Abbazia Santa Maria di Pulsano Letture patristiche «DELLA PARABOLA DEI TALENTI»

XXXIII Dom. Tempo Ordinario A
Mt 25,14-30; Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1 Ts 5,1-6
1. OMELIA IX Tenuta al popolo, nella basilica di San Silvestro, nel giorno della sua nascita al cielo
1. Quelli che hanno ricevuto doni speciali da Dio, usino un particolare impegno nel corrispondervi.
La lettura del santo Evangelo, fratelli carissimi, ci porta ad una seria riflessione, affinché noi, che
risultiamo — rispetto a tutti gli altri — destinatari di doni particolari in questo mondo da parte dell'Autore dell'universo, non siamo sottoposti a un più severo giudizio. Quando infatti aumentano i doni, crescono anche i motivi per renderne conto. Ricevuto il dono, ognuno deve, quindi, essere ancor più umile e pronto a mostrare riconoscenza, nella convinzione che più severi, per lui, diventano gli obblighi nel momento del rendiconto. L'uomo di cui dice la parabola, dovendo portarsi lontano, chiama i servi e divide fra loro i talenti da trafficare. Dopo molto tempo ritorna, li chiama per sentire del loro operato, premia chi si è impegnato per conseguire del guadagno e castiga il servo che si era ritirato da ogni fruttuosa attività. Chi è dunque quest'uomo che si porta lontano, se non il nostro Redentore che sta nei cieli con l'umanità da Lui assunta? È infatti la terra il luogo tipico della condizione umana, e questa è condotta come alla meta di un lungo pellegrinaggio quando dal nostro Redentore viene collocata nei cieli. L'uomo della parabola, che in procinto di allontanarsi affida i suoi beni ai servi, rappresenta il Signore che elargisce doni spirituali ai fedeli. A uno vengono affidati cinque talenti, a un altro due, al terzo uno. Sono cinque infatti i sensi del corpo, e cioè: vista, udito, gusto, odorato e tatto. Con i cinque talenti è simboleggiato il dono dei cinque sensi, cioè la conoscenza delle realtà che stanno al di fuori di noi. I due talenti rappresentano l'intelletto e la volontà, mentre l'unico talento designa solo l'intelletto. Il servo a cui erano stati affidati i cinque talenti, ne guadagnò, dunque, altri cinque. Vi sono infatti alcuni che, pur incapaci di cogliere il senso profondo di intime e mistiche verità, riescono però, per amore della patria celeste, a trasmettere — a chi possono — i valori che hanno appreso dalle realtà che ci circondano, e mentre si guardano dall'arroganza della carne, dall'ambizione delle cose terrene e dalla bramosia di ciò che appare, si preoccupano, con le loro ammonizioni, di tenerne lontani anche gli altri. Altri invece, come arricchiti dai due talenti, si trovano ad avere intelligenza e destrezza nel-l'agire, sanno capire sottili verità riguardanti lo spirito e raggiungono ottimi risultati di ordine pratico: guide, come sono per gli altri, nel campo dell'intelletto e dell'azione, riportano come un duplice guadagno dalla loro attività. È giusto, come narra la parabola, che questi due servi abbiano guadagnato, rispettivamente, chi cinque e chi due talenti, perché chi si impegna nella predicazione a uomini e donne vede come raddoppiati i talenti ricevuti. Invece il servo che aveva ricevuto l'unico talento andò a scavare per terra e vi nascose il denaro del suo padrone. Nascondere nella terra il talento significa applicare il dono dell'intelletto alla sola attività terrena, non cercare un profitto spirituale e non togliere mai il cuore dagli affetti mondani. Vi sono infatti alcuni che, pur avendo ricevuto il dono dell'intelletto, si interessano solo agli affari di questa vita. Di essi il profeta scrive: Ricorrono all’intelligenza solo per fare il male, e non seppero mai compiere il bene. Il Signore però, avendo affidato i talenti, torna per il rendiconto. Egli infatti ora concede con benevolenza i doni spirituali, e di essi domanderà il frutto con severità nel giorno del giudizio, tenendo conto di ciò che ognuno ha avuto e del guadagno ottenuto sui beni affidati.
