Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della Dedicazione della Basilica Lateranense

Dedicazione Basilica Lateranense Gv 2,13-22a; Ez 47,1-2.8-9.12 (leggere 47,1-12; Sal 45; 1 Cor 3,9c-11.16-17
Introduzione alla festa
La basilica del Laterano è la cattedrale del vescovo di Roma, che «sovraintende alla carità» (s. Ireneo) di tutte le chiese locali. Da sempre Dio cerca di abitare fra gli uomini, anche se nessuna costruzione
materiale può essere veramente la sua dimora. La bibbia esprime questa antinomia dicendo che il tempio di Dio è fatto o non fatto dalla mano dell’uomo.
Ottenuta la libertà, la Chiesa ha cominciato ad innalzare templi, cosí necessari visto il crescente numero dei fedeli. La consacrazione del nuovo luogo di culto diventava una festa per la comunità alla quale partecipavano i vescovi vicini ed i fedeli. Col tempo, si è creato il rito della consacrazione della chiesa. A Roma, si celebrava all’inizio semplicemente la prima Messa: la celebrazione dell’Eucaristia consacrava la chiesa. Alla fine del IV secolo, comparve fuori Roma una nuova pratica accolta con approvazione dai fedeli: il collocamento delle reliquie dei martiri sotto l’altare del nuovo tempio. Roma, a lungo, fu contraria a intaccare le tombe dei martiri, ma definitivamente nel VI secolo la deposizione delle reliquie sotto l’altare venne introdotta nel rituale della consacrazione. In molti casi, i cristiani incettavano i templi pagani trasformandoli in chiese, e allora veniva l’aspersione dell’edificio con l’acqua appositamente benedetta. Mentre a Roma il collocamento delle reliquie legato alla Messa costituiva il rito della consacrazione, in Gallia si consacrava in primo luogo l’altare: il nuovo altare veniva unto in cinque posti. In breve, all’unzione dell’altare si è aggiunta l’unzione delle pareti del tempio. Verso l’anno 950, venne redatto il Pontificale (Libro delle benedizioni episcopali), che uní la tradizione romana a quella gallica. Il rito della consacrazione del tempio consolidatosi allora durò, salvo piccoli cambiamenti, fino all’ultima riforma.
Il rito attuale della consacrazione della chiesa contiene: l’entrata solenne del vescovo nel nuovo tempio, la consegna della chiesa al vescovo, effettuata dai rappresentanti della comunità locale, la benedizione dell’acqua e l’aspersione del popolo nonché delle pareti del tempio. Durante la Messa, dopo la liturgia della parola e delle litanie a tutti i santi, segue la deposizione delle reliquie sotto l’altare, il vescovo pronuncia la grande preghiera della consacrazione, quindi unge l’altare e le pareti del tempio in dodici posti. Poi, prosegue la celebrazione dell’Eucaristia.
È una tradizione della Chiesa festeggiare l’anniversario della consacrazione della chiesa. La commemorazione della consacrazione della Basilica Lateranense, la cattedrale di Roma, che ebbe luogo circa l’anno 324 e dal secolo XI si suol ricordare il giorno 9 novembre, è celebrata da tutta la Chiesa cattolica. La diocesi celebra l’anniversario della consacrazione della sua chiesa cattedrale, la parrocchia della chiesa parrocchiale.
La Chiesa consacra solennemente il tempio costruito, poiché esso è il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, ma non dimentica che il vero tempio di Dio sulla terra è il popolo di Dio. «Voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale», leggiamo nella prima lettera di san Pietro (2,5). «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Santo è il tempio di Dio, che siete voi», scriverà san Paolo (1Cor 3,16).
Il tempio di Dio nel mondo è la Chiesa, il tempio costruito dalle pietre vive sul fondamento degli apostoli e del quale pietra angolare è lo stesso Cristo. Il tempio di Dio nel mondo è ogni uomo credente, che con tutto il cuore serve il suo Signore. Consacrando l’edificio visibile innalzato per la gloria di Dio, la Chiesa ben intende il suo ruolo di servizio verso il vero tempio di Dio. In questo edificio visibile di Dio sarà preparata per i credenti la mensa della Parola e la mensa dell’Eucaristia; qui Dio nella sua misericordia purificherà gli uomini dalle loro colpe e li ripristinerà nella vita perduta col peccato. Questo sarà il luogo di gloria e di lode, la casa di preghiera per la salvezza di tutto il mondo. I poveri devono trovare qui la misericordia, gli oppressi la libertà, l’uomo la dignità che gli spetta.
