don Giovanni Berti" Una fede da paura"
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (16/11/2014)
Vangelo: Mt 25,14-30
La paura è un sentimento che accomuna tutti gli esseri umani. La paura sembra qualcosa di negativo, ma in realtà ha profondi aspetti positivi per la sopravvivenza. Se non avessimo incisa nel profondo del nostro istinto la paura della morte non avremmo quelle reazioni automatiche, sia fisiche che psicologiche, che ci portano ad autopreservarci difronte
ad un pericolo. La paura quindi è normale e "buona" se non arriva però a paralizzarci e a chiuderci in noi stessi anche in situazioni più normali e positive. Allora diventa fobia e panico.
Nella parabola del vangelo, è la paura-fobia del padrone che porta il terzo servo a nascondere sottoterra l'enorme fortuna che ha ricevuto con quel talento. Un talento, nella misurazione ai tempi di Gesù, equivaleva a più di 30 kg d'oro. I tre servi ricevono tutti, anche se in misure diverse, una fortuna immensa, segno di una grandissima fiducia e generosità da parte del padrone.
Facendo bene attenzione al racconto di Gesù, non viene c'è accenno di alcuna minaccia di punizione se i beni consegnati non verranno fatti fruttare e non viene nemmeno detto che quei talenti devono essere riconsegnati alla fine. Semplicemente il padrone consegna i talenti, parte per il suo viaggio e poi ritorna per vedere cosa ne è stato di quel che con fiducia ha dato. I primi due servi mostrano quel che è stato guadagnato ed entrano nella gioia del padrone, segno di una ulteriore vicinanza e sintonia con questo padrone. Il terzo invece è bloccato fin da subito dalla paura di una punizione che non era minacciata, ma era solo nella sua testa fin da subito. La paura in questo caso diventa fobia, inculcata nella sua mente chissà come e da chi. Certo è che la sua azione è quella di dimenticare persino la fortuna che ha tra le mani e che gli altri hanno saputo invece vivere e persino far fruttare.
La punizione finale (gettato fuori e separato dal padrone e dai suoi beni che aveva tra le mani) non è altro che la conseguenza di quello che lui da solo ha coltivato nella mente e nelle scelte quotidiane.
Mi domando se anche io ho questa visione di Dio, e se in questo modo imposto la mia relazione con lui e con quello che lui mi ha dato in questa vita. Vivo secondo la paura-fobia di Dio, della sua punizione, o considero Dio come il padrone della parabola che ha una immensa fiducia in me e crede che io posso far fruttare quel che lui mi ha dato?
In questi giorni ho avuto modo di dialogare più volte con un anziano che ogni tanto mi chiede consiglio spirituale. Ultimamente è davvero assillato dalla paura di non essere perdonato dai suoi peccati. Per sua sfortuna ha trovato recentemente un frate in confessionale che lo ha duramente ripreso per quel che gli aveva confessato, aggiungendo che se non si confessava più spesso non avrebbe potuto fare la Comunione senza cadere nel sacrilegio.
Ovviamente questo anziano, educato ad una religiosità della paura (così mi viene da chiamarla) si trova a dare più peso alle parole del frate "castigatore" che alle mie, ed è davvero terrorizzato di non essersi mai confessato bene commettendo più volte sacrilegio prendendo la Comunione durante la Messa.
Mi domando se davvero la parabola dei talenti non sia un invito ad avere paura della paura. Se da una parte la paura è un meccanismo psicologico che ci aiuta nell'istinto a preservarci dai pericoli fisici, quando entra a livello spirituale allora si trasforma in fobia e distorce l'immagine corretta di Dio come Padre buono. E mi dispiace che purtroppo è nel nostro ambiente religioso che questa "paura di Dio" è stata molto coltivata nell'educare alla fede.
Meno male che nel racconto il rapporto tra quelli che hanno fiducia in se stessi e affrontano il padrone in modo positivo con quel che lui ha dato loro, e invece quelli che hanno paura e temono il padrone, è di due a uno. Prevale quindi la fiducia in Dio e il senso della sua paternità su un'idea distorta di un padrone che punisce e la conseguente paura di lui.
Anche se la parabola è più dettagliata nel raccontare le paure del terzo servo, rimangono come segno di speranza gli altri due servi che fiduciosi vivono responsabilmente il bene ricevuto e alla fine sono premiati con il dono più grande che è far parte "della gioia del loro padrone".
