli fino in fondo, senza rischi e senza le noiose inevitabili controindicazioni di questo mondo.
Peccato che nelle ultime battute (del Vangelo) la mediocrità dell'uomo rovini l'incantesimo del banchetto. Del resto, che cosa ci può fare Dio, quando, all'ennesimo avviso di correre alla festa, si trova di fronte il solito opportunista che è convinto di poter mangiare a sbafo, senza neppure una parvenza di abito della festa? neanche Lui, neanche Dio, ci può fare niente!
Il nodo da sciogliere è: che cos'è questo abito della festa? non è certo un semplice vestito...niente di esteriore, insomma. L'abito della festa, l'abito nuziale è quella (profonda) condizione interiore che fa di noi delle creature convinte di aver ricevuto da Dio un'attenzione, un affetto, una premura del tutto immeritati, e per questo, sono riconoscenti di questo onore infinitamente superiore rispetto a ciò che si poteva meritare, onore gratuito, onore esagerato...
A me sembra del tutto legittima la reazione di quel re: santo cielo!! almeno un po' di gratitudine, per un lieto fine, ripeto, non solo immeritato, ma neppure previsto!
Matteo evangelista parla anche di dignità, in senso negativo ovviamente: la dignità degli invitati non consiste in particolari talenti personali: se così fosse, dovremmo con tristezza constatare che anche nella vita eterna si ragiona come qui, da noi... Al contrario, Dio non fa alcuna distinzione tra chi è dotato di carismi particolari e chi è normalmente mediocre. Ci chiede solo un po' di gratitudine! Rendere grazie è l'atteggiamento cristiano giusto e necessario per essere ammessi alla festa eterna.
In altri termini, l'Eucaristia è la dimensione giusta: forse, per molti fedeli, il momento della Messa non inteso e vissuto come l'occasione offerta dal Signore per manifestare la nostra gratitudine, a motivo di un dono così grande e, ripeto, immeritato, qual è il dono del corpo e sangue di Cristo.
Eppure, chiediamoci, se dalla nostra parte manca l'atteggiamento della gratitudine, che cosa rimane? Qual è il contributo personale che possiamo aggiungere a quello di Cristo? se non c'è neppure la gratitudine, la relazione tra noi e Dio si riduce ad una azione a senso unico: Dio compie un passo verso di noi, ma noi restiamo fermi, immobili sulle nostre posizioni. Che rapporto è quello nel quale una parte sola cammina verso l'altra e non riceve alcun riscontro, alcuna risposta, neppure un cenno di assenso?
In fondo Dio non ci chiede chissà quale prestazione eccezionale! Soltanto un grazie, detto non solo a parole, naturalmente, ma con tutto il cuore!
A nostra parziale discolpa, la gratitudine, non è innata nell'uomo; l'orgoglio invece sì!
E l'orgoglio si oppone sempre alla gratitudine, l'uno e l'altra insieme non possono stare, mai!
Ringraziare significa riconoscere che, se siamo arrivati fino a qui, non è stato tutto e solo merito nostro. Ringraziare significa riconoscere che da soli non ce l'avremmo fatta!
Sembrerà contraddittorio, ma tra l'orgoglio e la gratitudine, l'atteggiamento che denuncia una mancanza di autostima non è la gratitudine, ma l'orgoglio!
L'orgoglio non è l'unità di misura di una stima esagerata, ma, al contrario è proprio il segno di una mancanza di autostima: l'orgoglioso è colui che si alza sulla punta dei piedi, perché si sente troppo piccolo, rispetto al suo interlocutore.
Lo ripeto sempre nella speranza che un giorno - spero non sia troppo tardi - imparerò la lezione. Se c'è qualcosa che non deve affatto preoccuparci nel nostro rapporto con Dio, è proprio la statura!
Dunque non ci resta che riconoscere che "tutto è grazia". La riconoscenza è questa: uno sguardo obbiettivo su di noi e sulla realtà nuda e cruda.
"Che cosa importa? Tutto è grazia!": sono le ultime parole del protagonista del più celebre romanzo di G.Bernanos, "Diario di un curato di campagna": il giovane prete, parroco di Ambricourt, sperduto villaggio di campagna ai confini con il Belgio, si trova suo malgrado, a misurarsi col male nelle sue forme più subdole. Al limite della disperazione non perde tuttavia mai la speranza. Perdere la speranza è l'unico peccato che non conosce redenzione. Il giovane prete vive le ultime ore della sua tormentata esistenza nella squallida mansarda di un amico compagno di seminario spretato. Gli chiede di assolverlo e l'amico lo fa con molta coscienza, esprimendo il rammarico di vederlo morire senza il conforto della Chiesa. Il curato ha ancora la forza di dichiarare: "Che cosa importa? Tutto è grazia". E così, nella rassicurante pietà di Dio, l'uomo di fede trova il riscatto dalle tante ingiustizie subite, le stesse persecuzioni e umiliazioni che gli uomini si infliggono l'un l'altro perfino nel Nome di Dio.
"Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti": è vero, il giudizio ultimo non avverrà in base al criterio dell'appartenenza alla Chiesa; è la carità che decreta la separazione tra coloro che si salvano e coloro che non si salvano. Resta il fatto che la Chiesa è scaturita dalla carità di Cristo crocifisso e la carità è il nucleo centrale dell'insegnamento della Chiesa.
Ascoltiamo la Chiesa e ci stupiremo di quanto le distanze tra noi e la salvezza si possano accorciare.

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