Il tempio, segno della presenza di Dio in mezzo al popolo, serve perché la santità della nostra vita e delle opere, la preghiera continua e l’amore vicendevole siano il segno reale della dimora di Dio presso gli uomini. In questo tempio ed attraverso di esso, Dio innalza per sé il tempio dalle pietre vive. Ci sono tanti templi nel mondo, ci sono cattedrali splendide, chiese parrocchiali ordinarie e cappelle povere. Ciascuna adempie il suo compito, se serve alla costruzione del tempio spirituale.
La Basilica Lateranense, cattedrale della Chiesa di Roma, costruita da Costantino e consacrata da papa Silvestro nel 324, è ritenuta madre di tutte le chiese dell’Urbe e dell’Orbe. Sede del ministero pastorale e liturgico del papa per oltre un millennio (quindi la cattedra di Pietro) e di cinque concilii ecumenici, l’anniversario della sua dedicazione, originariamente celebrato solo a Roma, si commemora in tutte le comunità di rito romano come simbolo della universalità della Chiesa.
Il significato della festa di oggi è ben espresso dalle due preghiere di colletta:
O Padre,
che prepari il tempio della tua gloria,
con pietre vive e scelte,
effondi sulla Chiesa il tuo Santo Spirito,
perché edifichi il popolo dei credenti
che formerà la Gerusalemme del cielo.
Per il nostro Signore...
oppure
O Dio, che hai voluto chiamare tua Chiesa
la moltitudine dei credenti,
fà che il popolo radunato nel tuo nome
ti adori, ti ami, ti segua,
e sotto la tua guida giunga ai beni da te promessi.
Per il nostro Signore...

La chiesa-edificio diventa così simbolo del tempio (il popolo dei credenti) che lo Spirito va costruendo (con pietre vive) nella storia (con la moltitudine dei credenti), attraverso il quale si dà lode universale a Dio. Indichiamo il rilievo che nelle due collette si dà all’espressione «popolo» come soggetto comunitario che su questa terra, lasciandosi guidare dallo Spirito, adora e segue il Signore per formare la Chiesa del cielo. Il messaggio celebrativo è arrichito dal prefazio che si esprime con termini matrimoniali quali: «sposa del Cristo» e «madre di una moltitudine di figli».
Quella matrimoniale è una dimensione simbolica molto vicina all’esperienza delle persone ed inoltre mette in luce come la vita familiare sia un modo efficace per edificare e contemplare la presenza del Signore:

Nel tuo amore per l’umanità hai voluto abitare
là dove è raccolto il tuo popolo in preghiera
per fare di noi il tempio dello Spirito Santo,
in cui risplende la santità dei tuoi figli.
Questa Chiesa, misticamente adombrata nel segno del tempio,
tu la santifichi sempre come sposa del Cristo,
madre lieta di una moltitudine di figli
per collocarla accanto a te rivestita di gloria.
E noi, uniti ai cori degli angeli,
innalziamo a te, l’inno di benedizione e di lode:
Santo, Santo, Santo…(Prefazio)
Da alcuni anni accanto al ciclo classico di letture (Gv 4,19-24; 1Re 8,22-23.27-30; Sal 94; 1Pt 2,4-9) è stata fatta una nuova proposta: Gv 2,13-22; Ez 47,1-9.12; Sal 45; 1 Cor 3,9b-11.16-17.
Questo nuovo ciclo di letture ancor più sottolinea lo spirito liturgico di questa festa: noi battezzati siamo l’edificio di Dio perché lo Spirito di Dio abita in noi. Il Signore ha eletto come luogo del nostro incontro con Lui le nostre persone. Tutti facciamo esperienza di Dio il cui interesse per noi è molto profondo e tutti siamo chiamati a formare una comunità di fede e di amore che va oltre quel minimo segno di appartenenza che ci vede spiccioli fruitori di sacramenti.
Tempio vero è la comunità che nasce dalla pasqua di Cristo; l’intimità a cui siamo chiamati con Dio e con i fratelli è quella del Padre nell’abbraccio del Figlio e nel bacio dello Spirito Santo.
