CIPRIANI SETTIMO Omelia di approfondimento 16 novembre 2014 |

 33a Domenica A | T. Ordinario |
"Un uomo, partendo, chiamò i suoi servi
Ancora un richiamo alla vigilanza e all'attesa del giudizio di Dio sulla nostra vita ci viene offerto dalla Liturgia di questa penultima Domenica dell'anno.
A differenza, però, della precedente Domenica, l'accento viene oggi posto sulla "operosità" in
questa fase di attesa: la "saggezza" consiste non solo nell'atteggiamento di vigilanza, come nella parabola delle dieci vergini, ma anche e soprattutto nel fare "fruttificare" i doni che la benevolenza di Dio ha voluto concedere ai suoi servi.

"Datele del frutto delle sue mani"

È quanto mette in evidenza già la prima lettura, ripresa da un celebre passo del libro dei Proverbi che contiene l'elogio della donna "perfetta", tutta dedita al servizio della sua famiglia e all'aiuto dei più bisognosi (Prv 31,11.13.20.30).
Questa immagine piuttosto idealizzata della donna "perfetta" sembra essere, in realtà, una descrizione allegorica della "sapienza" personificata (cf 8,22): in questa maniera ci si spiegherebbe anche meglio perché il brano, così vivace e pittoresco, sia stato posto al termine del libro, quasi come una sintesi del suo messaggio "sapienziale". Anche un'aggiunta molto significativa della versione greca dei Settanta sembra suggerire questa interpretazione di tipo allegorico: "Una donna saggia sarà lodata; il timore di Jahvè, ecco quello di cui bisogna vantarsi".
A prescindere però da questo, rimane vero che la nota più caratteristica della donna "perfetta" è la sua "operosità", in piena fedeltà e dedizione a Dio, al marito, ai figli e al suo prossimo: "Datele del frutto delle sue mani e le sue stesse opere la lodino alle porte della città" (Prv 31,31).

"Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri"

A una vigilanza "operosa" richiama anche la seconda lettura, in cui Paolo, volendo fugare le apprensioni dei cristiani di Tessalonica circa un "imminente" ritorno del Signore, dice che "circa quei tempi e quei momenti" nessuno ne sa nulla e che il Signore verrà "come un ladro di notte" (1 Ts 5,1-2).
L'unica cosa da fare è vivere nella "luce" e compiere le "opere" della luce: in tal modo il ladro non potrà cogliere di sorpresa nessuno (vv. 4-6).
L'invito ad essere "svegli", a vivere nella "sobrietà", che rende più sciolti per il lavoro, è un invito alla vigilanza e alla laboriosità nello stesso tempo: il cristiano attende il suo Signore non incrociando le braccia, ma impegnandosi a migliorare se stesso, gli altri, il mondo, in maniera da essere degno di riceverlo quando a lui piacerà di venire.
L'attesa del Signore, perciò, non è né inerte, né paurosa: essa tende piuttosto a trasformare le situazioni e le realtà, a far "fruttare" i doni che egli distribuisce agli uomini. Il giorno della sua venuta, infatti, è giorno di "giudizio" e di "raccolta": perciò è sui "frutti" che avremo saputo portare che verremo giudicati.

"A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno"

