don Luca Garbinetto "Il talento della figliolanza

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (16/11/2014)Vangelo: Mt 25,14-30
Tutti abbiamo dei doni, delle capacità, delle doti naturali. Chi più, chi meno: questo è certo. Succede anche che le vicende della vita condizionino la possibilità di mettere a frutto tali qualità, oppure che addirittura le elimino del tutto. Si pensi a un incidente che immobilizza la persona su un letto di ospedale, o a una grave malattia mentale.
Tutti, quindi, abbiamo dei doni, ma se si misura la dignità
della persona a partire da essi, effettivamente ci ritroviamo - come spesso accade nella storia - a generare categorie di valore, caste, scale di misura diverse. Sembrerebbe che, fra le persone, c'è chi vale di più e chi vale di meno.
Il Vangelo di oggi, invece, ci parla di talenti. Sono dati, idealmente, a tutti i servi del padrone, cioè ad ogni uomo e donna del mondo, di cui la parabola raccontata da Gesù è icona. Ogni persona venuta al mondo riceve almeno un talento; alcuni ne ricevono di più, proprio ‘secondo le capacità di ciascuno' (25,14). Non sono le capacità il dettaglio principale, ma il talento. Il talento ci viene consegnato personalmente e senza distinzione, e questo talento non ci appartiene, ma è del padrone, che ce ne chiederà conto.
Prima di notare il diverso atteggiamento dei servi della parabola, è opportuno soffermarsi un attimo ancora sul talento. In generale, come patrimonio prezioso consegnato dal padrone ai servi, ogni talento indica qualcosa di soprannaturale, di divino. E viene spontaneo pensare che abbia molto a che vedere con quella parte di eredità che il Padre suddivise fra i suoi due figli (cfr. Lc 15, 12). I talenti sono doni che vengono dal Cielo. Ce ne sono tanti, e forse non abbiamo piena coscienza di quanto siano importanti: ce ne accorgiamo quando mancano. Basti pensare alla fede, al Vangelo, alla capacità di perdono.
Ma qual è il talento che è davvero dato a tutti e che tutti possono trafficare? Se ricordiamo il volto sfigurato del Padre misericordioso, trasformato dai figli in un padrone severo, o se intravediamo l'amara ironia nascosta nella risposta del signore della nostra parabola al servo ‘malvagio e infingardo' (26, 25), cogliamo il talento dato a tutti: è la grazia della figliolanza!
Siamo figli di Dio, ‘e lo siamo realmente' (1Gv 3,1), grida Giovanni, uno che le parabole le ha ascoltate dal vivo. Siamo figli in virtù del battesimo, del dono dello Spirito Santo. La figliolanza divina dice la nostra identità profonda, ciò che siamo più intimamente, ciò che nessuna vicenda o condizione al mondo può rubarci. Anche prigioniero, san Paolo vive la libertà dei figli di Dio (cfr. Ef 4,1). E nel talento della figliolanza troviamo l'appoggio, il sostegno, il motore, la forza per vivere in pienezza la nostra vita, per scoprire e far crescere il germe della bellezza che ci fa felici.
Se questo è vero, trafficare la figliolanza significa condividerne la verità, raccontarla e comunicarla. Nel riconoscermi figlio, mi comporto da fratello con chiunque ho accanto. Ecco perché il talento si può moltiplicare, come il pane buono distribuito da Gesù a tutti. Ecco perché l'obiezione di chi non vede per tutti il dono di essere figli, in quanto molti non hanno ricevuto il battesimo, è in realtà un appello a trafficare il talento. Riconoscere che non tutti gli uomini e le donne della terra hanno ancora ricevuto il dono dello Spirito Santo significa riscoprire nuovamente l'urgenza missionaria della Chiesa, casa dei ‘talentuosi', non perché bravi e meritevoli, ma perché graziati dalla misericordia preveniente del Padre.
C'è dunque un rischio enorme, raffigurato nella parabola dall'atteggiamento del servo che nasconde il talento: è il pericolo di avere paura della propria bellezza! Proprio così: scoprirsi figli è fonte inesauribile di gioia, ma è anche appello alla responsabilità e sfida ad un cammino a volte incerto e faticoso, che a tratti ci fa camminare ad altezze da vertigine. Si può scivolare nella tentazione di accomodarsi e di sminuire il valore di quanto abbiamo ricevuto gratuitamente: far finta che sia indifferente essere o non essere figli, essere o non essere cristiani, essere o non essere innamorati di Gesù.
Forse è la condizione più drammatica e pericolosa, l'unica che realmente comporta l'essere esclusi dal Regno! E forse per questo Gesù ha voluto venire e rendersi solidale proprio con coloro che si nascondono, con coloro che rifiutano... perché Dio vuole davvero salvare tutti, e non si stanca di dare nuove opportunità per incontrarlo, non esaurisce la sua fantasia di amore!
Così il Figlio non ha considerato il suo talento come un tesoro da preservare per sé, ma si è fatto uomo, assumendo la condizione di servo, e ha nascosto la sua figliolanza divina nella fragilità della carne umana. Lui che è l'eredità e l'erede insieme, si è mescolato con la terra (humus), essendo umile e obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. E il suo talento di Figlio è stato sepolto, per poter raggiungere negli inferi anche coloro che non si lasciano amare come figli, per tendere la mano di Fratello maggiore anche a coloro che rifiutano la grazia di essere famigliari di Dio, per abbracciare nuovamente chi è scappato di casa a sperperare i propri doni. Per questo il Padre lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome: nome condiviso con tutti noi, cristiani perché figli e fratelli; nome che siamo inviati a portare con Lui e a diffondere nel mondo come unica via di salvezza per tutti (cfr. Fil 2, 5-11).
In questo mistero di totale abbassamento, contempliamo stupiti la gratuità che vi è racchiusa. Dio desidera che nessuno sia escluso dal banchetto definitivo. Nella sua umiltà, corre il rischio e ci dona il talento più prezioso sapendo che potremmo rifiutarlo. Ma a chi accoglie la grazia di essere figlio, in eterno avrà moltiplicata la gioia. Gioia di altri talenti, ma soprattutto gioia di tanti fratelli.

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