La pericope evangelica scelta per la festa della dedicazione della Chiesa, rappresenta dunque il vertice della teologia neotestamentaria sul tema della novità di culto. È tratta dalla prima parte del quarto evangelo, che possiamo definire il «ciclo delle istituzioni»: in questa sezione Giovanni intende mostrare l’opera del Messia come rinnovamento delle istituzioni di Israele. Dopo il segno che inaugura la nuova alleanza con l’ottimo vino di Cana (Gv 2,1-12), incontriamo questo secondo episodio, che affronta il tema del tempio, altro elemento fondamentale nella teologìa di Israele: come è trasformata l’alleanza, così anche il tempio troverà in Gesù il proprio compimento.

Esaminiamo il brano

vv. 13-14 - «Si avvicinava la Pasqua dei Giudei… trovò nel tempio… e, là seduti, i cabiavalute»: Il tempio di Gerusalemme era la massima gloria del giudaismo, il centro dell’unità e quasi l’incarnazione più rappresentativa d’Israele. Nell’evangelo di Giovanni, l’attività di Gesù girerà molto spesso intorno al tempio e a quello che esso significava.
La purificazione del tempio è narrata nell’evangelo di Giovanni e nei sinottici con notevoli differenze. Ricordiamo qui una delle più importanti. Stando a Giovanni, la scena avviene agli inizi della vita pubblica di Gesù; i sinottici, invece, la pongono nell’ultima settimana del suo ministero pubblico. Chi l’ha messa al suo posto da un punto di vista cronologico?
È praticamente impossibile rispondere con un minimo di sicurezza a questa domanda. Diremo solo che i sinottici non poterono metterla prima di quel momento, perché, data la struttura che danno al loro racconto, collocano tutta l’attività di Gesù a Gerusalemme nell’ultima settimana della sua vita. Fino a quel momento, Gesù non era mai stato «ufficialmente» a Gerusalemme.
Giovanni colloca il fatto al principio a modo di programma. I suoi primi racconti sono programmatici: parlano del superamento dell’AT e del giudaismo, superamento e sostituzione. Le antiche realtà sono superate e rimpiazzate dalle realtà nuove. L’acqua, nel rito della purificazione, è rimpiazzata dal vino della nuova alleanza (nozze di Cana); il tempio antico, gloria del giudaismo, è superato e rimpiazzato dal nuovo tempio, il corpo di Cristo.
Preferenza per i sinottici o per Giovanni? In realtà, dopo quello che abbiamo detto, dobbiamo pensare a un «adattamento» che i due gruppi di evangeli dovettero fare, perché la scena corrispondesse allo scopo per il quale era utilizzata.
vv. 15-16 - «fece una frusta… e scacciò tutti fuori dal tempio…»: La tradizione religiosa di Israele è nata senza un tempio, senza cioè una costruzione fissa come abitazione della divinità e sede privilegiata del culto: l’antica religione dei padri, venerando un Dio personale legato al gruppo familiare, non aveva un santuario locale. Durante il periodo dell’esodo, l’alleanza con Dio portò Israele a custodire le tavole del patto come prezioso oggetto sacro: l’arca dell’alleanza divenne così un santuario mobile che si muoveva con le tribù secondo i loro spostamenti.
Per secoli la situazione rimase così, fino all’epoca di Davide, quando, in seguito alla conquista di Gerusalemme, il re pensò di edificare per Yhwh nella nuova capitale un tempio in muratura secondo la tradizione cananea. Sembra che gli esponenti dell’antica tradizione non fossero molto d’accordo sull’iniziativa, ma Salomone impose tale idea che, col tempo, si consolidò soprattutto grazie alla riflessione dei “deuteronomistì”: il santuario di Gerusalemme divenne così il luogo sacro per eccellenza, addirittura l’unico in cui fosse possibile compiere i sacrifici a Yhwh. Dopo l’esilio quindi, con la restaurazione guidata in modo intransigente dalla classe sacerdotale, è comprensibile che il tempio sia stato considerato come la santissima abitazione di Dio e oggetto di venerazione sconfinata. Ma non mancarono voci dissidenti, soprattutto nell’ambito profetico, contrarie all’edificio sacro o ad una sua eccessiva valutazione: basti ricordare l’oracolo di Natan (2 Sam 7,1-17), il discorso di Geremia contro la falsa fiducia nel tempio (Ger 7,1-15; 26,1-24) e l’oracolo post-esilico del Terzo Isaia: «Così dice il Signore: Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la dimora?» (Is 66,1). Premesso questo, sembra proprio che Gesù di Nazaret si sia posto su questa linea profetica e contestatrice del tempio di Gerusalemme, al punto da suscitare le ire dei capi religiosi del suo tempo, portandone drammaticamente le conseguenze: risulta infatti che il principale capo di imputazione per Gesù sia stato proprio il discorso contro il tempio (cfr. Mt 26,61; Mc 14,57-58).