Vangelo: Mt 25,14-30
La paura è un sentimento che accomuna tutti gli esseri umani. La paura sembra qualcosa di negativo, ma in realtà ha profondi aspetti positivi per la sopravvivenza. Se non avessimo incisa nel profondo del nostro istinto la paura della morte non avremmo quelle reazioni automatiche, sia fisiche che psicologiche, che ci portano ad autopreservarci difronte
ad un pericolo. La paura quindi è normale e "buona" se non arriva però a paralizzarci e a chiuderci in noi stessi anche in situazioni più normali e positive. Allora diventa fobia e panico.
Nella parabola del vangelo, è la paura-fobia del padrone che porta il terzo servo a nascondere sottoterra l'enorme fortuna che ha ricevuto con quel talento. Un talento, nella misurazione ai tempi di Gesù, equivaleva a più di 30 kg d'oro. I tre servi ricevono tutti, anche se in misure diverse, una fortuna immensa, segno di una grandissima fiducia e generosità da parte del padrone.
Facendo bene attenzione al racconto di Gesù, non viene c'è accenno di alcuna minaccia di punizione se i beni consegnati non verranno fatti fruttare e non viene nemmeno detto che quei talenti devono essere riconsegnati alla fine. Semplicemente il padrone consegna i talenti, parte per il suo viaggio e poi ritorna per vedere cosa ne è stato di quel che con fiducia ha dato. I primi due servi mostrano quel che è stato guadagnato ed entrano nella gioia del padrone, segno di una ulteriore vicinanza e sintonia con questo padrone. Il terzo invece è bloccato fin da subito dalla paura di una punizione che non era minacciata, ma era solo nella sua testa fin da subito. La paura in questo caso diventa fobia, inculcata nella sua mente chissà come e da chi. Certo è che la sua azione è quella di dimenticare persino la fortuna che ha tra le mani e che gli altri hanno saputo invece vivere e persino far fruttare.
La punizione finale (gettato fuori e separato dal padrone e dai suoi beni che aveva tra le mani) non è altro che la conseguenza di quello che lui da solo ha coltivato nella mente e nelle scelte quotidiane.
Mi domando se anche io ho questa visione di Dio, e se in questo modo imposto la mia relazione con lui e con quello che lui mi ha dato in questa vita. Vivo secondo la paura-fobia di Dio, della sua punizione, o considero Dio come il padrone della parabola che ha una immensa fiducia in me e crede che io posso far fruttare quel che lui mi ha dato?
In questi giorni ho avuto modo di dialogare più volte con un anziano che ogni tanto mi chiede consiglio spirituale. Ultimamente è davvero assillato dalla paura di non essere perdonato dai suoi peccati. Per sua sfortuna ha trovato recentemente un frate in confessionale che lo ha duramente ripreso per quel che gli aveva confessato, aggiungendo che se non si confessava più spesso non avrebbe potuto fare la Comunione senza cadere nel sacrilegio.
Ovviamente questo anziano, educato ad una religiosità della paura (così mi viene da chiamarla) si trova a dare più peso alle parole del frate "castigatore" che alle mie, ed è davvero terrorizzato di non essersi mai confessato bene commettendo più volte sacrilegio prendendo la Comunione durante la Messa.
Mi domando se davvero la parabola dei talenti non sia un invito ad avere paura della paura. Se da una parte la paura è un meccanismo psicologico che ci aiuta nell'istinto a preservarci dai pericoli fisici, quando entra a livello spirituale allora si trasforma in fobia e distorce l'immagine corretta di Dio come Padre buono. E mi dispiace che purtroppo è nel nostro ambiente religioso che questa "paura di Dio" è stata molto coltivata nell'educare alla fede.
Meno male che nel racconto il rapporto tra quelli che hanno fiducia in se stessi e affrontano il padrone in modo positivo con quel che lui ha dato loro, e invece quelli che hanno paura e temono il padrone, è di due a uno. Prevale quindi la fiducia in Dio e il senso della sua paternità su un'idea distorta di un padrone che punisce e la conseguente paura di lui.
Anche se la parabola è più dettagliata nel raccontare le paure del terzo servo, rimangono come segno di speranza gli altri due servi che fiduciosi vivono responsabilmente il bene ricevuto e alla fine sono premiati con il dono più grande che è far parte "della gioia del loro padrone".
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