Mons.Antonio Riboldi " Il rendiconto finale dei doni ricevuti"

Omelia del giorno 16 novembre 2014
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
La vita è – o dovrebbe essere – un cammino di saggezza, in cui si misura il come abbiamo vissuto, per presentarci fedeli e saggi al cospetto del Signore, che sicuramente verrà per tutti.
Non sappiamo quando, ma verrà.
Avverte S. Paolo oggi: “Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. … Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa
sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.”. (I Tess. 5, 1-6)

Vivere non è solo ‘passare del tempo’: sarebbe un modo sconveniente, insensato e dannoso per creature, cui Dio ha donato capacità, che rendono abili - oltre che a realizzare il sogno, che Dio ha per noi – a fare del bene agli altri. Vivere non è neppure un fare disordinatamente tante cose, che non hanno senso, ma neppure se hanno un contenuto accettabile. Non è detto che ‘fare tanto’ sia lo stesso che ‘fare bene’.

Ho paura che tante cose di cui ci occupiamo, non abbiano alcun peso e valore se ‘misurate’ con il metro divino della verità e della giustizia, che ogni vita deve avere e, peggio ancora, può accadere che le tante o poche cose che facciamo siano svilite dall’intenzione errata che poniamo in esse: per esempio quando impieghiamo tutte le nostre capacità per realizzare un sogno di gloria o di ricchezza o di benessere o un ‘trono’ di prestigio, che ci faccia sentire ‘qualcosa più degli altri’!

E direi che oggi – almeno per quanto si vede – tanta parte degli uomini brucia l’intera esistenza per procurarsi qualcosa che luccica, ma poi si rivelerà, e spesso si rivela subito, per quello che è veramente: un pugno di polvere.

C’è poi chi usa dei talenti avuti da Dio per fare del male, che è in effetti usare i beni di Dio contro Dio e gli uomini; la conseguenza inevitabile è la distruzione di ogni umanità e civiltà.

Vivere è avere avuto in consegna ‘una missione’ e dei talenti da sfruttare per il bene nostro, degli uomini e per la Gloria di Chi ce ne ha fatto dono: Dio. La vita è ‘una vocazione ed una missione’.

Oggi, Gesù nel Vangelo di Mt. 25, 14-30, sottolinea la saggezza e la bontà del Padre, che, nel farci il dono della vita, ci ha dato ‘i talenti’ secondo il Suo Cuore. Gesù racconta la parabola di ‘Un uomo, che partendo chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni … Chiamò e consegnò a ciascuno secondo la sua capacità’.

Poche parole, che sono però la ‘dote’ avuta per fare della vita una esperienza di amore e di gloria a Dio. Anzitutto vivere non è una scelta personale, ma una chiamata del Padre, che è Amore e, quindi, la vita è un bene consegnato a noi per allargare il Suo Regno di giustizia e di pace, di Amore.

Avere la coscienza di essere chiamati dal Padre deve – o dovrebbe – far sorgere una quotidiana domanda: ‘Che cosa chiede a me? Quali talenti o capacità mi ha dato per fare fruttare la Sua vigna?’. Da cui: ‘Qual è il vero indirizzo da dare alla mia vita? Cosa debbo fare?’

E su questo possiamo e dobbiamo interrogarci subito e sempre, per verificare se meritiamo la sentenza: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

Una cosa è certa: non possiamo ignorare di avere tutti doni o carismi, ossia capacità che sono il bello della nostra vita qui e, se realizzati nella carità, ‘una corona di gloria’, vera, nell’eternità.

Tante volte mi si chiede (e l’insistenza della domanda dice da sola quanto interessi la risposta) in che consista la serenità, che mi accompagna sempre.

In molta parte dipende dal fatto che ‘sono’ dove Dio ha stabilito e manifestato, nell’obbedienza o attraverso le circostanze, che fossi, e che cerco di fare ciò che a Lui è più gradito. Mi è stato affidato da Dio non solo il prossimo da servire, ma anche il come servirlo e amarlo. Lo stesso carisma di vescovo mi è stato dato dallo Spirito nella Chiesa.