L’accenno ad una festa di Pasqua, nel racconto, serve per richiamare il significato simbolico delle feste di Israele, creare il collegamento con l’antica tradizione e mostrare come l’opera di Gesù porti a compimento quello che era stato annunciato in passato. La festa di Pasqua era la festa della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e i riti nel tempio richiamavano la gratitudine del popolo liberato. Il tempio però era diventato una struttura di mercato: proprio tale struttura di fondo contesta Gesù, non la sporcizia o il disordine. Infatti per poter partecipare al culto, secondo le leggi levitiche, bisognava offrire degli animali: chi non ne possedeva - e ormai erano i più - doveva comperarli nella struttura stessa del tempio. Inoltre, poiché nell’area sacra non si potevano portare monete romane, ritenute oggetti idolatrici per via della figura imperiale impressa sopra, ogni israelita doveva ricorrere alla banca del tempio: consegnava le monete romane per ricevere in cambio “monete sacre”, valide solo nell’ambito del tempio, con cui poteva comperare gli animali necessari per i sacrifici. A loro volta i venditori dovevano cambiare la valuta sacra con il corrispettivo in moneta romana: essendo i cambiavalute dipendenti del tempio, la commissione incassata per il cambio arricchiva il tempio!
La struttura sacra era quindi fondata sull’interesse come un enorme mercato legalizzato, riconosciuto conforme allo schema religioso e approvato dalle autorità del tempio, Gesù contesta tale situazione, considerata abituale, normale e lecita: compie un gesto vistoso e provocatorio, che Giovanni racconta con alcuni particolari simbolici.
«frusta di cordicelle»: Il particolare simbolico, proveniente dalla tradizione giudaica, risulta difficile per noi, perché ci manca la conoscenza di quel tipico linguaggio, La parola “frusta” (hébel) contiene nell’originale semitico un riferimento al dolore ed è tradizionalmente collegata al rinnovamento messianico: con questo gioco linguistico si intendeva dire che il Messia verrà con la frusta e allora «saranno dolori»! La tradizione giudaica parlava infatti dei «dolori del Messia» (hablê hammashíah), pensando alle sofferenze che il Messia avrebbe arrecato agli altri, frustando i peccatori e castigando i colpevoli. Invece, nella esperienza cristiana, i dolori del Messia vengono capovolti e interpretati come quelli che ha sofferto lui: il rinnovamento portato dal Cristo deriva dall’aver preso su di sé i dolori meritati dai peccatori.
Il narratore poi non dice che con la frusta colpisce i mercanti, ma piuttosto che manda fuori le pecore e i buoi. Il verbo «mandare fuori» - ekbàllō è lo stesso che ritroviamo dove si dice che il buon pastore porta fuori le pecore (Gv 10,4). Simbolicamente l’evangelista mostra Gesù mentre fa uscire le pecore dal tempio: quegli animali sacrificali sono figura del popolo, vittima di una impostazione religiosa opprimente. Gesù interviene come «Messia castigatore» secondo le attese: «Ai poveri del popolo renderà giustizia e abbatterà l’oppressore» (Sal 71,4). Egli infatti libera le pecore e le manda fuori; rovescia invece il banco di quelli che sono attaccati ai soldi (kermatistás) e di quelli che guadagnano sugli interessi (kollybistôn),
Rovesciando quella struttura economica, intende significare un capovolgimento e superare la mentalità di mercato, che ha soffocato la «casa del Padre suo». È chiaro che il riferimento è teologico: il problema sta nella mentalità che considera la religione un mercato. Si tratta infatti di un atteggiamento mentale comune per cui una persona dà a Dio qualcosa e chiede in cambio qualcos’altro: l’idea di fondo è quella di pagare una prestazione e comprare un servizio. Il gesto provocatorio di Gesù contesta lo schema religioso che si illude di comprare la purificazione, pagando con delle colombe: perciò propone un profondo cambiamento di mentalità, superando la mentalità religiosa mercantile.
«Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!»: L’azione di Gesù che purifica il tempio ha un denso significato. Lo stesso evangelo ci offre la falsariga per la sua interpretazione. La prima indicazione la troviamo nelle parole di Gesù: «Non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato». È una chiara allusione alle parole del profeta Zaccaria (14,21). Gesù si presenta deliberatamente nell’atto di adempiere questo oracolo profetico. Il suo gesto purificatore del tempio proclama la presenza del «giorno del Signore» che Zaccaria aveva annunziata. Gesù si presenta cosi come il Figlio che viene, nel giorno del Signore, alla casa del Padre suo.
v. 17 - «Mi divora lo zelo per la tua casa»: è il secondo principio interpretativo come lo intesero i discepoli: «Mi divora lo zelo per la tua casa » è la citazione del Sal 69,10 e colui che prega nel salmo è uno dei giusti che soffrono nell’Antico Testamento. Il testo del salmo è inteso e utilizzato come un testo prova. Gesù ha purificato il tempio a costo della sua vita. La stessa devozione e pietà per il tempio si è rivolta contro di lui. Gesù adempie perfettamente la Scrittura.
v. 19 - «Distruggete questo tempio…»: Il terzo e più importante punto di riferimento lo abbiamo nella sfida lanciata da Gesù ai suoi nemici e nella controversia che ne segue. Una parola sacrilega contro il tempio era considerata un’offesa grave, punibile persino con la morte. L’azione di Gesù fu intesa dai suoi nemici in questo senso; e per questo, essi ebbero o credettero di avere il diritto di chiedergli almeno una spiegazione.
La risposta di Gesù si muove su un terreno ipotetico: se distruggete questo tempio, in tre giorni lo farò risorgere. Con la sua ironia caratteristica, Giovanni fa che gli interlocutori di Gesù prendano le sue parole alla lettera. Era .troppo. La costruzione del tempio era cominciata durante il regno di Erode il Grande nell’anno 20-19 a. C, e si era conclusa nell’anno 27, approssimativamente nel tempo in cui avvenne questa controversia fra Gesù e i suoi avversari.
La replica di Gesù, intesa letteralmente — come l’intesero i giudei — è assurda; ma il punto di vista dell’evangelista è assai diverso, perché Gesù parlava del suo corpo. La predizione rivelò tutto il suo significato e la sua portata con la risurrezione di Cristo, che illuminò e richiamò alla memoria dei suoi la Scrittura.
Siamo di fronte alla grande sostituzione. Tutto il complesso tema rituale, sacrificale, di alleanza che, nel giudaismo, era legato al tempio di Gerusalemme, ha ora un altro centro d’interesse e si sposta su Gesù. Gesù è il vero tempio di Dio nel quale può avvenire l’incontro fra Dio e l’uomo In qualsiasi circostanza vitale possibile, e quindi, in qualsiasi sentimento o necessità che si voglia esprimere nel confronto con Dio.
L’attività di Gesù in Gerusalemme, in questa prima fase del suo ministero, provocò una reazione favorevole a lui in molte persone, come assicura l’evangelista. Però, come si concilia questo con l’affermazione che troviamo già nel prologo, secondo la quale «i suoi non l’hanno accolto»? La risposta completa dovrà essere vista nell’insieme dell’evangelo.
v. 22 - «i discepoli si ricordarono… e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù»: I discepoli capirono il vero senso dell’evento dopo la sua risurrezione dai morti: solo dopo la Pasqua arrivarono a comprendere che Gesù non era mosso da una passione fanatica che mirava a riportare il tempio alla purità rituale, bensì proponeva una decisiva alternativa. L’evento della Pasqua determina la novità: il tempio della presenza divina viene identificato con il corpo del Risorto. In tal modo la comunità cristiana, meditando le Scritture e la vita di Gesù, comprende che la teologia biblica del tempio trova piena realizzazione nella risurrezione corporea di Cristo: nella sua umanità abita la divinità, egli in persona è la dimora di Dio.
Ecco perché l’episodio è collocato nella festa di Pasqua: è proprio un segno di distruzione e di ricostruzione. Il tempio di Gesù (che si identifica con la sua persona) non è più un luogo dove si compra la salvezza, ma è possibilità personale dell’incontro con Dio che dona generosamente se stesso, regalando la propria vita per creare comunione. Il mistero pasquale è così riletto nel segno simbolico dei «dolori del Messia»: superando la logica del mercato, propone l’economia del dono. Non è semplicemente il passaggio dal tempio alla chiesa: è un cambiamento radicale che non sostituisce il tempio, ma lo realizza, trasformando la struttura religiosa, secondo la stessa logica biblica.