2. Eterna è la ricompensa per chi amministra con fedeltà i beni della terra.
Il servo che restituì i talenti raddoppiati è lodato dal padrone e si vede assegnato il premio eterno, come risulta dalla parabola del Signore: Bene, servo onesto e fedele. Sei stato fedele nel poco e per questo ti darò autorità su molte cose: entra nella gioia del tuo signore. Di poco conto sono tutti i beni della vita presente, anche se sembrano rilevanti, al confronto con il premio eterno. Il servo fedele riceve autorità su molte cose quando, sconfitto ogni affanno della realtà segnata dalla corruzione, riceve la gloria dei gaudi eterni nella patria del cielo. E introdotto in pienezza al gaudio del suo Signore quando, accolto nella patria eterna e associato alle schiere degli angeli, prova una tale, intima gioia per il dono ricevuto, da non poter essere in alcun modo raggiunto dalle angustie della realtà segnata dalla corruzione.
3. L'inutile difesa e la pena del servo pigro.
Il servo che non aveva posto a frutto il talento si presentò al padrone con espressioni di scusa, dicendo: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli ove non hai sparso: in preda al timore sono andato a nascondere il tuo talento sotterra, e tu, cosi, puoi riavere ciò che è tuo. E da notare che questo servo inutile definisce duro il pa­drone pur trascurando di cooperare al suo vantaggio, affermando anche di aver temuto di porre a frutto il talento, mentre di una sola cosa doveva trepidare, di restituirlo cioè al padrone senza il minimo guadagno. Vi sono molti, infatti, nella santa Chiesa — e di essi questo servo è l'immagine —, che sentono paura ad imboccare i sentieri di una vita migliore e, tuttavia, non temono di giacere nell'ignavia e nel torpore. Pur ritenendosi peccatori, non si decidono ad affrontare le strade della santità e non provano timore a restare nelle, loro iniquità. Pietro, ancora nell'incertezza dello spirito, si comportò come costoro, quando, dopo la pesca miracolosa, esclamò: Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore. Se anzi ti consideri un peccatore, occorre che tu non allontani da te il Signore. Quelli invece che non si decidono a mettersi sulla strada di comportamenti migliori e non tendono alle altezze di una vita più onesta perché si sentono fragili, si dichiarano, si, peccatori, ma anche allontanano il Signore e si ritraggono da Colui che dovrebbero custodire in sé quale fonte di santità. Come scossi da un turbamento, sembrano vaneggiare: in pericolo di morte, temono la vita. Per questo al servo viene subito risposto: Servo disonesto e pigro, tu sapevi che io mieto dove non semino e raccolgo dove non ho sparso. Avresti perciò dovuto consegnare il mio denaro ai banchieri, e io, tornando, l'avrei riavuto con in più l'interesse. Il servo è messo alle strette dalle sue stesse parole, quando il padrone afferma: Mieto dove non semino e raccolgo dove non ho sparso, per dirgli, in altri termini: Se a tuo parere io pretendo quel che non ho dato, quanto più esigerò ciò che ti ho consegnato perché tu lo ponessi a frutto. Era dunque evidente che tu dovevi consegnare il mio talento ai banchieri, in modo che io, tornando, lo riavessi con l'interesse. Depositare il denaro presso i banchieri significa affidare il compito della predicazione a chi è in grado di condurlo a buon fine.