Non basta però avere la coscienza della propria chiamata, occorre anche saper scoprire i tanti talenti che Dio ci consegna. E questi talenti – è bene ricordarselo – non sono dati per creare un trono alla superbia, ma per dare gloria al Padre e neppure ammettono di essere gelosamente nascosti, per non correre rischi, e tanto meno ignorati, come se non ci fossero!

Debbono essere portati alla luce e messi in circolazione, impiegati, perché nel loro impiego, non si dimostra solo la nostra fedeltà, ma sono la via per manifestare il bene al nostro prossimo.

Guardando attorno, anche nelle nostre comunità ecclesiali, a volte si ha l’impressione che troppi di noi assomiglino a casseforti, che custodiscono tesori, che servono a nessuno.

È terribile la responsabilità, che ci assumiamo davanti a Dio e davanti agli uomini!

Quanto bene si potrebbe vedere attorno a noi e in noi, solo se le nostre ‘casseforti’ si aprissero!

C’è una via sicura per scoprire i talenti che Dio ci ha dato: la via della carità. Messi di fronte ai fratelli, che chiedono di essere amati, in qualunque campo e in qualunque sincera forma, chi di noi non ha trovato ‘il genio’ – direbbe Giovanni Paolo II – di scoprire strade, capacità, che forse ignorava?

Nessuno mai mi aveva insegnato come ci si comporta davanti ad un terremoto – reale – che colpisce l’intera comunità. Ma la tragedia subito mi ha mostrato talenti, che erano una multiforme espressione di amore, che non sapevo di avere.

Quando Paolo VI mi chiese di essere vescovo di Acerra, provai grande confusione. Ma ora, rivisitando i miei 36 anni di vescovo, mi stupisco di quanti talenti Dio mi ha fatto dono, per compiere il bene, che era il senso della Sua chiamata.

Solo chi non conosce l’amore assomiglia al servo del Vangelo, che risponde: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato, e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco qui il tuo”.

Non ha capito nulla di Dio, il cui vero volto è quello di Padre; Lo giudica ‘un padrone severo’, ‘colui che castiga’, ecco perché Gesù lo definisce ‘servo malvagio e infingardo’.

C’è gente che si fa spaventare dalle grandi difficoltà del nostro tempo, dimenticando che Dio è nostro alleato, nostro amico, Colui che ‘non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi’ pertanto ‘come non ci donerà ogni cosa insieme con Lui?’ (Rom. 8, 32)

È proprio nei momenti difficili che il Padre, nel Figlio, con l’aiuto dello Spirito, ci sostiene e noi possiamo mettere alla prova la nostra bellezza e fedeltà.

Confrontiamoci con le sfide che tanti nostri fratelli hanno saputo affrontare con la certezza che la fede e l’amore possono donare.

Non diciamo mai, e neppure pensiamo, fratelli e sorelle, che siamo ‘buoni a niente’.

Tutti siamo chiamati ed abbiamo carismi capaci di costruire lo stupendo mosaico della civiltà dell’amore.

Come Papa Francesco ha ricordato in un’udienza generale:

“L’attesa del ritorno del Signore è il tempo dell’azione: noi siamo nel tempo dell’azione, il tempo in cui mettere a frutto i doni di Dio non per noi stessi, ma per Lui, per la Chiesa, per gli altri, il tempo in cui cercare sempre di far crescere il bene nel mondo. E in particolare, in questo tempo di crisi, oggi, è importante non chiudersi in se stessi, sotterrando il proprio talento, le proprie ricchezze spirituali, intellettuali, materiali, tutto quello che il Signore ci ha dato, ma aprirsi, essere solidali, essere attenti all’altro”.

Non resta che impegnarci, sapendo di non essere soli nel cammino.

Antonio Riboldi – Vescovo

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