Tutto questo è espresso anche più chiaramente nella parabola dei "talenti", riferitaci da Matteo e da lui posta nel contesto del discorso "escatologico".
Marco ha appena l'accenno della parabola, senza alcuno sviluppo ulteriore: "È come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare" (Mc 13,34). Matteo, invece, ha sviluppato la parabola con tutti quei particolari che la rendono caratteristica e la caricano di significati morali e operativi, inquadrati però sempre nello sfondo della "vigilanza" escatologica.
Ma esaminiamo adesso più da vicino la nostra parabola. "Un uomo, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì" (Mt 25,14-15).
È un gesto di "fiducia" quello che compie il padrone nei riguardi dei "servi", consegnando loro i suoi "beni" al momento della partenza. Proprio perché gesto di fiducia, i servi dovevano rispondere con altrettanta apertura e generosità, lavorando come se quei beni appartenessero a loro. È in questa luce che apparirà tutta la grettezza del servo neghittoso, che per paura "nascose" nella terra il talento affidatogli dal suo padrone: non ha saputo rispondere alla "fiducia" concessagli con altrettanta fiducia e spirito di intraprendenza.
Anche la somma affidata ai servi, data la sua notevole consistenza, è indice della benevolenza del padrone: un solo talento, infatti, vale all'incirca 10 milioni attuali, ma con potere d'acquisto molto più alto (cf Mt 18,24).
Che poi il padrone abbia dato a chi cinque, a chi due, a chi un solo talento, non è frutto di capriccio, ma di saggia valutazione della varia "capacità" dei suoi servi (v. 15). Cristo, che è il vero "padrone" da leggersi in trasparenza nella parabola, non è un "signore" esoso: è solo giusto ed "esigente", in proporzione dei doni offerti agli uomini.
Sappiamo il seguito della storia: i primi due servi trafficarono i talenti, raddoppiandoli; "colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone" (v. 18).
Al suo ritorno, "dopo molto tempo", il padrone "volle regolare i conti" con i suoi servi (v. 19). Lodò e premiò i primi due, che avevano raddoppiato i talenti: "Bene, servo buono e fedele, ...sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone" (vv. 21.23).
In base alla parabola ci si sarebbe aspettato soltanto che venisse loro dato "potere su molto", cioè che avessero incarichi di maggior autorità, data la buona prova già fornita, come di fatto abbiamo in Luca (19,17-19). Qui invece abbiamo anche di più: "Prendi parte alla gioia del tuo padrone" (v. 23). La "gioia" del Signore è la partecipazione alla sua sovranità nel "regno", espressa altrove con la immagine del banchetto celeste (cf Mt 8,11ss).
Siamo dunque di fronte a un destino definitivo, che non viene fatto dipendere da altre prove: c'è una irreversibilità di situazioni nel nostro buono o cattivo servizio reso al Signore in questa vita.

"Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha i dieci talenti"

È quanto vediamo anche nel caso del servo neghittoso, che tenta una disperata autodifesa davanti al suo padrone (vv. 24-30).
La parabola riceve luce proprio da questo comportamento del servo neghittoso, il quale trova una smentita alle sue preoccupate affermazioni nella buona riuscita degli altri due. Egli dice di aver agito così "per paura" (v. 25), e perciò ha scelto la via più sicura per non rischiare di perdere anche il solo talento affidatogli: l'ha nascosto "sotterra" (v. 25). In fin dei conti, pensava, nessuno avrebbe potuto accusarlo di essere venuto meno alla "giustizia": restituiva quello che aveva ricevuto! Ma proprio questo ragionamento era sbagliato, come gli dimostra il padrone nella sua replica.
La "paura", prima di tutto, non ha senso in un rapporto di "fiducia", quale era quello che aveva voluto instaurare il padrone con i suoi servi: "Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore" (1 Gv 4,18). Ridurre il fatto religioso a un mero rapporto di prestazioni e di servizi, è già togliergli ogni significato: sarebbe un ritornare allo spirito "farisaico", di cui c'è in questo brano una nuova condanna.
In secondo luogo, sembra osservare il padrone, è anche giusto che davanti a lui si abbia un certo timore, perché è "esigente" nella richiesta della utilizzazione dei suoi doni (vv. 26-27). Ma è proprio questo legittimo "timore", che nasce dall'amore e mette in cuore la preoccupazione di non saper rispondere degnamente alle sue offerte e alle sue sollecitazioni, che deve spingere a "osare" nell'investimento dei doni fattici: non si mette sotto terra il talento, ma se mai si deposita alla banca, se non si sa commerciare in maniera migliore!

"Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri"

La parabola non ci dice di fare operazioni "spericolate" nel trafficare i talenti, ma di "osare", di essere intraprendenti, di vincere la paura, di trovare vie nuove, sapendo ben calcolare i rischi a cui ci esponiamo. Il coraggio è apertura, non azzardo puerile o incosciente; è gesto di amore e di donazione, come una madre che si espone per difendere il figlio, non il brivido del pericolo per il proprio autocompiacimento.
Fuori metafora, che cosa significa tutto questo? È evidente che qui c'è un invito pressante a far fruttificare i "doni" che il Signore elargisce, in misura diversa e articolata, ad ogni uomo: si tratti di doni naturali o soprannaturali.
Se abbiamo il dono dell'intelligenza, o quello della parola, o il gusto della bellezza, o la capacità di fare e di organizzare, ecc., tutto questo dobbiamo svilupparlo e moltiplicarlo per la gioia nostra e per il bene degli altri: è in questo modo che Dio viene glorificato.
Se abbiamo i doni, più grandi ancora, della fede, della speranza, della carità, di Cristo che abita in noi e fra noi come popolo della nuova alleanza, a maggior ragione abbiamo il compito di portare a maturazione tutto questo. Qui, in maniera anche più chiara, si può vedere che il "frutto" che dobbiamo portare non consiste solo in una nostra crescita personale, ma soprattutto nella crescita della comunità a cui apparteniamo. Perciò se noi non maturiamo, è la Chiesa stessa che non matura: il nostro talento "sotterrato" è un'occasione mancata per tutti!
Proprio per questa urgenza "escatologica" di far fruttificare i talenti per il bene di tutti, è necessario "osare", aver coraggio, "rischiare" anche. E questo, sia come singoli credenti che come comunità.
La "fede", infatti, non è un insieme di verità "atemporali", che basta verificare recitando il Credo: essa invece afferra la vita, si mescola alla storia, si confronta con tutte le situazioni nuove che emergono e fanno problema. Si pensi al problema della delinquenza, della droga, a quello demografico, giovanile, alla giustizia sociale, alla pace e alla collaborazione dei popoli, ecc. Deve essere la mia fede che mi spinge a operare in maniera coraggiosa in un terreno ancora mobile, perfino col rischio di sbagliare. Quello che importa è soppesare con umiltà e saggezza cristiana, alla luce della fede e in comunione con gli altri fratelli, le ragioni del nostro agire.
Il servo neghittoso, "per paura" di perdere qualcosa, è rimasto inerte e ha perso tutto!

"A chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza... "

Un'ultima riflessione vorrei fare sulle parole conclusive del padrone al servo neghittoso: "Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha" (vv. 28-29).
Sembra che si tratti di un detto popolare,1 con cui si voleva dire che chi è ricco diventa sempre più ricco, mentre chi è povero diventa sempre più povero. Una verità che trova, anche oggi, la sua tragica verifica.
Che cosa vuol dire Gesù con questa sentenza popolare? Certo non vuole intenderla con quella punta di desolato pessimismo che sembra contenere, come abbiamo appena detto: vuole soltanto affermare che chi ha saputo far fruttificare i suoi talenti, avrà una ricompensa anche più grande di quella che si meriterebbe. L'accento, perciò, è posto sulla prima parte della proposizione: "A chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha".
È un motivo in più per essere grati al Signore dei doni che ci fa in questa vita, in attesa di quelli anche più grandi che ci farà al suo "ritorno", se saremo stati servi fedeli e operosi.
"Grazie a te, mia dolcezza, mio decoro e mia fidanza, o Dio mio; grazie dei tuoi doni, che ti prego di conservarmi, poiché in tal modo conserverai anche me, e cresceranno e matureranno i beni che mi hai dato, e io stesso sarò con te, perché tu mi desti anche di essere".


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