4.  Pericolo in cui si trovano quelli che ascoltano la parola di Dio senza trarne frutto. — Come potete rendervi conto del nostro pericolo se non poniamo a frutto il denaro del Signore, cosi, fratelli carissimi, riflettete seriamente al vostro, perché si esige da voi il frutto di ciò che ascoltate. Nell'interesse si esige anche del denaro che non era stato depositato, e quando si restituisce ciò che si era ricevuto occorre aggiungerne anche il frutto, che non era stato consegnato. Riflettete dunque, fratelli carissimi, che dovrete versare i frutti di questo tesoro della parola che avete ricevuto, e impegnatevi per riuscire a capire da ciò che udite anche altre verità di cui non potete avere l'ascolto. E cosi, ricavando nuove verità da altre, imparate a compiere, anche da soli, ciò che non avete ancora appreso dalla voce del predicatore. Ri­flettiamo sulla sentenza pronunciata contro il servo indolente: Prendetegli il talento e datelo a chi ne ha dieci.

5.  Equità del giudice che assegna di più a chi ha già molto. — Sembrerebbe assai più equo assegnare il talento requisito al servo indolente a chi ne aveva due e non a chi ne possedeva già cinque, perché è doveroso dare a chi ha meno e non a chi dispone di più. Come però abbiamo detto sopra, con i cinque talenti sono simboleggiati i cinque sensi, cioè la conoscenza delle realtà esterne e sensibili, mentre i due talenti designano l'intelletto e l'attività. Ebbe dunque di più colui che potè disporre dei due talenti, rispetto a chi ne ottenne cinque, perché chi ricevette l'amministrazione dei beni esterni, attraverso i cinque talenti, restò privo della comprensione delle intime realtà. Perciò l'unico talento, che simboleggia — come si è visto — l'intelletto, doveva essere attribuito a chi aveva amministrato con cura i beni esterni ricevuti. Questo si verifica ogni giorno nella santa Chiesa, perché molti, attendendo con impegno all' amministrazione dei beni esterni loro affidati, sono guidati da una grazia concessa in sovrabbondanza alla percezione delle mistiche realtà, e cosi gli amministratori fedeli di realtà esterne e terrene acquistano anche una profonda conoscenza della vita dello spirito.
6. La carità è indispensabile.
Si legge immediatamente, nel brano evangelico, un'affermazione di carattere universale: A chiunque, infatti, ha, sarà dato e sovrabbonderà; a chi invece non ha, sarà tolto anche ciò di cui sembra avere il possesso. A chi ha, dunque, sarà dato e si troverà nell'abbondanza; nel senso che chi ha la carità riceve anche gli altri doni, mentre chi non pratica questa virtù perde anche i doni che sembrava avesse ricevuto. E perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere. La vera carità, poi, consiste nel nutrire affetto per l'amico, secondo Dio, e nell'amare il nemico, a motivo di Dio. Se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre, come dice la parola del Signore. Fra queste tenebre esteriori finisce, a motivo di condanna, chi per sua colpa ha scelto di cadere in quelle interiori, e là sarà costretto a subire il buio della punizione chi, in questa vita, ha amato le tenebre della voluttà.
7. Nessuno è dispensato dal rendiconto per il talento ricevuto.
Occorre poi sapere che nessuno, per quanto indolente, può ritenere di non aver ricevuto il talento. Nessuno infatti può dire, secondo verità: Non ho ricevuto alcun talento e non dovrò, quindi, rendere conto. Anche per chi è povero sarà infatti considerato come talento il minimo che ha ricevuto. Se uno ha avuto il dono dell'intelligenza, deve impe­gnarsi nel ministero della predicazione, per mettere a frutto il talento. Chi ha ricevuto beni di questa terra prenda da questo talento occa­sione per essere generoso, visto ciò che possiede. Può essere che qualcuno, sprovvisto e della conoscenza di profonde verità e di beni abbondanti, abbia solo appreso il mestiere con cui vive: l'arte che conosce è il talento che ha ricevuto. Chi non ha avuto nulla di tutto ciò ma è forse entrato in familiarità con qualche ricco, ha ricevuto, come talento, proprio questa familiarità, e se non parla mai a lui dei poveri, va punito per il talento che ha occultato. Chi dunque ha conoscenza delle cose, eviti in ogni modo un silenzio sterile; chi gode di beni, faccia in modo di non impigrire nella generosità nel donare; chi conosce un mestiere, con cui vive, si impegni con tutte le forze per trarne uso e vantaggio per il prossimo; chi ha la possibilità di influire con la parola su un ricco, abbia paura di essere riprovato per il talento lasciato infruttuoso, il che avverrebbe se egli rifiutasse di intervenire presso di lui, pur potendo, per sostenere i poveri. Il Giudice che deve venire esigerà da ciascuno di noi in base a ciò che ci ha dato, e perciò dobbiamo ogni giorno pensare con tremore ai doni ricevuti, per essere pronti a rendere conto dei talenti a noi affidati, quando verrà il Signore. Sta infatti ormai per tornare, Lui che era partito per una regione lontana, essendosi colà recato da questa terra ove aveva assunto la natura umana; ma senz'altro ritornerà per chiedere conto dei talenti, e se saremo pigri nel compiere il bene emetterà un severo giudizio contro di noi, a motivo dei doni che ci furono affidati. Riflettiamo dunque ai benefici ricevuti e siamo attenti all'uso che ne compiamo. Le ansie terrene non ci distolgano dalle opere dello spirito, perché il Signore, che ci ha affidato il talento, non sia provocato all'ira se noi ci riduciamo a nasconderlo sotterra. Il servo indolente, quando ormai il Giudice prende in esame le colpe, provvede a dissotterrare il talento; e cosi fanno tanti, che si liberano dalle opere e dai desideri terreni quando stanno per essere condannati al supplizio eterno, come sentenzierà il Giudice. Vigiliamo dunque in attesa di render conto del nostro talento, cosi da trovare, nel guadagno compiuto su di esso, motivo per essere giustificati, dato che ormai sta per venire il Giudice per la terribile prova. Ci conceda questo il Signore, che vive, ecc.