Il segno compiuto da Gesù anticipa l’opera del pastore modello, cioè il Cristo risorto che porta fuori le pecore da un ambiente religioso che opprime l’uomo, lo asservisce e lo sfrutta. Quella di Gesù sarà veramente la Pasqua di liberazione e i suoi dolori libereranno il popolo. Così i discepoli fanno memoria di quello che è avvenuto, integrando il testo biblico antico con la parola detta da Gesù: dopo lunga riflessione, compresero il significato e credettero alla Scrittura. Non parlano quindi di sostituzione del tempio, ma di compimento della tradizione biblica relativa al tempio.
Per ribadire questa idea nuova del tempio la liturgia ha scelto una scena onirica, particolarmente affascinante e descritta da Ezechiele (47,1-12) a cui affianca la preghiera del salmo 45 che propone l’idea del tempio come la santità stessa di Dio, personalmente presente in mezzo al suo popolo.
Nel quadro delle sue visioni sulla ricostruzione del tempio: il profeta Ezechiele viene trasportato in spirito nel luogo dove restano le rovine della città santa e in visione contempla ciò che sarà in futuro. Grazie ad un «angelo interprete», il veggente riesce a cogliere il significato delle sue visioni.
Al centro della visione sta l’acqua: nella cultura dell’antico Vicino Oriente una sorgente era in genere considerata un segno divino, un simbolo del potere che Dio ha di dare la vita. Infatti dal tempio Ezechiele vede uscire acqua dal lato destro: una sorgente prodigiosa, sgorgata dalla soglia del santuario, passa sotto il muro e zampilla fuori dal lato meridionale. Sempre in sogno Ezechiele accompagna il suo angelo interprete che avanza verso oriente, seguendo idealmente il corso d’acqua: il profeta entra nella visione stessa e immerge i piedi in quello che è ancora un semplice ruscello. Il suo cammino dentro l’acqua prosegue per circa due chilometri (mille cubiti corrispondono a 500 metri) e lentamente la portata del corso d’acqua cresce molto, fino a divenire un fiume navigabile, impossibile da passare a guado. A Gerusalemme non c’è mai stato un fiume del genere: anche dopo il rientro in patria degli esuli da Babilonia, con la ricostruzione del tempio non ci sarà un simile corso d’acqua. Il fiume visto da Ezechiele è quindi figura di fantasia, simbolo profetico per indicare la potenza vitale di Dio, in continua e meravigliosa crescita.
Ma la visione non è ancora finita. Uscito dall’acqua, il profeta si guarda indietro e si accorge che il paesaggio desertico è completamente cambiato. Mentre Ezechiele rimane a bocca aperta, l’angelo interprete racconta quello che succede al fiume che sgorga dal santuario: anzitutto afferma che porta vita alle acque del mar Morto, le rende sane e vivibili; di conseguenza dice che vi sarà del pesce, mentre prima non vi poteva vivere, e sarà addirittura abbondantissimo. Infine descrive la vegetazione simbolica cresciuta lungo le rive dell’arido wadi: sono alberi sempre verdi, le cui foglie non seccano mai e per di più hanno virtù terapeutiche; i loro frutti sono il delizioso cibo dell’umanità e maturano in continuazione, offrendo un raccolto ad ogni luna.
L’acqua che sgorga dal santuario ha determinato la metamorfosi del mondo in un giardino: così Ezechiele annuncia al popolo peccatore ed esule la possibilità di un ritorno al paradiso, in forza di un intervento divino che trasforma il vecchio mondo, segnato dal male e reso simile ad un deserto. La nuova creazione progettata da Dio è strettamente unita al suo nuovo santuario: infatti dalla sua stessa santità, simboleggiata dal tempio, sgorga una potenza di grazia che assicura il compimento del progetto di salvezza, rendendo il mondo il luogo adatto per la comunione fra Dio e l’uomo. In una parola, il senso di questa visione non può essere più chiaro: nella nuova Gerusalemme dei tempi escatologici, la presenza di Yhwh sarà una benedizione manifestata da un potere vivificante e creatore.
Il simbolismo dell’acqua sarà raccolto dal NT e applicato a Cristo, fonte di acqua viva che zampilla fino alla vita eterna, come dirà alla samaritana. Sarà raccolto dall’Apocalisse 22,1-2 e dalla liturgia battesimale cristiana. Ma l’acqua continua a essere acqua, simbolo. Non così l’azione vivificante di Dio significata dall’acqua. Nella rilettura cristiana è dal costato di Cristo, nuovo tempio, che esce «sangue e acqua» (cfr. Gv 19,34), fiume di grazia che rinnova il mondo.





lunedì 3 novembre 2014
Abbazia Santa Maria di Pulsano

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