Dalle «Omelie sui Vangeli» di San Gregorio Magno, papa.


2. La simbologia dei talenti

Sarà infatti come d`un uomo il quale, stando per fare un lungo viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, all`altro due, e a un altro uno solo: a ciascuno secondo la sua capacità" (Mt 25,14-15). Non v`è dubbio che quest`uomo, questo padrone di casa, è Cristo stesso, il quale, mentre s`appresta vittorioso ad ascendere al Padre dopo la Risurrezione, chiamati a sé gli apostoli, affida loro la dottrina evangelica, dando a uno piú e a un altro meno, non perché vuol essere con uno piú generoso e con l`altro piú parco, ma perché tiene conto delle forze di ciascuno (l`Apostolo dice qualcosa di simile quando afferma di aver nutrito col latte coloro che non erano ancora in grado di nutrirsi con cibi solidi) (cf. 1Cor 3,2). Infatti poi con uguale gioia ha accolto colui che di cinque talenti, trafficandoli, ne ha fatto dieci e colui che di due ne ha fatto quattro, considerando non l`entità del guadagno, ma la volontà di ben fare. Nei cinque, come nei due e nell`unico talento, scorgiamo le diverse grazie che a ciascuno vengono date. Oppure si può vedere, nel primo che ne riceve cinque, i cinque sensi, nel secondo che ne ha due, l`intelligenza e le opere, e nel terzo che ne ha uno solo, la ragione, che distingue gli uomini dalle bestie.
"Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti, se ne andò a negoziarli e ne guadagnò altri cinque" (Mt 25,16). Ricevuti cioè i cinque sensi terreni, li raddoppiò acquisendo per mezzo delle cose create la conoscenza delle cose celesti, la conoscenza del Creatore: risalendo dalle cose corporee a quelle spirituali, dalle visibili alle invisibili, dalle contingenti alle eterne.
"Come pure quello che aveva ricevuto due talenti ne guadagnò altri due (Mt 25,17). Anche costui, le verità che con le sue forze aveva appreso dalla Legge le raddoppiò nella conoscenza del Vangelo. O si può intendere che, attraverso la scienza e le opere della vita terrena, comprese le caratteristiche ideali della futura beatitudine.
"Ma colui che ne aveva ricevuto uno solo, andò a scavare una buca nella terra e vi nascose il denaro del suo padrone" (Mt 25,18). Il servo malvagio, dominato dalle opere terrene e dai piaceri del mondo, trascurò e macchiò i precetti di Dio. Un altro evangelista dice che questo servo tenne la sua moneta legata in una pezzuola (cf. Lc 19,20), cioè, vivendo nella mollezza e nelle delizie, rese inefficiente l`insegnamento del padrone di casa.
"Ora, dopo molto tempo, ritornò il padrone di quei servi e li chiamò a render conto. Venuto dunque colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque dicendo: «Signore, tu mi desti cinque talenti; ecco, io ne ho guadagnati altri cinque»" (Mt 25,19-20). Molto tempo c`è tra l`Ascensione del Salvatore e la sua seconda venuta. Ora, se gli apostoli stessi dovranno render conto e risorgeranno col timore del giudizio, che dobbiamo mai far noi?
"E il padrone gli disse «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore». Si presentò poi l`altro che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, tu mi desti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». Il suo padrone gli disse: «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore» (Mt 25,21-23) . Ambedue i servi, e quello che di cinque talenti ne ha fatto dieci e quello che di due ne ha fatto quattro, ricevono identiche lodi dal padrone di casa. E dobbiamo rilevare che tutto quanto possediamo in questa vita, anche se può sembrare grande e abbondante, è sempre poco e piccolo a confronto dei beni futuri. «Entra - dice il padrone - nella gioia del tuo Signore»: cioè ricevi quel che occhio mai vide, né orecchio mai udí, né mai cuore d`uomo ha potuto gustare (cf.1Cor 2,9). Che cosa mai di piú grande può essere donato al servo fedele, se non di vivere insieme col proprio signore e contemplare la gioia di lui?
"Presentatosi infine quello che aveva ricevuto un solo talento, disse: «Signore, so che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; ecco, prendi quello che ti appartiene» (Mt 25,24-25). Quanto sta scritto nel salmo: A cercare scuse per i peccati (cf. Sal 141,4), si applica anche a questo servo, il quale alla pigrizia e negligenza, ha aggiunto anche la colpa della superbia. Egli che non avrebbe dovuto fare altro che confessare la sua infingardaggine e supplicare il padrone di casa, al contrario lo calunnia, e sostiene di aver agito con prudenza non avendo cercato alcun guadagno per timore di perdere il capitale.
"Il suo padrone gli rispose: «Servo malvagio e infingardo, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; potevi dunque mettere il mio denaro in mano ai banchieri, e al ritorno io avrei ritirato il mio con l`interesse. Toglietegli perciò il talento e datelo a colui che ne ha dieci» (Mt 25,26-28). Quanto credeva di aver detto in sua difesa, si muta invece in condanna. E il servo è chiamato malvagio, perché ha calunniato il padrone; è detto pigro, perché non ha voluto raddoppiare il talento: perciò è condannato prima come superbo e poi come negligente. Se - dice in sostanza il Signore - sapevi che io son duro e crudele e che desidero le cose altrui, tanto che mieto dove non ho seminato, perché questo pensiero non ti ha istillato timore tanto da farti capire che io ti avrei richiesto puntualmente ciò che era mio, e da spingerti a dare ai banchieri il denaro e l`argento che ti avevo affidato? L`una e l`altra cosa significa infatti la parola greca arghyrion. Sta scritto: "La parola del Signore è parola pura, argento affinato nel fuoco, temprato nella terra, purificato sette volte" (Sal 12,7). Il denaro e l`argento sono la predicazione del Vangelo e la parola divina, che deve essere data ai banchieri e agli usurai, cioè o agli altri dottori (come fecero gli apostoli, ordinando in ogni provincia presbiteri e vescovi), oppure a tutti i credenti, che possono raddoppiarla e restituirla con l`interesse, in quanto compiono con le opere ciò che hanno appreso dalla parola. A questo servo viene pertanto tolto il talento e viene dato a quello che ne ha fatto dieci affinché comprendiamo che - sebbene uguale sia la gioia dei Signore per la fatica di ciascuno dei due, cioè di quello che ha raddoppiato i cinque talenti e di quello che ne ha raddoppiato due - maggiore è il premio che si deve a colui che piú ha trafficato col denaro del padrone. Per questo l`Apostolo dice: "Onora i presbiteri, quelli che sono veramente presbiteri, e soprattutto coloro che s`affaticano nella parola di Dio (1Tm 5,17). E da quanto osa dire il servo malvagio: «Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso», comprendiamo che il Signore accetta anche la vita onesta dei pagani e dei filosofi, e che in un modo accoglie coloro che hanno agito giustamente e in un altro coloro che hanno agito ingiustamente, e che infine, paragonandoli con quelli che hanno seguito la legge naturale, vengono condannati coloro che violano la legge scritta.
"Poiché a chi ha, sarà dato e sarà nell`abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che crede di avere" (Mt 25,29). Molti, pur essendo per natura sapienti e avendo un ingegno acuto, se però sono stati negligenti e con la pigrizia hanno corrotto la loro naturale ricchezza, a confronto di chi invece è un poco piú tardo, ma con il lavoro e l`industria ha compensato i minori doni che ha ricevuto, perderanno i loro beni di natura e vedranno che il premio loro promesso sarà dato agli altri. Possiamo capire queste parole anche cosí: chi ha fede ed è animato da buona volontà nel Signore, riceverà dal giusto Giudice, anche se per la sua fragilità umana avrà accumulato minor numero di opere buone. Chi invece non avrà avuto fede, perderà anche le altre virtù che credeva di possedere per natura. Efficacemente dice che a costui «sarà tolto anche quello che crede di avere». Infatti, anche tutto ciò che non appartiene alla fede in Cristo, non deve essere attribuito a chi male ne ha usato, ma a colui che ha dato anche al cattivo servo i beni naturali.
"E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, dove sarà pianto e stridor di denti" (Mt 25,30). Il Signore è la luce; chi è gettato fuori, lontano da lui, manca della vera luce.

(Girolamo, In Matth. IV, 22, 14-30)


3. Parabola dei talenti

Son stato simile al cattivo servo
Che nulla ha tratto dai talenti confidatigli;
Anzi l`ho persino superato,
Perché ho perduto il dono della grazia.

Non ho fatto raddoppiare il tuo talento,
Né quadruplicare i due, né decuplicare i cinque,
Per cui regno completamente
Sulle dieci cittadelle del sensibile.

Ma ho sotterrato l`unico (talento),
Nel velame dei vizi ravvolgendolo;
Non ho posto il tuo denaro in banca,
Per darti modo di averne l`interesse,

(Non ho portato) cioè la parola del Comandamento
Alle orecchie dell`essere pensante,
Che son la banca spirituale
Della sapienza del Pane di Vita.

Ecco perché io mi spetto
D`esser punito e gettato nelle tenebre,
Finché Tu venga a richiedere il talento,
Che m`hai concesso alla Fontana sacra.

Ma a Te, Salvatore della mia anima,
Piangendo, voglio rivolgere queste parole:
«Poiché m`è dato ancor di fare il bene,
Dammi la grazia di piacerTi per suo mezzo».

Ascolterò cosí la (sentenza) gioiosa
Come il servo fedele:
«Entra nella casa celeste
Nella gioia del tuo Signore!».

(Nerses Snorhalí, Jesus, 694-700)


4. Il giusto semina nello spirito e perciò miete la vita eterna

A me sembra che da questo passo risulti che il giusto seminando nello spirito raccoglierà la vita eterna. In realtà, tutto quel che viene seminato e raccolto dall'uomo giusto, lo raccoglie Dio. Il giusto, infatti, appartiene a Dio, il quale miete dove non ha seminato lui, ma il giusto. Diremo quindi così: il giusto ha sparso, ha dato ai poveri e il Signore raccoglierà per sé tutto ciò che il giusto ha così seminato.
Mietendo infatti ciò che non ha seminato e raccogliendo ciò che non ha sparso, giudicherà come offerte a sé tutte le cose che sono state seminate o sparse nei poveri, dicendo a quelli che hanno beneficato il loro prossimo: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,34-35). E poiché vuole mietere dove non ha seminato e raccogliere dove non ha sparso, quando non troverà nulla dirà a coloro che non gli hanno dato questa possibilità: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli,perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare» (Mt 25,41-42).
Egli è davvero duro, come dice Matteo, e severo come lo definisce Luca (19,21 ), ma verso coloro che abusano della misericordia di Dio per propria negligenza, non per convertirsi, come ci ricorda l'Apostolo: «Considera la bontà e la severità di Dio» (Rm 11,22). I negligenti dunque saranno trattati con severità, tu invece con bontà, se rimarrai nella bontà. Se uno è convinto che Dio è buono e spera di esserne perdonato se a lui si convertirà, con costui Dio è buono. Chi invece lo reputa così buono da non curarsi dei peccati degli uomini, con lui Dio non sarà buono, ma severo. Egli infatti arde d'ira per i peccati degli uomini che lo disprezzano. Se dunque il Cristo mieterà ciò che non abbiamo seminato e raccoglierà ciò che non abbiamo sparso,seminiamo nello spirito, distribuiamo i nostri beni ai poveri e non nascondiamo sotto terra il talento di Dio.
Questo timore non è buono e non ci libera da quelle tenebre esteriori, ove saremo condannati come servi malvagi e indolenti. Malvagi per non avere usato la preziosa moneta delle parole del Signore, con le quali avremmo potuto diffondere la dottrina del cristianesimo e penetrare nei profondi misteri della bontà di Dio. Pigri per non aver trafficato la parola di Dio per la salvezza nostra e degli altri. Avremmo dovuto invece mettere alla banca le ricchezze di nostro Signore, cioè le sue parole, presso uditori che, come banchieri, mettono alla prova ed esaminano ogni cosa per poter ritenere soltanto la dottrina buona e vera e respingere quella cattiva e falsa. Di modo che, venendo il Signore, potesse raccogliere con i frutti e gli interessi, le parole da noi sparse negli altri. Infatti ogni ricchezza, cioè ogni parola che porta l'impronta regale di Dio e l'immagine del suo Verbo,è un autentico tesoro.

Dal «Commento su Matteo» di Origene, sacerdote.


5. SULLE PAROLE DELL’EvANGELO DI MT 25,24-30 DOVE IL SERVO PIGRO, CHE NON VOLLE DARE IL TALENTO RICEVUTO, È CONDANNATO

1.Alcuni signori, miei fratelli e colleghi nell'episcopato, si sono degnati di venirmi a far visita e di colmarmi di gioia con la loro presenza, ma non so per qual motivo non vogliono aiutarmi, stanco come sono. Questo ho voluto dire alla Carità vostra alla loro presenza affinché il fatto che voi avete sentito ciò interceda in qualche modo in mio favore presso di loro, in modo che, quando io li prego, tengano anch'essi l'omelia. Distribuiscano anch'essi ciò che hanno ricevuto e, più che scusarsi, si degnino di lavorare. Da me invece, che sono stanco e a stento riesco a parlare, ascoltate volentieri brevi parole. D'altra parte abbiamo una relazione scritta delle grazie concesse da Dio per intercessione del santo Martire; ascoltiamone insieme più volentieri la lettura. Che devo fare dunque? Che cosa devo dirvi? Avete sentito parlare nel Vangelo del premio dato ai servi solerti e del castigo dato a quelli infingardi. Ora, tutta la colpa di quel servo riprovato e severamente condannato fu questa: che non volle far fruttare il denaro ricevuto (Cf. Mt 25, 24-30). Conservò intatta la somma ricevuta, ma il suo padrone voleva gl'interessi. Dio è avaro per quanto riguarda la nostra salvezza. Se così è condannato colui che non ha fatto fruttare il denaro per gli altri, che cosa devono aspettarsi coloro che lo dissipano? Noi dunque siamo i dispensatori, noi distribuiamo, voi ricevete. Noi andiamo in cerca di guadagni: vivete rettamente. Poiché i guadagni del nostro lavoro di dispensatori sono proprio questi. Voi però non dovete pensare che anche voi non abbiate il dovere di dare. Non potete dispensare la parola di Dio da questo luogo più elevato, ma potete farlo dovunque vi troviate. Dove Cristo è offeso, difendetelo; controbattete le critiche, rimproverate i bestemmiatori, tenetevi lontano dalla loro compagnia. In tal modo voi sarete dispensatori se guadagnerete qualcuno. Fate le nostre veci nella vostra casa. Il vescovo è chiamato così, perché sovrintende, perché si prende cura dei fedeli vigilando su di essi. Ciascuno dunque nella propria casa, se è a capo della propria famiglia, deve riguardare come suo l'ufficio del vescovo: deve cioè vigilare sulla fede dei suoi, perché nessuno di loro cada nell'eresia, né la moglie né il figlio né la figlia, nemmeno il servo poiché è stato comprato a sì caro prezzo. L'insegnamento dell'Apostolo ha posto il padrone al di sopra del servo e ha sottomesso il servo al padrone (Cf. Ef 6, 5; Tt 2, 9), ma Cristo tuttavia ha pagato un unico prezzo per il riscatto d'entrambi. Non disprezzate i più piccoli tra voi, ma procurate la salvezza dei vostri familiari con ogni sollecitudine. Se farete così, sarete dispensatori, non sarete servi infingardi, non avrete da temere una condanna tanto detestabile.

Dal “Discorso 94” di sant’Agostino, vescovo (PL 38, 580-581)




lunedì 10 novembre 2014
Abbazia Santa Maria di Pulsano

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